ALTARE (SV) | MAV – Museo dell’Arte Vetraria Altarese | 13 luglio – 13 settembre 2024
Intervista a MATTEO MUSETTI di Alessia Pietropinto
Uno sguardo laterale che immortala ma restituisce, tematiche insite nella nostra quotidianità, ma legate ad esperienze passate care e impresse nella memoria dell’artista.
Matteo Musetti, partendo da un intimo dialogo con ciò che si cela dietro lo sguardo, indaga e svela una fragilità insita nel ricordo, nel fatto compiuto, nell’attimo dopo.
La tecnica che contraddistingue il suo lavoro è la stampa su vetro, superficie prediletta, garante di una resa estetica finale che, visivamente e concettualmente, differisce dalla classica carta fotografica andando così a trasformare lo scatto, plasmandolo secondo modalità innovative e visivamente accattivanti.
Abbiamo intervistato l’artista per comprendere al meglio il significato che riveste per lui la pratica fotografica, in prossimità della sua personale La forza della fragilità, al Museo dell’Arte Vetraria Altarese: un progetto inedito del fotografo, realizzato in collaborazione con Quidam, nell’ambito della XIII edizione di Altare Vetro Arte e in occasione dell’inaugurazione dell’Altare Glass Fest 2024.
Parlami un po’ di te… della tua poetica come fotografo, delle modalità che metti in atto per avvicinarti al soggetto e della tua formazione artistica.
Mi reputo un fotografo un pò “anomalo” in quanto non ritengo che la fotografia sia la rappresentazione della realtà, ma una personale interpretazione di essa: “non fotografo ciò che vedo ma ciò che sento”.
Ho scelto di fotografare e rappresentare il disagio umano, le sue difficoltà nell’entrare in connessione con il pianeta, il mettere se stesso al centro di ogni suo ragionamento.
Sono stato influenzato da opere come Mad Max, 1997 Fuga da New York, Ken il guerriero, Blade Runner ed è per questo motivo che le mie immagini sono avvolte da una sorta di velo malinconico che ha come funzione quella di definire e contraddistinguere i miei lavori.
Come si origina una tua fotografia?
Nasce da una frase sentita in un dibattito, in un film, in un libro: quello è il punto di partenza. Da lì in poi mi concentro su cosa mi ha colpito maggiormente e, successivamente, quando sono immerso nelle azioni quotidiane penso a come realizzare il concetto visivamente.
Altrimenti parto analizzando una manifestazione, un’evento e cerco di concentrarmi sugli aspetti secondari, su quello che sfugge alla maggioranza: così, ad esempio, è nato il lavoro “Crazy Orange”. Ho cercato di attirare l’attenzione sul fatto compiuto, su ciò che accade in seguito. In occasione del Carnevale di Ivrea, ho deciso di arrivare in città il mattino seguente; ricordo che per le vie del paese vi era un inebriante profumo di arancia e alla sera un tanfo insostenibile… la sensazione olfattiva però era sempre la stessa.
Osservando il risultato finale, quali identifichi come gli “step creativi” utili per raggiungerlo?
La mia fotografia subisce spesso i cosiddetti “step creativi”, identificando le mie foto come scatti “non reali”. Secondo il mio punto di vista i canoni classici e i loro confini non permettono di espandere e approfondire i sentimenti, non permettono alla fotografia di essere percepita al pari della pittura o della scultura.
È la fotografia ad averti scelto o sei tu che, fin dal principio, hai sentito il bisogno di avvalerti del mezzo fotografico per raccontare il mondo che ti e ci circonda?
Sono sempre stato attirato dalla comunicazione, affascinato dalla sua potenza, soprattutto da quella visiva che è universale. Ho iniziato avvalendomi della telecamera e ho realizzato un piccolo corto, ma sin da subito ho capito che la telecamera era un mezzo che non mi apparteneva, poiché essa guida lo spettatore al finale, ad una conclusione decisa dal regista. Questo rende chi guarda meno responsabile e partecipe sia di quello che osserva sia di quello che accade. Al contrario, davanti ad un’immagine statica lo spettatore tende a porsi più domande; si instaura così un dialogo più profondo tra chi mostra l’immagine e chi la guarda. Una semplice immagine può far scaturire una conversazione, un dialogo, una discussione.
Che tipologia di soggetti prediligi? Senti maggiore confidenza nel ritrarre persone o paesaggi?
Ciò che mi interessa è raccontare il disagio sia nelle persone (raramente nei ritratti) sia negli ambienti dove si evince il passaggio “distruttore” dell’uomo. La malinconia di quello che potremmo essere e, invece, quello che siamo, in altre parole “chiediamo così tanto e diamo così poco…”.
Le tue fotografie mostrano scene appartenenti al quotidiano, ma sviluppate con un’incidenza di sguardo non banale, intima e immersiva. Come si compone lo scatto? Cosa si cela dietro le scene da te immortalate?
Un disagio immenso dato dall’esigenza di urlare un messaggio ma, allo stesso tempo, una insicurezza mostruosa che a volte mi fa stare veramente male.
Far vedere il proprio pensiero agli altri è faticoso e pieno di insidie, pochi hanno il coraggio di mostrarsi vulnerabili ed esporre i propri sentimenti al pubblico, ma è proprio il contrasto/conflitto dentro di me che mi spinge a produrre nuove immagini per continuare a comunicare con gli altri.
Tramite l’obiettivo riesci a dare voce a luoghi abbandonati, privati della presenza umana, densi di storie e ricordi che riescono ad emergere tramite il tuo sguardo. Da dove deriva questa tua predilezione verso spazi desolati e isolati? Come avviene la ricerca di questi luoghi?
Il tutto deriva dalla perdita di mio padre; lui mi ha spinto a viaggiare per l’Italia cercando la sua presenza all’interno di ville, ospedali, manicomi, parchi giochi, terme e alberghi abbandonati.
Questo viaggio, rivelatosi poi un viaggio interiore, l’ho chiamato “il silenzio è violenza”. Il titolo altro non è che una scritta trovata in uno di questi luoghi e, secondo me, esprime al meglio il concetto alla base di questo lavoro. Il silenzio in questo caso deriva dalla perdita di mio padre e la violenza (retaggio di questo silenzio) è ciò che ho subito e subisco personalmente.
Cosa provi quando ti ritrovi immerso in un contesto simile? Cosa ti spinge in quel determinato luogo?
Quando ho in mente un progetto cerco informazioni in più direzioni, mi muovo su più fronti e guardo i “grandi” cercando ispirazioni.
Il dettaglio, il particolare, quale valore assume nella tua pratica?
Il dettaglio è al servizio del messaggio, esalta le emozioni e serve per renderle visibili a chi guarda.
Qual è il segreto per lasciare che l’anima del soggetto emerga da un singolo scatto? Come “catturarla”?
Conquistare la fiducia di chi fotografi.
Utilizzando una sola frase, come definiresti la tua pratica fotografica?
Direi “disegnare fuori dai bordi”.
Come è cambiato negli ultimi anni il tuo approccio alla fotografia?
Sono passato da una fotografia di paesaggio molto difficile tecnicamente, ma dal risultato qualunquista, ad una fotografia molto più facile dal punto di vista realizzativo, ma molto più profonda dal punto di vista comunicativo.
Tra 5 anni dove e come ti immagini? Hai all’attivo progetti prossimi di cui puoi già anticipare qualcosa?
Grazie anche alle recenti conoscenze, negli ultimi anni mi sto dedicando a valorizzare il mio territorio. Mi diverto per ora nel creare immagini multiple giocando con le sovrapposizioni.
Matteo Musetti. La forza della fragilità
Mostra fotografica in collaborazione con Quidam
nell’ambito di Altare Glass Fest 2024
13 luglio – 13 settembre 2024
Inaugurazione sabato 13 luglio ore 18:30
ore 17:30 – Talk – Conversazione con Matteo Musetti e Matteo Ferraiuolo di Quidam
Piazza del Consolato 4, Altare (SV)
Orari: dal martedì alla domenica dalle ore 15.00 alle ore 19.00
Info: +39 019 5899384 – +39 377 5539880
info@museodelvetro.org
www.museodelvetro.org