TORINO | PARMA | Galleria Gliacrobati e Galleria Rizomi | Fino al 20 dicembre 2019
Intervista a NICOLA MAZZEO di Corinna Conci
La carta. Un materiale vegetale che diventa atmosfera calda dove annidare nascondigli, sigillare promesse, solidificare difese/ protezioni. Fogli trasformati in posti dove esorcizzare presenze e fissare passioni, renderle assolute.
Shape Vision Paper è una mostra che nasce per esistere in più gallerie, in diverse città. Nicola Mazzeo ci racconta perché ha voluto Francois Burland e Simone Pellegrini in questa bipersonale che va in profondità nelle questioni dell’umano, ispezionandone le allegorie. Il curatore e fondatore della galleria RIZOMI, che ha pensato l’esposizione in collaborazione con la galleria Gliacrobati, ci dice anche nel dettaglio le caratteristiche che costituiscono i diversi territori da lui conosciuti: l’art brut, i laboratori creativi dedicati alle fragilità mentali, le attività di arteterapia e il mondo dell’arte contemporanea, definendo ogni specificità con una sua identità, mantenuta anche nell’interdisciplinarità.
La galleria RIZOMI nasce come progetto di art brut che si esprime attraverso mostre e fiere internazionali, ma si sviluppa nel tempo abbandonando l’eterodossia: ora condivide i suoi spazi con l’associazione Artetipi che gestisce laboratori di creatività dedicati alla fragilità mentale, oltre a muoversi nell’ambito più ampio dell’arte contemporanea con esposizioni, residenze e workshop. Ci racconti meglio questo processo di crescita?
La galleria RIZOMI ha aperto nel 2010 a Torino e allora il nostro logo recava anche “art brut” al fianco del nome; oggi non è più così e questo è stato sicuramente una evoluzione. Quella della gestione dello spazio fisico è un’altra solo labilmente collegata. Fin dai tempi delle nostre prime mostre abbiamo sofferto della scarsa partecipazione del pubblico nei momenti successivi all’inaugurazione. Il pubblico si lascia coinvolgere quando può avere una parte in quello che accade e per una galleria d’arte questo significa l’acquisto. La galleria era per il 70% del tempo vuota e quando abbiamo cominciato a fare le fiere (Parigi e New York) ci siamo resi conti che il 70% degli incontri utili avvenivano li. Abbiamo quindi deciso di usare i locali della galleria per scopi diversi nella fattispecie per laboratori di creatività dedicati alla fragilità mentale dove la vocazione alla creatività di non professionisti potesse incontrarsi con i professionisti in un arricchimento per entrambi. Questi laboratori non sono gestiti dalla galleria ma da una associazione culturale Artetipi APS fondata nel 2016 e questo per ragioni ben specifiche. RIZOMI si occupa di arte cioè propone artisti (del canone dell’art brut o meno), riconosciuti da collezionisti curatori e musei e esercita il suo giudizio per proporne altri; è attiva cioè nel contesto culturale dell’arte. Artetipi si occupa di facilitare l’espressione e l’espressività di persone con il fine principale della realizzazione personale di chi frequenta i laboratori e il fine ulteriore di fare conoscere certe situazioni al pubblico con l’obiettivo dell’integrazione oltre a proporre situazioni di crescita per gli artisti ufficiali che vengono a lavorare nei nostri laboratori (Andrea Saltini, Giacomo Cossio, Libri Finti Clandestini, Simone Pellegrini). Può accadere, anche se finora non è mai accaduto che il linguaggio di chi frequenta un laboratorio di Artetipi maturi nel tempo e raggiunga una coerenza tale da poter essere proposto come arte. Questo non è obbligatorio e anche se farebbe piacere l’attività di Artetipi è indifferente a questo tipo di esito. Ecco quindi una differenza: RIZOMI fa mostre d’arte, Artetipi fa mostre che sono pensate e lavorate come mostre d’arte con tutti i crismi di curatela necessari, ma il meglio che si possa dire è che siano arte in divenire e potrebbero non esserlo affatto perché sono restituzioni di attività di laboratorio. Quello che facciamo non è arteterapia perché non ha fini diagnostici o riabilitativi diretti; non ci sono psicologi e nemmeno educatori durante i nostri laboratori, solo artisti e curatori.
Il punto è rendere la galleria viva, un luogo utile dove fare avvenire degli scambi: tra artisti ufficiali e non, tra pubblico dell’arte e creatività grezza, tra soggetti spesso segregati e passanti curiosi.
Per questa mostra hai selezionato due artisti provenienti da diversi sistemi che si accordano per assonanza visiva e per viscerale passionalità. Come nasce la tua idea dell’abbinamento delle opere di Burland a quelle di Pellegrini?
Hanno influito delle ragioni pragmatiche che riguardano l’esportabilità del progetto però credo di essere arrivato a questo risultato sulla base del percorso ormai decennale della galleria. Quest’ultimo nasce con l’intenzione di proporre in Italia art brut nell’accezione più ortodossa possibile. Abbiamo quindi studiato Dubuffet, la sua collezione e le sue intenzioni; ci siamo confrontati con l’“outsider art” che abbiamo inteso come voleva Roger Cardinal come una traduzione pura e semplice in inglese di art brut, pur generalizzando in un certo senso i criteri di Dubuffet. Da quando abbiamo aperto nel 2010 abbiamo avuto modo di valutare almeno due processi: da un lato il fatto che l’outsider art soprattutto sul versante americano si lasciava sempre più alle spalle il nucleo dubuffetiano, diventando quasi sinonimo di “non meanstream art” cosa che per me era inconcepibile. Dall’altro il fatto che soprattutto in Italia si usasse, a dire vero poco, il termine “outsider art”, preferendovi la traduzione “arte irregolare” e al di là del termine vi si associassero delle cose ancora diverse da quelle che vi inserivano oltreoceano. Da noi si tende a chiamare “outsider art” qualunque cosa venga da un centro espressivo che lavori con la disabilità, la fragilità mentale o i disturbi dell’apprendimento senza giudicare se si tratti di arte. Tutto questo ha motivato la ricerca di una nostra risposta che potesse definire il lavoro e la ricerca della galleria. La nostra riflessione è stata che non avesse più senso contrapporre come faceva Dubuffet l’art brut all’arte “culturale” come se queste due forme espressive esaurissero il contesto della creatività umana. Vi sono moltissime forme espressive che non rientrano né in una categoria né in un’altra. La street art ne è un esempio, le espressioni non occidentali un altro e d’altra parte mi pare che si possa affermare con sempre maggiore forza che quello che intendono le grandi fiere, la maggioranza dei curatori e delle istituzioni per arte contemporanea non esaurisca affatto l’arte attuale anche di provenienza accademica o scolarizzata. Abbiamo quindi stabilito che potevamo uscire dai confini dell’art brut per avvicinare altre forme espressive e per studiare i confini di quello che si intende per arte. Il punto non è mai stato trovare in autori accademici quelle supposte qualità tipiche dell’art brut – la visceralità, il bisogno espressivo, l’ossessione, l’originalità; sarebbe una pratica sterile perché sono esattamente quelle qualità che distinguono tra arte culturale e art brut, nonostante la maggior parte degli artisti ufficiali con cui mi è capitato di parlare sarebbe pronta a giurare sulla sua originalità e autonomia oltre che sul suo bisogno di esprimersi. Il punto non è campionare negli artisti contemporanei più o meno accademici o culturali queste qualità ma selezionare quegli artisti che con il loro lavoro, esattamente come aveva fatto l’art brut dal 1945, invitino a riflettere sui confini dell’arte.
François Burland è un artista che nella Collection de l’Art Brut è inserito nella parte conosciuta come Nuova Invenzione, dove Dubuffet riuniva quei casi marginali che non rientravano né nell’art brut né nell’arte culturale. Simone Pellegrini è forse meno eccentrico rispetto all’arte contemporanea di quando Burland lo sia per l’art brut; è esposto regolarmente in moltissime fiere internazionali, ha una lunga scia di mostre in musei e per curatori di arte oltremodo accademica. Eppure cita Adolf Wolfli tra le maggiori fonti di ispirazione ed è, io credo evidente, che il suo lavoro abbia qualità proprie che lo distanziano da tanta arte che ci potremmo aspettare ad Art Basel. Ecco quindi che è venuto naturale associare questi due nomi: oltre che per la predilezione per un certo tipo di supporto mostrata da entrambi, l’amore per le forme che formano una semantica personale, la visione, cioè il puntare i loro lavori verso un orizzonte che trapassa di chilometri in profondità la superficie.
Gliacrobati è una galleria torinese che rappresenta la realtà dell’art brut e sostiene laboratori di artisti-pazienti e progetti di arteterapia. Come nasce il contatto con questo spazio?
Ho conosciuto Francesco Sena quando la galleria RIZOMI era a Torino. Oltre che artista è operatore in una comunità ed era tra i pochissimi che avessi incontrato ad essere stato a Gugging vicino a Vienna, dove ha sede uno dei laboratori d’arte per artisti con disturbi dell’apprendimento più antichi e importanti del mondo. È stato naturale, sulla base di una mutua simpatia umana, per me cercare in loro un partner per questo progetto. Mi piace una condivisione di obiettivi sulla base della relazione di stima umana prima che professionale perché mi pare che sia naturale che due gallerie, siano le nostre o altre, siano più diverse che simili e quindi in questo senso una relazione fondata su una assonanza professionale è sempre più difficile da realizzare. Immagino poi che con Gliacrobati si condividano scopi e probabilmente anche una certa idea politica, cioè del posto dell’arte nella società, prima ancora che percorsi o direzioni estetiche.
Shape Vision Paper avrà altre tappe oltre a Torino: la mostra si sposterà a Parma e poi forse uscirà dall’Italia?
Come dicevo sopra, la mostra è stata concepita come più importante dei confini di una sola galleria. In linea generale credo che di questi tempi di relativa concorrenza, date le performance economiche del nostro Paese, ci sia tutto da guadagnare per il pubblico dalla moltiplicazione delle esibizioni di progetti culturali. È chiaro che per una galleria le esclusive con gli artisti sono uno degli strumenti fondamentali del reddito e questo rende difficile questo genere di spostamenti, ma una volta fatta salva la parte economica allora il sistema culturale ne guadagna solamente. Ci tengo a questo. Il sistema culturale è una cosa e quello economico di cui fa parte l’attività preponderante della galleria d’arte è un’altra: una fiera è un evento commerciale, una mostra in un museo uno culturale. Poi ogni sistema ha degli strascichi negli altri, li irrita e agita così e questi reagiscono a loro modo. In ogni modo sì: Shape Vision Paper è stata concepita anche per il mercato estero.
Shape Vision Paper. Simone Pellegrini e François Burland
Catalogo a cura di Nicola Mazzeo. Contributi di Maria Chiara Wang, Marco Petrocchi, Cristina Principale, con un testo di Veronique Philippe-Gache
Galleria Gliacrobati
Via Ornato 4, Torino
Fino al 23 ottobre 2019
www.gliacrobati.com
Galleria RIZOMI
Strada Nino Bixio 50/a, Parma
30 ottobre – 20 dicembre 2019
www.rizomi.com