VENEZIA | 17. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale | 22 maggio – 21 novembre 2021
di ILARIA BIGNOTTI
Favi di api che scolpiscono il volto di Nefertiti e capsule spaziali; danze tribali di sculture antropomorfe che nascondono i testi progettuali e una marea di pannelli interattivi; tende a testa in giù e tantissima acqua, acqua dappertutto, riciclata, deviata, trasformata nei suoi vari stati; ampolle e terrari – un’efflorescenza continua; e tantissimi bambini che si muovono tra i Padiglioni e le Corderie dell’Arsenale.
Una Biennale che esplode gioiosa, resiliente, comunitaria.
Una Biennale che aspetta il pubblico, o meglio, che lo necessita.
Una Biennale come un laboratorio, forse non del tutto completato, aperto al margine dell’errore e dell’ipotesi.
Una Biennale per mancini zoppi, direbbe Michel Serres.
Una Biennale per giocare alla mossa del cavallo, ribatterebbero gli architetti radicali.
Una Biennale, insomma, che spiazza eppur coinvolge, si espone all’altro e forse anche alle critiche dei puristi.
Non aspettatevi minimalismo e rigore; e nemmeno progettazione e canoni.
Molta contaminazione, molta atmosfera, e molta energia.
Queste le sensazioni “a caldo” di chi, con la lente della curatrice d’arte e di archivi d’artista, si è immersa per tre giorni nel main program di questa 17esima edizione, con l’intento di provare a tracciare alcune indicazioni sulle relazioni principali – o meglio sarebbe dire, le contaminazioni – tra i linguaggi visuali e, appunto, l’architettura.
Più che cercarle, queste relazioni, sono venute addosso, travolgendo e stravolgendo i consueti parametri di visita e di lettura.
Del resto bisognava aspettarselo, e sin dal titolo dato dal suo Direttore, Hashim Sarkis, How We Will Live Together?, a partire dal fatto che bisognerebbe capire a chi, in primo luogo, si rivolge la domanda: a noi, gli utenti – fruitori – abitanti l’architettura? A loro, i progettisti – pianificatori – costruttori? A chi pensa, a chi produce? A chi comanda, e comanda cosa?
La sensazione è proprio questa, che la domanda sia una chiamata corale che rimescola tutte le distinzioni, non solo a livello professionale – e per questo la Biennale non si rivolge solo ai Signori Architetti, ma a tutti coloro i quali si adoperano per costruire il mondo nel quale viviamo – ma anche i generi e le specie viventi.
Come se tutto d’un colpo questa pandemia avesse dimostrato che l’infinitamente piccolo, appunto, il non tracciabile, ciò che sfugge all’occhio e anche si è visto ai laboratori dell’uomo – un virus – è potente quanto una macchina congegnata e rodatissima, costruita da una comunità operante e preparata; la vita ce lo ha dimostrato, del resto. E il suo contraltare, la morte.
Il microscopico e il mastodontico; il grano di terra e la piattaforma virtuale; le macchine potenti e celibi, i semi germinanti e i girotondi dei bambini, a perder tempo su una riva.
Una tenda provvisoria e i sensori di più moderna generazione.
Di cosa abbiamo bisogno per vivere assieme?
Viene da dirlo, abbiamo coraggio nel scriverlo: abbiamo ancora bisogno dell’Arte. Dell’arte in generale, dell’arte in tutte le sue declinazioni. L’arte del camminare, l’arte del cucinare, l’arte del riciclare, l’arte di pensare a un altro modo per abbracciarci, per guarire, per amarci, per morire.
L’arte di vivere insieme in un mondo che non sa più cosa voglia dire, insieme.
Troppo facile dichiarare: si riparte dal basso. Troppo facile, troppo politically correct.
Credo che Sarkis abbia, per questo, guardato neppure così di sguincio all’architettura radicale: a quando si voleva tornare a parlare di architettura senza farla, o meglio, facendola a pezzi, meticciandola, mescolando la Kaaba al Vertical Building, gli Atti elementari al tecno-morfismo, il Pianeta come Festival all’architettura senza pareti, concettuale. Non credo sia una questione di postmodernismo. Ma di antimodernismo. Di attacco congiunto a qualsivoglia supremazia culturale, politica, architettonica, anche.
Per questo, l’Arte, e i rimandi tanto alla comunità-bottega – nel senso più anti-moderno del termine, con uno sguardo al medioevo e uno a Bruno Latour – quanto all’antropologia e alle scienze sociali, senza però tuttavia quella marea di grafici e previsioni statistiche che di stabile non hanno nulla e quindi tanto vale farne a meno.
È vero, un po’ la terra trema sotto i piedi, a ben pensarci.
Perché nulla viene allora a definirsi.
Ma il punto di domanda c’è proprio nel titolo, che inizia con un “come” e finisce con “insieme” (forse, insieme, in che modo?).
Da conservatrice e storica dell’arte che lavora spesso per archivi e deve procedere comunque con un minimo di organizzazione, ho provato a fare degli elenchi di senso e di azioni passeggiando tra i Giardini e l’Arsenale, e visitando qualche padiglione al di fuori – come quello della Lituania, per esempio, dove uno spazio metafisico e argenteo si impossessa degli ambienti della Chiesa di Santa Maria dei Derelitti: una specie di manto riflettente e avvolgente sul quale proiettare l’immaginazione extraterrestre e l’estetica gravitazione, in modalità interattiva.
Gli elenchi mi hanno da sempre accompagnato e a partire da questi elenchi mi piace procedere per sfere nelle quali inserire immagini, parole, concetti: sfere fluide e osmotiche che di solito congiungo fino a sovrapporre, in una trama tentacolare e molto poco consequenziale.
L’approccio, non è un mistero, è quello warburghiano e questa Biennale ne risponde, sotto vari aspetti.
Ho trovato moltissime immagini e riferimenti alle scale, innanzitutto.
Scale da salire e scendere: scale provvisorie, passaggi di scala, scalate mentali, scale dimensionali: dalla facciata del Padiglione USA, dedicato al tema dell’American Framing, alle scale che conducono, in Arsenale, a gusci protettivi di filamenti plastici dove rifugiarsi temporaneamente, le scale sospese e leggerissime tenute su da nylon che salgono fino alla sommità, alle scale e scalette del Padiglione di Norvegia, Svezia e Finlandia, dove abitare davvero, fermarsi, dialogare, e accorgersi solo allora che siamo parte di una installazione dove ognuno di noi mescola le carte e contribuisce alla costruzione di un presente continuo e dinamico.
Se in USA si parla di American Framing, il concetto di telaio riconduce al tema-azione della tessitura di cui parimenti questa Biennale è invasa, quasi ridondante: intrecci, nodi, ingorghi di filamenti vegetali, animali, industriali, tessuti di riuso, trame di persone, di vite, una rete vivissima di connessioni e relazioni, griglie impazzite, cromatiche, interconnesse a farci capire che siamo frutto di una mescolanza, che tutti veniamo da un unico abbraccio: gioiosamente, drammaticamente umano, e cosmico insieme. Immagini che riconducono a tanti artistә che oggi e ieri su questo tessere e far tessere opere hanno dedicato e declinato la loro indagine, da Sheila Hicks a Letizia Cariello, da Maria Lai a Francesca Pasquali, da Claudia Losi a Laura Renna…
Operose, brulicanti artiste che tessendo l’opera tessono il mondo, lo rimettono al mondo – e un altro grande convitato di pietra è Alighiero Boetti, anche e non solo per le sue operazioni di tessitura demandata, con le sue Mappe straordinarie che già allora chiedevano: come disegneremo il mondo insieme? E non rispondevano, o meglio facevano impazzire planisferi e rotte preordinate.
Assieme alla tessitura, e al suo minimo comun denominatore – la manualità, anche solo nel comandare una macchina che alla mano deve accordarsi – è la terra che le mani raccolgono, scavano, stringono, depredano, restituiscono, pugno chiuso pugno aperto, mani strette agli attrezzi del fare, mani strette tra di loro, mani in alto, mani tese.
Terra madre e regina, sperimentata e sperimentatrice, onnivora e padrona di noi tutti.
Terre messe in vitro, terre fatte a pezzi, terre riconquistate, terre resilienti: il Padiglione Italia ne è pieno, trasuda racconti e immaginazioni sul rapporto, anche sottile, tra i cambiamenti climatici, la pandemia – che del resto ad essi è legata – e la resilienza di comunità di artisti, uomini, animali e vegetali che insieme operosi si stanno riprendendo una dimensione di relazione con la terra. Una terra dove scorre acqua, tanta acqua che continua malgrado tutto a ricordarci di vivere: così è nel padiglione danese, dove sembra di essere immersi in un salotto fluttuante dove tutto ritorna liquido e vitale, dalla tazzina del the alle fioriere, alla fogna, alla nostra sete.
Terra – e acque – che ritrovo tra gli artisti della mia generazione, da Andrea Francolino a Silvia Infranco, da Fabio Roncato a Serena Vestrucci e Luca Trevisani, immagini di un mondo che è un bucranio contemporaneo, brulicante di immagini che si fondono in un rinnovato saper fare con le mani – Global Tools, insegnarono a un certo punto gli architetti radicali, dobbiamo tornare ad un’architettura fatta di elementi e gesti-azioni primordiali.
In attesa di ricominciare a camminare, quando poi non ci siamo mai fermati: punti di sosta, stazioni, ripari temporanei, tende: il provvisorio e il transeunte. Centri di permanenza temporanea, e viene da citare tutta la ricerca di quegli artisti che si sono mossi in questi territori di migrazioni e migranti, lavorando sui problemi e sulle persistenze dei passaggi di uomini e donne attraverso l’unico confine che ci è dato avere: i limiti della nostra mente, da Adrian Paci a Francis Alÿs, tanto per estendere in due paradigmi di approccio artistico al tema e suggerire un dialogo.
Case che vengono spostate o temporaneamente disposte, nei loro elementi fondanti, nel corso del tempo – come ci mostra il Padiglione del Giappone, che sin dal titolo è sibillino, Co-ownership of Action: Trajectories of Elements; e se questo potrebbe essere uno dei padiglioni più architettonici, si ha la sensazione, anche qui, di provvisorietà; la casa è qui, possiamo costruirla. Ma forse la spostiamo.
Come nel Padiglione del Belgio, che tracciando la storia dell’architettura fiamminga degli ultimi vent’anni, ci chiede come possono, assieme, vivere ovvero interagire città e architettura. La sensazione è che tutto possa accadere e che la vita in comunità possa rimettere in discussione ogni piano precostituito, in un attimo.
Lo abbiamo appena sperimentato, del resto.
Il vuoto, il procedimento sottrattivo, non sono il punto forte di questa Biennale.
Tranne che per la Germania. Il Padiglione inquieta: i bolli del distanziamento ai quali l’ultimo anno e ormai quasi mezzo ci ha abituati, diventano degli specchi a terra.
Grandi QR code ci guidano e parlano – se vogliamo ascoltarli, portandoci al 2038.
Un vuoto asfittico e snervante che ci fa specchiare appena se torniamo a guardare ai nostri passi per terra.
How We Will Live Together?
Mezzo secolo fa, se lo chiedevano ancora loro, gli architetti radicali: non son la prima a dire che vi sono diverse connessioni tra questa Biennale e quel gruppo di ricercatori dell’architettura che tra fine anni Sessanta e inizio anni Settanta disse che “L’unica architettura sarà la nostra vita” (così i Superstudio, a proposito degli Atti fondamentali. Vita, Educazione, Cerimonia, Amore e Morte, poi finiti in pompa magna al Moma di New York, nel 1972).
Di domande ne facevan tante anche loro.
“Cosa faremo – Staremo in silenzio ad ascoltare il nostro corpo, sentiremo il rumore del sangue nelle orecchie, i leggeri scricchiolii delle giunture o dei denti, esamineremo la grana della pelle, i disegni dei peli e dei capelli. Ascolteremo il nostro cuore e il nostro respiro. Ci guarderemo vivere. Eseguiremo complicatissime acrobazie muscolari. Eseguiremo complicatissime acrobazie mentali. (…) Riusciremo a creare e trasmettere visioni e immagini, forse anche a far muovere piccoli oggetti per gioco. Faremo giochi bellissimi, giochi d’abilità e d’amore. (…) Andremo in luoghi lontani solo per guardarli (…)”
Io non riesco a dire se è un pensiero positivo o se è tragico, se l’architettura ci darà una mano e se per farlo dovrà distruggere – lo sta già facendo? – le sue regole e i suoi principi.
So che questa Biennale è piena, traboccante non solo di domande, ma anche di ipotesi, di idee, di laboratori.
E di arte.
Per me, è di buon auspicio.
17. Mostra Internazionale di Architettura.
How will we live together?
a cura di Hashim Sarkis
22 maggio – 21 novembre 2021
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