Intervista ad Agata Boetti di Francesca Di Giorgio*
Il gioco dell’arte con mio padre, Alighiero. In questo libro c’è tutto Boetti… Tutto è il titolo di una famosa serie di lavori di fine anni ‘70 che esprime una visione del mondo, un mondo multicolor in bilico tra ordine e disordine, e segue quella tendenza naturale del bambino a non voler lasciare andare via nulla.
Agata Boetti, figlia di Alighiero (scomparso nel 1994), dal 2014 direttrice dell’Archivio Alighiero Boetti, ha trattenuto e messo su carta i tanti ricordi di famiglia per trasmetterli ai suoi tre figli come sua madre Annemarie aveva fatto con lei.
L’immagine pubblica di Boetti artista si sovrappone all’immagine tenera e affettuosa di Boetti padre, presente nella sua vita al di là delle convenzioni e con lo stesso genio inventivo che faceva somigliare il suo lavoro ad un semplice gioco. Una lettera privata che è un atto di generosità anche per il pubblico dell’arte che da ora può vedere Boetti senza filtri…
Da cosa è partita per costruire Il gioco dell’arte?
La tristezza legata alla scomparsa di mia madre, due anni fa, ha risvegliato inevitabilmente quella legata alla scomparsa di mio padre vent’anni prima. Sicuramente questo evento è riuscito a farmi metabolizzare, finalmente, quel che è stato difficilissimo da affrontare: il padre che muore a soli 53 anni. Piano piano, queste mancanze si sono trasformate in una voglia e in un bisogno di trasmettere ai miei figli, come fece mia madre con me e mio fratello Matteo. Lontano dall’Archivio, dalle mostre, dai cataloghi e dunque dal personaggio pubblico. La mia intenzione era di scrivere per loro una lunga lettera, per raccontargli chi fosse veramente questo nonno, così assente e così presente nelle loro vite e ovviamente anche in quella della loro mamma. Avevo l’intenzione di raccontare loro aneddoti semplici della vita quotidiana con mio padre, i Natali, i compleanni e le vacanze. Per dare loro una visione più personale e semplice di un nonno che non è stato solo un grandissimo artista. Ma i Natali, le vacanze e i compleanni vissuti con mio padre non mi sono mai venuti in mente! Di fronte alla pagina bianca, mi sono resa conto che non erano quelli i mille ricordi legati a mio padre. Ogni ricordo con lui era connesso alla sua arte. I nostri scambi quotidiani in studio, le nostre spese o le coccole, tutto diventava arte o proveniva da lì.
È per questo che si percepisce un piacevole disordine?
Lo scritto si è costruito da solo, di getto. Ogni sua opera era la descrizione perfetta di un aspetto di mio padre. Se si percepisce disordine, per me, invece, c’è ordine. Dei temi, cari a mio padre, si susseguono: il tempo, la logica, la bellezza, l’assurdo, i codici, il viaggio…
Le immagini prevalgono sul testo: Alighiero viveva in un mondo pieno di immagini! Come il mondo infantile: pieno di colori e di forme, dunque di libertà. Scrivere ai miei figli questa “lettera” mi ha permesso di capire una cosa essenziale. Senza rendermene conto, da ventidue anni parlo di Boetti in quanto artista e di Alighiero in quanto padre. Adesso ho finalmente capito che Alighiero e Boetti sono stati la stessa persona: il mio papà artista. La vita fa parte dell’arte e l’arte della vita.
Quando è arrivata questa rivelazione?
La prima Biennale di Venezia dopo la scomparsa di mio padre, nel 1995, aveva voluto fargli un omaggio. In una delle sale, un film faceva scoprire l’interno dello studio a Trastevere. Si vedeva mio padre lavorare e attraversare le diverse stanze dove si intravedevano cose della vita privata, i miei giochi e tanti oggetti utilizzati per la sua creazione, ma per me associati ai nostri giochi. Il fatto che la gente potesse sbirciare nella nostra vita privata era stato per me di una violenza incredibile. Mi ero dunque messa davanti allo schermo impedendo a chiunque di guardare in “casa nostra”! Poi, ho imparato ad accettare l’idea che un artista e la sua arte appartengono al mondo, senza togliere nulla al rapporto privato. Da piccola le stranezze legate al lavoro di mio padre erano evidenti per me, perché non conoscevo altro: pagare il ristorante con un disegno, dormire la mattina, vendere un’opera per poi rifarne immediatamente un’altra, o partire per New York per esporre le sue opere in una galleria. Non potevo concepire né capire un suo ruolo nel mondo dell’arte. Achille Bonito Oliva, Francesco Clemente o Mario Schifano erano semplicemente amici di mio padre che, poi, lavoravano come lui nel mondo dell’arte!
Alla sua scomparsa, ho preso coscienza di chi era mio padre in quanto artista. Vedo la sua influenza sui giovani artisti e la sua notorietà mi è sempre più comprensibile. Sento spesso parlare di lui come un genio. Ci ho molto riflettuto e condivido finalmente: rendeva visibile le bellezze che abbiamo ogni giorno sotto i nostri occhi senza neanche rendercene conto.
Il suo libro confuta spesso i “critici” che negli anni si sono espressi sull’opera di suo padre… Qual è il più grosso “granchio” che hanno preso?
Il mio preferito è senza dubbio legato all’opera Il Manifesto, del 1967. Una lista di cognomi, tutti di artisti di quell’epoca, tra cui Boetti stesso. Diversi simboli accompagnano i cognomi. Mio padre si era divertito a dire che questi simboli nascondevano un vero e proprio codice segreto, che aveva depositato da un notaio a Torino. Critici, studenti e anche altri artisti provarono a decifrarlo, considerandolo una nuova Stele di Rosetta! Ne hanno fatto delle grandi tesi e immensi studi per proporre delle interpretazioni incredibili! Alcuni critici erano riusciti ad intravedere degli auto-omaggi a delle sue opere… Peccato per loro! Quelle opere erano posteriori al Manifesto! Certi ci hanno visto un vero Manifesto dell’Arte Povera senza neanche rendersi conto che diversi personaggi, come Schifano, con quel movimento non avevano niente a che vedere.
Quando, fierissimi delle loro ricerche e delle possibile scoperte dei codici, critici e studenti ce le presentavano, mia madre ed io eravamo molto imbarazzate: «Si sono torturati la testa per mesi, quando Boetti si è semplicemente divertito direttamente in tipografia a scegliere nei simboli a disposizione per illustrare caratteristiche di amici e famigliari senza, ovviamente, mai depositare i codici – già dimenticati il giorno dopo! – da un notaio».
Che rapporto ha oggi con l’arte contemporanea? Quali contatti continua a coltivare?
Sono sicura che siano i genitori ad educare il nostro sguardo sull’arte e sulla bellezza in generale. Sia per mio padre sia per mia madre, era essenziale trasmettere a me e a mio fratello uno sguardo attento sull’arte. Sperando a mia volta di trasmetterlo ai miei figli. Amo l’arte, antica, rinascimentale, etrusca e contemporanea. Appena ho tempo, vado a vedere mostre, sempre nel modo in cui mia madre ci aveva insegnato: fare il giro velocemente della mostra per poi tornare sulle opere che ci colpivano di più. Quando ero piccola, me le facevano disegnare per poter impregnarmene di più.
I miei contatti con l’Arte contemporanea sono principalmente legati al mio ruolo in Archivio. Poi vengono i legami personali, famigliari e affettivi. Proprio mentre le rispondo sono ad Alba (CN), alle cantine Ceretto, per una mostra di Francesco Clemente. Cenare con lui è come passare del tempo con uno zio, mi fa stare bene.
Che rapporto hanno, invece, i suoi figli con le opere del “nonno”?
Mio padre ha conosciuto solo il mio primogenito a cui ha dedicato un ricamo con all’interno le parole «nonno Alighiero». Mi aveva detto che era stato uno choc scriverlo e che gli aveva fatto prendere coscienza del fatto che la sua bambina era diventata grande e pure mamma, malgrado avessi solo 20 anni.
I miei figli sentono parlare del nonno Alighiero da quando sono nati, senza capirne veramente le ragioni. Sentire parlare continuamente del nonno sempre in quanto Boetti dalla loro mamma e nonna era diventata un’abitudine. Per loro era «l’ossessione Boetti», come un adolescente è ossessionato da un cantante! Era dunque una fonte di scherzi continui, sempre restando in fondo intrigante. Uno dei miei figli, allora dodicenne, regalò in occasione del Natale una maglietta a sua nonna Annemarie. C’era scritto: «La gente crede in Dio, io in Boetti».
Ormai ne sono profondamente fieri e se ne interessano. Certe opere fanno talmente parte del loro quotidiano da sempre, che non le considerano più in quanto tali: continuano a consultare la Mappa per trovare uno spunto d’ispirazione di una località per una prossima vacanza. Fagus, una vernice industriale nera, realizzata nel 1967, appesa all’ingresso, riflette regolarmente il loro aspetto per rassicurarli come farebbe un semplice specchio. E ai loro diciotto anni, hanno assolutamente voluto un orologio annuale: come se fosse un segno d’appartenenza.
Hanno letto il libro?
Sì, mi hanno detto di aver capito molto, moltissimo, soprattutto su di me, sulla nonna Annemarie Sauzeau (critica d’arte e giornalista) e sullo zio Matteo. La presenza costante del colore rosso, il meccanismo del Muro presente ovunque a casa, l’amore dei giochi logici come il Suduku, la necessità di classificare ogni cosa e di farne delle liste, la maniera di ascoltare la musica e l’amore per i viaggi. Ai loro diciotto anni gli avevo domandato in due parole di definire l’educazione che gli avevo dato: «Amore e curiosità. Molto ordine con un po’ di disordine, indispensabile». Ne ero rimasta commossa perché ho ricevuto le stesse basi dai miei genitori.
Dal 2014 si occupa a tempo pieno dell’Archivio Alighiero Boetti…
Nel 1994, quando mio padre è scomparso, avevo ventidue anni e tutta una vita da immaginare. Fu difficile affrontare l’idea che bisognava immediatamente creare un archivio. Ma per accettarlo ho pensato al fatto che mio padre ci ha lasciato un vigneto buonissimo e prestigioso, un Chatêau Iquem. Ma la vigna deve essere mantenuta, tagliata, curata per continuare a dare uno dei migliori vini al mondo…
Sin dall’inizio ho condiviso il lavoro con la mia famiglia, in particolare con mia madre Annemarie, che era sicuramente la più grande specialista dell’opera di Boetti. Quando è mancata mia madre c’è stato un passaggio di consegne e ho assunto la direzione dell’Archivio, il cui principale compito è quello di proteggere l’opera di Boetti. Da ventidue anni, cataloghiamo, certifichiamo (perizie mensili, presiedute da mio fratello Matteo) e studiamo l’insieme delle opere per pubblicare il Catalogo Generale. I tre primi tomi (opere fino al 1987, prima parte) sono già stati pubblicati. Il 4 ottobre viene presentata al Courtauld Institute of Art di Londra la nuova monografia, a cura di Laura Cherubini, in parallelo alla retrospettiva in corso a Londra da Tornabuoni Art.
Qual è l’ultima cosa “boettiana” che ha fatto?
Non l’ho fatta io ma mio marito e i miei figli. Vuol dire che le «boettate» si trasmettono. Il numero 11 non era solo il numero feticcio di mio padre e il mio ma ormai anche di quelli che mi stanno accanto. La settimana scorsa, mio marito mi ha regalato 11 rose rosse e i miei due figli più grandi hanno girato il loro primo film da regista e produttore, finendo le riprese la domenica 11 settembre a casa mia. Un omaggio a me e al nonno.
Alighiero (padre) e Annemarie (madre), Agata (figlia) e Matteo (fratello) e ovviamente ancora lei e Alighiero (a sua volta padre e artista). Considerare cose e rapporti nell’ottica del doppio è dentro l’opera di Boetti.
Facciamo un gioco: prova ad accoppiare due opere di Alighiero?
Un Tutto e una Mappa. Nel primo c’è un mondo di tutto. Nella seconda c’è tutto il mondo.
*Intervista tratta da Espoarte #94.
Agata Boetti è nata nel 1972 a Torino. Vive e lavora a Parigi. Dal 2014 si dedica esclusivamente all’Archivio Alighiero Boetti, Roma, in qualità di direttore.
www.archivioalighieroboetti.it
Il libro:
Il gioco dell’arte con mio padre, Alighiero
Autore: Agata Boetti
Prefazione di: Jean-Christophe Ammann
Postfazione di: Hans Ulrich Obrist
Editore: Mondadori Electa
Anno: 2016
Pagine: 285
Prezzo: € 24.90
Mostra in corso:
Alighiero Boetti
Tornabuoni Art
46 Albemarle St., Londra
4 ottobre 2016 – 27 gennaio 2017