L’ARTE NELLO SPAZIO URBANO. L’ESPERIENZA ITALIANA DAL 1968 A OGGI | JOHAN & LEVI EDITORE
Intervista ad ALESSANDRA PIOSELLI di Francesca Caputo
La storia dell’arte urbana in Italia è densa, complessa e ricca di articolazioni. La sua centralità si è notevolmente intensificata negli ultimi anni. Il volume di Alessandra Pioselli, L’Arte nello spazio urbano – Johan & Levi, 2015 – ricostruisce questa complessità, indagando dal 1965 ai giorni nostri le esperienze salienti, le differenti posizioni teoriche e modalità d’intervento adottate degli artisti nel contesto specifico del nostro Paese, delle sue trasformazioni socio-politiche, nel continuo confronto con la politica di gestione del territorio e le questioni ambientali, urbanistiche. Una riflessione sulle forme di arte partecipativa che hanno saputo generare uno spazio di condivisione, facendo emergere la memoria, la storia, ma anche conflitti e contraddizioni di una comunità, del territorio, della collettività.
Ne abbiamo parlato con Alessandra Pioselli.
Come nasce la ricerca? Con quale taglio è indagato lo spazio urbano in Italia?
Prende avvio dall’indagine confluita nella mostra Fuori! Arte e spazio urbano 1968/1976, curata con Silvia Bignami al Museo del Novecento di Milano nel 2011, che originava da precedenti studi.
Il libro unisce un’impostazione storica, fondata su ricerche d’archivio e sul campo, a un approccio critico e socio-politico. È anche una storia d’Italia: la pratica artistica come lente per leggere i cambiamenti del Paese, le ricadute sui modi di gestire, vivere, immaginare le città. Il filo portante è la nozione di partecipazione, com’è stata intesa, agognata, criticata, sconfessata.
Quali posizioni caratterizzano le pratiche artistiche nei nuclei periferici e minori?
Emerge il ruolo fondamentale della provincia, spesso vissuta dagli artisti come luogo alternativo alla centralità del potere e del mercato. Questa storia si intreccia con i problemi dei nuclei storici, il decentramento amministrativo, le identità locali. Nel Sud, ma non solo, è lampante la spiccata valenza antropologica di molte pratiche urbane in chiave politica, per il riconoscimento di una cultura popolare e materiale espropriata.
L’indagine prende avvio dagli anni cruciali del 1967-1968, quando l’arte entra nella vita quotidiana. Quali sono state le esperienze prese in considerazione?
L’interesse per la dimensione sociale delle città prende diverse strade: quella performativa e processuale dell’happening connota molte manifestazioni urbane, come il Festival di Fiumalbo nel 1967-1968; e la via in favore di azioni più strutturate e socialmente integrate nei territori (come il Premio Piazzetta a Sesto San Giovanni, tra il 1973-1976). La scultura ambientale si diffonde con rinnovata funzione civica in autori come Carrino, Staccioli, Consagra, Somaini.
Cosa cambia negli anni Settanta? Che tipo di scenario si delinea e quali interpretazioni scaturiscono?
È la stagione dei collettivi e della cooperazione che, con declinazioni diverse, sostanzia molte esperienze sulla base della condivisione e della trasformazione dell’artista in operatore, “attivatore della creatività collettiva”, come scriveva Crispolti.
Ho scelto quattro casi esemplificativi. Il Collettivo autonomo di Porta Ticinese assume una posizione antagonista al servizio dei movimenti sociali e della sinistra extraparlamentare; gli Ambulanti sfruttano il potenziale della fiaba e dell’immaginario popolare nei vicoli napoletani; il Gruppo Salerno 75 valorizza il segno come mezzo di partecipazione nella ricerca analitica sulle tracce urbane storiche; il Laboratorio di comunicazione militante socializza gli strumenti dell’analisi mediale in un’ottica anche di formazione. In area campana c’è parecchio fermento.
Cosa succede negli anni Ottanta? Quali gli artisti che, in controtendenza con il riflusso storico, riallacciano il rapporto arte-pubblico-territorio?
I grandi centri perdono popolazione a causa della deindustrializzazione. Nelle aree dismesse si concentrano gli interessi politico-economici. Tuttavia, la città esce dalle ricognizioni degli artisti. La triade politica-arte-città abbraccia il passo della de-ideologizzazione.
Bisogna ricordare, però, che all’inizio degli anni ‘80 parte il cantiere di Gibellina e Maria Lai fa un’operazione emblematica, Legarsi alla montagna. A metà decennio, il Gruppo di Piombino prende le distanze dall’autoreferenzialità dei “ritorni alla pittura”, modulando chiavi d’analisi psicologica-comportamentale. Emerge una generazione di artisti – quella di Wurmkos, Vitone, Viel, Fantin, Premiata Ditta – incline a rendere elastica la demarcazione dell’opera e problematica la nozione di pubblico, a sondare contesti extra-espositivi, extra-istituzionali.
Con quali accezioni, negli anni Novanta, si diffondono le pratiche relazionali e urbane?
Un aspetto peculiare del panorama italiano è la gradazione intima, affettiva, simbolica che connette, in una dimensione plurale e comunicativa, elementi della propria storia all’altro da sé. Come nel lavoro di Cattani, Vaglieri, Pellegrini, Mocellin.
La città e gli aspetti socio-politici sono nuovamente nodali, a causa di rilevanti mutamenti. Nasce la Lega Nord e i primi governi Berlusconi. L’Italia scopre l’immigrazione. Tangentopoli scoperchia il sistema di corruzione politico-affaristico che considera il territorio moneta di scambio. L’arte affronta nuove emergenze: la metropoli inquieta, ansiosa, terreno di scontro tra differenti concezioni d’identità e cittadinanza, va esplorata in prima persona, ascoltata (come faranno gli Stalker, Umbaca, Vitone, Di Bello) con nuovi immaginari per comprenderla.
Quali approcci caratterizzano gli anni più recenti?
L’orizzonte si è arricchito sempre più di riferimenti culturali. Data la maggiore diffusione di pratiche urbane e l’apertura di alcune istituzioni, credo che oggi sia necessario ripensare i termini e il loro uso: pubblico, luogo, partecipazione, condivisione, per evitare che siano etichette di comodo e domandarsi quali gesti e segni siano davvero necessari, specificando che la necessità non risponde all’utilità.
Rispetto agli anni ‘90, c’è una maggiore volontà di fare sistema e un ampliamento delle reti con contesti plurali della società civile. Particolare attenzione è data alla comunicazione e documentazione della propria pratica, riflesso dell’era dei social network. Questo pone un problema, lo scarto tra il fare e il narrare.
Perché è mancata una storicizzazione di ampio respiro sull’arte urbana in Italia?
L’assenza di cui parli è dovuta a una più generale difficoltà a storicizzare l’arte italiana – a parte percorsi già consolidati, come l’Arte povera – andando a setacciare le pieghe di storie meno note. Le ragioni sono tante: la tendenza del sistema dell’arte e museale a ragionare per mode, mercato ed esterofilia, non valorizzando risorse, fonti e intere generazioni di artisti del nostro Paese, anche se dense di visioni. C’è poi la difficoltà di fare ricerca sul contemporaneo nelle università. Servirebbe tempo e sostegno.
Il libro nasce proprio dalla rilevazione di questa mancanza, dal desiderio di riconoscere e storicizzare esperienze a volte poco conosciute, recuperare le fonti critiche di riferimento e tracciare la via italiana dell’arte nello spazio urbano, che si dimostra ricchissima.
Quali sono i motivi della marginalità dell’arte nello spazio urbano entro il dibattito nazionale e nell’opinione pubblica?
Dal secondo dopoguerra, in Italia ha prevalso l’ingerenza di interessi privatistici e affaristici nella gestione del territorio, mentre i beni culturali, paesaggistici non sono stati il soggetto di una politica educativa e formativa programmatica. Il rapporto tra arte, territorio, città, va inquadrato in questa cornice più ampia e risente di tali vicende. Il governo Renzi ha varato il piano per le periferie, ma già l’uso di questa categoria è problematico. Sara Marini evidenzia l’attualità del pensiero di Giancarlo De Carlo nell’avere posto l’architettura come “questione culturale”, riconoscendo la “necessità di coltivare l’immaginario progettuale della società”.
Tale necessità è anche nei confronti dello spazio pubblico e urbano. È questa la reale partecipazione. L’arte può contribuire a sollecitare questo immaginario. Talvolta avviene su piccola scala. Ci vorrebbe una convergenza di forze per fare emergere un dibattito su scala nazionale e fare in modo che diventi un patrimonio diffuso, capillare, comune.
Alessandra Pioselli
L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi
Johan & Levi editore, 2015
www.johanandlevi.com