BOLOGNA | Museo Civico Archeologico di Bologna | 24 gennaio – 16 marzo 2014
Intervista a MARCO SCOTINI di Massimo Marchetti
In occasione della mostra Il Piedistallo Vuoto. Fantasmi dall’Est Europa (vedi recensione), sull’onda dell’interesse e del fascino suscitato da questo intrigante progetto, abbiamo intervistato il curatore Marco Scotini, per un ulteriore approfondimento del merito delle sue indagini e delle sue ricerche in questo interessante ambito sperimentale delle espressioni artistiche attuali.
Grazie a quale occasione e attraverso quali canali il tuo percorso di ricerca sui rapporti tra arte e dissenso politico ha iniziato a convergere sugli artisti di questa specifica area geopolitica?
Nel 1994, tre anni dopo lo scioglimento definitivo dell’Unione Sovietica e al momento del passaggio del potere italiano all’impresa mediatica berlusconiana, incontravo uno dei più radicali testimoni della Deutsche Wende come Heiner Müller. Per me il grande drammaturgo della ex-Repubblica Democratica Tedesca nonché l’allievo di Bertold Brecht, era diventato da anni una sorta di simbolo del Muro di Berlino: della stessa città di Berlino e della sua storia divisa. Alla mia domanda sulla fine delle utopie, Müller rispondeva che, nonostante tutto, un buco per terra va comunque fatto per vedere cosa ne esce fuori. Dopo poco, il tetto a piramide del Berliner Ensemble fu ricoperto da un grande drappo nero perché Müller se n’era andato per un cancro alla gola. Spettava a noi vivere e verificare negli anni cosa sarebbe stata l’unione del mondo dopo la caduta della Cortina di Ferro. Ecco, credo che questa radicale macchina amletica che era Heiner Müller, questo dilaniato Hamletmachine (è un suo testo del ‘77), mi abbia lasciato questa voglia di esplorare cosa c’era al di là del muro: all’inizio, Praga, Bucarest, San Pietroburgo, Mosca. Zagabria, Tirana, Riga, Tallin, Vilnius, poi. Infine il Centro Asia con Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan, ecc. Tutta questa immensa regione frammentata era per me una sorta di implicita resistenza al neoliberismo contemporaneo anche nel momento in cui, in realtà, non faceva altro che aprirgli le braccia.
È stato abbastanza sorprendente trovare inseriti in collezioni italiane artisti così interessanti ma marginali rispetto al mercato e al mainstream. C’è qualche aspetto particolare delle poetiche dell’Est Europa che viene messo in evidenza dalle scelte di questi collezionisti?
Le collezioni italiane convocate per la mostra Il Piedistallo Vuoto sono tutte generazionalmente giovani anche se hanno un carattere museale, quasi fossero delle istituzioni autonome, dentro un paesaggio che invece di autonomia ne vede poca. Intendo dire che sono nate tutte dopo gli anni ’90 e dunque sviluppate in parallelo alla scoperta della scena artistica dell’Est Europa. Tutto questo non giustifica però l’entusiasmo e gli ottimi lavori trovati in queste collezioni: è stata una vera sorpresa. Credo che proprio nella selezione di questi pezzi i collezionisti abbiano dimostrato la loro libertà di scelta, nel senso che uno può acquisire un’opera mediocre di un artista come Damien Hirst ed è comprensibile il motivo economico che detta la scelta. Ma anche il motivo che la spersonalizza allo stesso tempo. Il fatto di non correre dietro al grande nome è, invece, ciò che paga in termini di singolarità della collezione. Questa volta ho deciso dunque di trovare l’Est in casa, piuttosto che uscire fuori dall’Italia come ho sempre fatto.
Se pensiamo ai grandi dissidenti del blocco sovietico come Sakharov, Solgenitsin o Havel, possiamo notare come i loro obiettivi fossero legati alla manifestazione esplicita della critica. Pensando alle pratiche ai limiti dell’invisibilità di artisti come Akhunov o Kovanda, in che misura questi artisti si sono sentiti portatori di un dissenso, e quanto la divergenza espressa anche implicitamente dai loro lavori è stata funzionale ai mutamenti di quella società?
Diciamo che questa è un po’ la lente bipolare con cui i critici occidentali hanno guardato all’arte dell’Est, riproponendo continuamente la contrapposizione tra arte ufficiale versus arte dissidente. Potrei risponderti ancora con Heiner Müller, in una lettera inviata al quotidiano Le Monde del 1979. “…i clichè dei media rispetto al socialismo – dissidenza e/o dogma – eludono la realtà. La realtà non sta negli estremi”. Quello che è all’opera nel lavoro di molti artisti è una trasformazione della soggettività dissidente. Artisti come Kovanda, Grigorescu, Koller o Akhunov operano negli anni ’70 contro un’idea dell’individuo autonomo, della soggettività forte e (in ogni caso) imperialista. Lo spazio d’intervento non è immediatamente quello della politica ma, più estesamente, quello dell’etica: della vita di ogni giorno, delle astuzie del quotidiano, di una sopravvivenza intellettuale, di un’altra resistenza.
In apertura della mostra hai messo in scena un dialogo emblematico tra due lavori: da un lato del corridoio la sedia vuota del guardasala di Roman Ondàk, e dall’altro le copie delle copertine dei cataloghi delle mostre europee del MoMA degli anni Cinquanta, opere di un artista che si cela sotto il nome di Museum of American Art. Un fantasma, quindi, che osserva altri fantasmi di altra natura. In questo gioco di sguardi, qual era la lettura prevalente che nell’ambito delle avanguardie dell’Est si dava dell’arte occidentale coeva? E nel corso dei decenni ci sono stati dei cambiamenti significativi all’interno di questo punto di vista?
Credo che la libertà dell’arte occidentale sia stata l’oggetto del desiderio delle pratiche artistiche non ufficiali dell’Est, nate negli anni ‘60 e ‘70. Gli artisti vivevano in una sorta di isolamento e privi delle opportunità di pubblicare testi o esporre opere. La coscienza di stare operando all’interno di una scena artistica esisteva soprattutto nell’immaginario di ciascuno e in modo diverso, per cui si poteva immaginare anche “il mondo dell’arte contemporanea occidentale”. Nei pochi casi in cui c’è stato un rapporto di confronto esplicito, come nella Jugoslavia di Tito – che era uno dei paesi non allineati – gli artisti si sono ispirati alle ricerche estetiche occidentali ma hanno avuto una grande riluttanza verso il mondo delle gallerie e del mercato, che ancora conservano. Penso a figure come Mladen Stilinovic o Sanja Ivekovic. L’unica galleria che ricordo in questo tempo è la Foksal in Polonia che apre nel 1966 ma che è tutt’altro che uno spazio commerciale. Più interessante è invece rovesciare il problema e vedere come noi abbiamo guardato all’arte dell’Est, oltre la cortina. La storia è sempre quella dei vincitori, per cui quella che chiamiamo storia dell’arte contemporanea è quella filoamericana dell’Ovest. Per questo ho inserito all’inizio il dialogo muto tra un custode (assente) e dei cataloghi (assenti) che rimandavano alla guerra fredda, al tempo in cui l’America esportava tanto arte astratta quanto democrazia astratta. Ora dobbiamo invece riscrivere una nuova storia dell’arte, sbarazzandoci del modello egemonico che per anni ha imperato.
Nella narrazione alternativa della storia dell’arte che con questa mostra proponi, il ruolo dell’arte prodotta in occidente può sembrare a tratti ridimensionato per eccesso di autoreferenzialità, ma a volte addirittura rafforzato per come sia servito da serbatoio di linguaggi. Qual è secondo te il modo migliore per “rivedere” la nostra storia ufficiale?
Mi pare che abbiamo cominciato a riscrivere la storia dell’arte contemporanea a partire dagli anni ’90, con l’emersione dell’Est e delle ex-colonie. L’erosione dell’orizzonte utopistico in cui l’arte tanto occidentale che sovietica si era attestata ha condotto ad un nuovo rapporto tra arte e politica. Se l’Ovest rivendicava l’autonomia e l’apoliticità dell’arte, l’Est censurava qualsiasi cosa che non rientrasse entro i dettami politici. Ora come rileggere tutto questo attraverso un muro piuttosto poroso che compatto, che non abbia la solidità di quello di Berlino?
Diversi artisti delle vecchie generazioni hanno rivendicato più volte la “a-politicità” dei loro lavori, e per questo Claire Bishop parla di un’arte che fondamentalmente era volta a esprimere il valore di una liberazione individuale in un contesto dove la sfera del privato era sostanzialmente usurpata. Dal tuo punto di vista, quali posizioni ritieni possano essere riscontrate relativamente all’idea di collettività e di socialismo nei lavori in mostra?
Non parlerei di “liberazione individuale” come fa la Bishop. Nei lavori di questi artisti l’individuo (psicologicamente inteso) non esiste. C’è al contrario la rivendicazione di un’appartenenza comune, di un corpo comune che riusciamo ancora a trovare negli artisti emersi a quelle latitudini dopo il crollo della Cortina di Ferro. Preferirei dire che c’è tutto un laboratorio di nuove soggettività che per noi oggi hanno una grande rilevanza. L’individuo è isolato ma comune: non ha nulla da rivendicare come proprio, come appropriazione privata. In tutta l’arte dell’Est l’artista è l’osservatore e l’oggetto osservato allo stesso tempo. Non ci sono spettatori, critici, storici, gallerie, musei, ecc. e l’artista diventa involontariamente tutto questo. Si moltiplica in più dimensioni ma non si scinde. Non mette in scena il separato come tale, come invece abbiamo fatto noi con l’arte e i luoghi in cui essa si dice e si fa. Dunque non c’è qui l’artista e là la collettività, per esempio, ma un punto di vista fluttuante. Le azioni performative di Kovanda di che cosa parlano se non di questo soggetto in mezzo ad altri soggetti? Di un soggetto che, come tale, è anche tutti gli altri soggetti? Co-appartiene, cioè, a tutti gli altri soggetti?
In alcune occasioni hai detto che per cogliere veramente il significato di una mostra è necessario interrogarsi non solo su ciò che è esposto, ma anche su ciò che non lo è stato. È un’osservazione estremamente importante per prendere coscienza delle implicazioni culturali del dispositivo-mostra, che mi permetto di rilanciarti: in questa mostra di fantasmi e di vuoti c’è qualcosa che per una qualche ragione è dovuto restare ulteriormente fuori dal campo del visibile?
Ti ringrazio per avermi richiamato a mie osservazioni precedenti. Quanto ho fatto in altre mostre, prima tra tutte Disobedience Archive, non si trova in questa esposizione. O meglio, vorrei che l’una rinviasse all’altra, e ciascuna rinviasse al proprio esterno. L’Est che è esposto nella sezione Disobedience East non è che il carattere complementare de Il Piedistallo Vuoto. Il nostro tempo è quello che si articola nella coppia dell’atto e della potenza, del virtuale e dell’attuale, in cui falde di presente coesistono con il passato. Non c’è mai qualcosa di attuale che non sia intrinsecamente circondato da immagini virtuali. Questo stesso virtuale è quello conservato (quella riserva d’essere) ne Il Piedistallo Vuoto: ecco lo spettro e la macchina-Amleto che ritornano. “Enter the Ghost. Exit the Ghost”.
Il Piedistallo Vuoto. Fantasmi dall’Est Europa
a cura di Marco Scotini
24 gennaio – 16 marzo 2014
Museo Civico Archeologico di Bologna
via dell’Archiginnasio 2, Bologna
Orario: da martedì a domenica 10.00-18.30
Info: www.comune.bologna.it/archeologico
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