ROMA | Galleria Borghese | 5 febbraio – 25 maggio 2014
di Laura Fanti
Pensavamo che a far dialogare i pieni con i vuoti ci pensasse l’architettura e che alla scultura appartenesse prevalentemente un libero gioco tra materia e spazio, tra il fenomeno e il suo esserci. Un solo artista poteva stravolgere tale idea, senza escludere l’altra, lo scultore per il quale nessuna etichetta è veramente appropriata, Alberto Giacometti, in mostra a Roma dopo la personale del 1970 a Villa Medici.
Il suo lavoro è stato definito drammatico, e drammatiche sono quelle braccia lungo i fianchi di L’homme qui marche (1947) e di L’homme qui chavire (1950), drammatici tutti i busti, corpi indefiniti o filiformi. Drammatica anche la Femme égorgée (1933) così come Femme qui marche II (1932-1936), quasi contrapposta al vertice rispetto all’altra in quanto a compattezza e ieraticità. Ma non credo basti per avvicinarsi alla sua scultura.
Giacometti è anche l’autore di un progetto di arte pubblica, al Chase Manhattan Plaza, ricostruito nel salone di ingresso del museo Borghese, progetto che gli diede parecchio filo da torcere per lunghi anni e che non giungerà a completa sintesi. Lo scultore vi aveva elaborato figure più grandi del naturale che si avvicinano all’intenso capolavoro etrusco, L’ombra della sera, conservato a Volterra; purtroppo è discutibile la scelta di un’unica enorme pedana, a voler distaccare le sculture dall’ambiente, le quali già si perdono tra le pareti marmoree.
Giacometti è l’autore di Femme couchée qui rêve (1929), di Tête qui regarde (1929) e di Femme couchée (1929), sculture molto diverse tra loro e indefinibili. La prima è collocata nella Sala della Paolina in un dialogo a chiasmo con la terza e con la scultura canoviana che campeggia al centro della stanza. La vicinanza è schiacciante per le sculture di Giacometti, il quale era ben consapevole della difficile lettura del suo lavoro a confronto con il monumentale e l’architettura (in particolare nel suo progetto di arte pubblica già citato). Le femmes di Giacometti più che leggersi per sé sono un interessante ausilio a rileggere la scultura di Canova, di cui percepiamo, oltre alle linee curve, anche i vuoti, l’aria che la attraversa, mentre le sculture dello svizzero, forse anche per la pesantezza delle teche, rimangono un po’ indietro. Tête qui regarde è, paradossalmente, quella che dialoga maggiormente con la Paolina: opera chiave dell’artista, il quale sintetizza il Cubismo e l’arte primitiva in una cifra originale, mantiene un’impronta di figuratività che emerge proprio nell’incrocio di sguardi che si attivano con la Venus Vincitrix.
Le conversazioni più vive nella sala del David, in quella degli imperatori e in quella egizia. Nella prima L’homme qui chavire si presenta come l’opposto dell’eroe biblico nell’individuare un movimento sofferto che, pur formando una curva, trattiene la figura a terra. Nella sala degli imperatori, stringente il dialogo tra il gruppo berniniano Plutone e Proserpina e le sculture La main (1947) e La jambe (1958), così distanti tra loro nel tempo ma coerenti con l’idea della mutilazione, del frammento, della dispersione, costanti in Giacometti dopo il secondo conflitto mondiale, che lo avvicinano all’esistenzialismo ma anche alla fenomenologia.
Nella sala egizia più che pertinente, forse un po’ scontato, l’accostamento tra la compattezza e la levigatezza espressi da Femme qui marche II (1932 c.a.) e le sculture egizie.
Per concludere mi sento dunque di affermare che lo scopo della direttrice Anna Coliva “Le mostre sono sempre un’occasione per capire la collezione, un’occasione per studiare non per speculare” (dichiarazione rilasciata durante la conferenza stampa di presentazione) è centrato, ma non del tutto.
Giacometti. La scultura
a cura di Anna Coliva e Christian Klemm
5 febbraio – 25 maggio
Galleria Borghese
Piazzale Scipione Borghese 5, Roma
Info: 06 6999 4218 – 06 6999 4294
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