BERNA | KUNSTMUSEUM | FINO AL 7 AGOSTO 2022
di SILVIO MIGNANO
La grande sala centrale del Kunstmuseum di Berna ospita un anello di vele, di lenzuola stese, di arazzi, un’immagine potente resa mutevole dalla materia, che al tempo stesso cambia forma e si adegua agli spazi, ingannando l’occhio dello spettatore. Avvicinandoci a questa sorta di volatile Stonehenge, comprendiamo che si tratta di porte, o meglio del loro calco impresso su lattice e garza con tanta forza e tale realismo da creare un effetto di distorsione della sostanza, anche grazie all’applicazione di una vernice di madreperla, il più cangiante tra i materiali.
Accanto, sulla parete, scorre un grande video del 1978 che ci mostra l’azione da cui l’opera prende le mosse: è Heidi Bucher, artista svizzera morta nel 1993, che lacera con gesti esatti ma non privi di violenza le pareti della casa ancestrale, nei pressi di Winterthur. Sbuccia, di fatto, gli strati di lattice che ha incollato alle porte e alle pareti e li tira via, prelevando l’immagine impressa a rovescio.
In quel video Heidi Bucher emerge quasi come uscendo da un bozzolo, anche se a tratti parrebbe piuttosto manovrare le lenzuola collose come fa uno skipper in una barca a vela, oppure imbracciarle a mo’ di ali, farne arti di un corpo – il proprio – trasformato in quello di un volatile, a sua volta mutazione dei dinosauri. Ma quella che si presenta ai nostri occhi è anche una gestante contratta nello sforzo di partorire. Il suo è dunque un gesto dal quale scaturisce una realtà che si presenta distorta, modificata nelle forme, ma infine rigenerata.
Memore della sua esperienza californiana e del fecondo contatto con il movimento femminista americano degli anni Settanta, Heidi Bucher trasferisce il lavoro compiuto sugli ambienti domestici nel luogo che più di ogni altro ospita il corpo: l’abito, e principalmente quello femminile, che diventa a sua volta epidermide e aderisce alle pieghe dell’esperienza vissuta. Nel far questo l’artista recupera la sapienza acquisita in una precedente fase della sua vita, quando si era dedicata alla sartoria, ma la supera e sublima. Appesi alle pareti del museo, i calchi dei vestiti spiccano infatti come polene o drappi simbolici: navigano o svolazzano gravidi del peso di chi li ha abitati o di chi avrebbe potuto farlo, e diventano l’espressione più intensa della memoria.
Del resto nei suoi esordi artistici era stato proprio il corpo il protagonista delle spettacolari performance qui testimoniate dal video di Bodyshells, del 1972, e dalle riproduzioni dei costumi disegnati per l’occasione: pezzi di un gioco che si muove su una scacchiera naturale (la spiaggia di Venice Beach, in California), frammenti di un’Odissea che si fa danza e che descrive quanto difficile sia cogliere la nostra identità e congelarla in una posizione definita, proprio perché ogni movimento nello spazio ci rende diversi e irripetibili, trasforma il disegno della nostra individualità da statico a dinamico.
Nei due piani che ospitano nel museo bernese la più grande retrospettiva fin qui dedicata a Bucher, lattice e tessuti creano strutture di enormi dimensioni, sudari e Sindoni di un culto di lari domestici, che replicano spazi orizzontali o verticali della casa ancestrale: pareti, pavimenti, parquet. Li replicano, con la stessa tecnica già descritta rispetto al girotondo di porte fluttuanti, ma forse fanno qualcosa di più: diventano essi stessi quelle pareti, quei pavimenti. Siamo di fronte al fenomeno della fossilizzazione, ben noto a chi si interessa di scienze naturali: sappiamo che quando osserviamo lo scheletro di un mammut o di un dinosauro siamo allo stesso tempo al cospetto dell’originale e di una copia, perché nel corso degli anni la sostanza ossea è stata sostituita grazie a un processo diagenetico da altri minerali. L’osso è lo stesso, resta lì intatto, ma contemporaneamente è altro da sé, nella più perfetta applicazione del paradosso del gatto di Schrödinger. Qui accade lo stesso: gli ambienti domestici della casa di Winterthur sono lì, davanti ai nostri occhi, mezzo secolo dopo l’intervento di Heidi Bucher, ma altro materiale ha sostituito il legno originale, mantenendone l’effetto materico, la consistenza, le rughe e le fessure. È la metamorfosi.
E come ci hanno raccontato a proposito della metamorfosi i poeti e gli scrittori, da Ovidio a Kafka passando per Ariosto e Virginia Woolf, il tragitto da una forma all’altra non è mai privo di un doloroso senso di perdita: “potresti contare le viscere zampillanti e le fibre sanguigne”, dice Ovidio nel Libro VI delle Metamorfosi parlando di Marsia scuoiato da Apollo, e quasi allo stesso modo possiamo contare nelle pelli di lattice appese da Heidi Bucher una per una le costole della nostra esperienza umana, individuale e collettiva.
Info: www.kunstmuseumbern.ch