ROMA | GALLERIA MUCCIACCIA | FINO AL 1 MARZO 2025
di MATTEO DI CINTIO
È una operazione editoriale recente il recupero dei diversi seminari che il filosofo francese Jacques Derrida tenne prima alla Sorbona, poi presso l’École normale supérieure di rue d’Ulm e infine presso l’École des hautes études en sciences sociales, oltre che in molte università americane. Si tratta di seminari intrisi dal vigore/rigore che il filosofo era solito dimostrare per l’insegnamento, ma anche di un vero e proprio “campo di forze” dove articolare il suo più incisivo contributo filosofico, ossia l’invenzione della decostruzione. Lavielamort, il seminario tenuto fra il 1975 e il 1976, è di certo uno dei più fruttuosi: già il titolo lascia spazio ad un’ampia riflessione. È da leggere così, tutto d’un fiato, come a rimarcare l’assenza o lo spazio vuoto della congiunzione fra le due parole. Fra la vita e la morte, per Derrida, si azzera quella forma di relazione che indica simultaneamente la contrapposizione. E mettere in discussione il carattere opposizionale che da sempre, o almeno nella nostra tradizione filosofica e teologica, è intercorso fra queste istanze significa insistere, invece, su una “compresenza differenziale” delle stesse, come ha suggerito recentemente (e felicemente) la filosofa Silvia Vizzardelli. La vita la morte, quindi, assunte come un unico sintagma che non miri a significare né opposizione, né identità: è questo anche il trait d’union che collega Songs of the Canaries e Songs of the Gypsies, le due splendide mostre di Jan Fabre allestite presso gli spazi della Galleria Mucciaccia di Roma (fino al 1° marzo 2025).
Grazie alla capacità sondativa della sua esperienza artistica, Fabre assume appieno l’intuizione derridiana di cui sopra per suggerirci che l’arte è e dev’essere uno spazio sperimentale per liason differenziali, una procedura disciplinare, rigorosa, bianca e al contempo coloristicamente accogliente, che possa permettere alla vita e alla morte di compenetrarsi e divenire campi di possibilità l’una per l’altra. Un affondo sul punto, a nostro avviso importante, è esplicabile solo se ci si immerge appieno nella poetica del noto artista belga, sulle modalità e il gesto attraverso cui la sua opera d’arte diventa tale. Se di poetica si parla, non possiamo non osservare che l’impasto fra vita e morte, così difficile da poterlo solo pensare, è reso comunicativo dall’apparato archetipico della musica. È il suono, infatti, ad irrompere come un manto simbolico pronto a velare l’incandescenza cruda e reale della vielamort attraverso due escamotage degni di riflessione. Nella mostra Songs of the Gypsies le sculture marmoree e levigate dell’infante, figlio dell’artista, accolgono gli spartiti delle più conosciute melodie di Django Reinhardt, famoso chitarrista jazz che ha saputo inventare un proprio stile compositivo ed esecutivo alla chitarra a partire da una malformazione della mano sinistra procuratasi a causa di un incidente. Fabre “tatua” gli spartiti sulla schiena del bambino. Le note intingono di nero l’etereo e fluttuante biancore delle forme del corpo. Potremmo dire che è insito in questo atto un principio di nominazione: il fraseggio musicale è il precipitato metonimico del nome, del tratto dell’amore che un padre offre al proprio figlio, anche semplicemente nominandolo.

Jan Fabre, The Peacemaker (of Art), 2024, Carrara marble, ph. Pierluigi Di Pietro.
Il “nome” è per tutti noi un’aporia: è un significante che si “aggrappa” alla nostra pelle e orienta le nostre vite, una sorta di marchio. Ma è anche ciò che bonifica quell’aggrumo pulsionale sfaccettato e incongruo riconosciuto come essere parlante, o «parlessere» direbbe Lacan. Su questo aspetto – e non è un caso se nell’opera The Peacemaker (of Art) la posizione della mano destra del fanciullo richiami esplicitamente la simbologia della benedizione del Cristo Pantocreator – Fabre protende per far emergere l’aspetto salvifico del processo di nominazione, nonché una susseguente e necessaria (ri)valutazione della figura del Padre. Il corpus di dipinti che perimetra lo spazio attorno alle statue, contrappunti improvvisativi del giovane Fabre con il padre, impiastro felice di colori e simboli inusitati, ci evidenziano ciò che giustamente Massimo Recalcati scrive a proposito della funzione del padre, cioè di «colui che porta la parola e che in questo atto sa umanizzare l’evento della vita. Il padre è qui l’Altro del riconoscimento simbolico: egli si esprime nell’atto che genera quella “parola piena” che consente al soggetto di iscriversi in una filiazione simbolica, di riconoscersi come […] vita umana, singolare, unica e insostituibile».

Manoir de mes rêves, 2024, children’s paint and drawing pencils, ph. Pierluigi Di Pietro.
L’adozione simbolica alla vita che il padre preserva non elude il problema della morte e della finitudine. Per tal motivo Songs of the Canaries è il negativo della prima mostra o, per slancio decostruttivo derridiano, la cellula motivica che già s’insidia nel candore della fanciullezza. Anche qui riscontriamo un simbolismo musicale e cristiano ragguardevole. Secondo una nota leggenda risalente all’epoca carolingia, il canto gregoriano, la musica più vicina a Dio, è stato suggerito a papa Gregorio proprio da un volatile, una sorta di medium dello Spirito Santo intento a disvelare agli uomini il segreto dell’armonia divina.

Jan Fabre, Measuring the neurons, 2024, carrara marble, ph. Pierluigi Di Pietro.
Il canarino nell’opera fabreriana irrompe fra le sinapsi di un cervello scoperto come un anelito al mistero. Della vita o del suo al di là non ha importanza: Fabre ci invita ad avere a che fare con entrambe le dimensioni, tendendo, fino all’estremo, le possibilità della mente umana di smobilitare i propri limiti, scompaginare le dinamiche più ovvie del senso per lambire una codificazione onirica e trascendentale del cosmo. Non è un caso se la rappresentazione segnica dei neuroni su Vantablack orchestri una costellazione di sfumature pastellate che proiettano la visione verso sconfinamenti cosmici, supernove in espansione, territori extramondani, dove anche il mistero della morte viene reso più carezzevole, lucente.

Jan Fabre, The measuring of neurons, 2024, color pencils on Vantablack, ph. Pierluigi Di Pietro.
Nelle opere di Songs of the Canaries collimano, a proposito di morte, due personaggi: i canarini richiamano la figura di Robert Stroud, ornitologo e omicida; ma al contempo interagiscono con la figura di Emiel Fabre, fratello dell’artista deceduto in giovane età a causa di una malattia chiamata in dialetto fiammingo “il canarino canta troppo forte nel suo cervello”. Procurare la morte/essere colpiti dalla morte: due declinazioni della recrudescenza dell’esistere che però trovano una quiete salvifica nel biancore espressivo e placido dell’arte di Fabre. Lavielamort trova estrema espressione nella scultura The Man Who Measures His Own Planet: Jan, Emiel e Robert si condensano in un’unica figura, un’unica mente tesa alla misurazione del cielo. Non sembra forse questo il miglior posizionamento che può avere l’uomo rispetto a quel concentrato di forze che tengono vita e morte assieme? Trasformare la propria impotenza nei confronti dell’esistenza in impossibile e decidere, a partire da quest’ultimo, lo stile che alimenta la propria vita?

Jan Fabre, The Man Who Measures His Own Planet, 2024, carrara-marble-detail, ph. Pierluigi-Di-Pietro.
Jan Fabre
Songs of the Canaries
(A tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud)
Songs of the Gypsies
(A tribute to Django Reinhardt and Django Gennaro Fabre)
31 gennaio – 1 marzo 2025
Galleria Mucciaccia
largo della Fontanella di Borghese 89, Roma
Orari: dal lunedì al sabato 10.00 – 19.30; domenica chiuso.
Ingresso libero
Info: tel. 06 69923801
roma@mucciaccia.com
https://mucciaccia.com/it/mucciaccia-gallery-roma/