MILANO | aA29 Project Room | 20 novembre 2019 – 29 gennaio 2020
REGGIO EMILIA | aA29 Project Room | 22 novembre 2019 – 31 gennaio 2020
CASERTA | aA29 Project Room | 24 novembre – 31 gennaio 2020
Intervista a LARA GAETA di Matteo Galbiati
Durante l’inaugurazione nella sede di Milano, che ha preceduto le due altre a Reggio Emilia e Caserta, della galleria aA29 Project Room, abbiamo lungamente conversato con il giovane fotografo statunitense Kyle Thompson (1992) la cui ricerca fotografica, alimentata da una profonda vocazione compiuta da autodidatta, si interroga sui temi del naturale e dell’umano, dell’esistenza solitaria e abbandonata attraverso la restituzione di una forte poesia estetica di alcuni luoghi (scelti con cura estrema) in cui l’abbandono diventa una presenza silente e universale, riportando l’animo e la mente a percepire una dimensione esistenziale molto forte. Abbiamo approfondito ulteriormente il suo lavoro con la curatrice della mostra nelle tre sedi della galleria, Lara Gaeta:
Nonostante la giovane età, Kyle Thompson vanta un curriculum di notevole profilo culturale ed è tra i più apprezzati e noti fotografi della sua generazione a livello internazionale: ci tracci brevemente un suo profilo artistico? Ci riassumi il suo linguaggio fotografico?
Certo. Effettivamente è così: Kyle Thompson, nonostante la giovane età, ha ormai preso pieno possesso del mezzo artistico. Le sue foto sono il frutto di un connubio fondamentale: quello che lega l’attenzione estetica e la cura del dettaglio all’esperienza e alla fruizione diretta dei luoghi disabitati dove egli si è recato per scattarle. Sostanzialmente è quasi sempre un lavoro in solitudine: viaggiare in automobile, percorrere miglia e miglia d’autostrade verso il cuore dell’America del Nord, per raggiungere la città deputata. Diversamente da altri fotografi professionali o di fama internazionale Kyle ha scelto consapevolmente di non iscriversi ad alcun corso universitario o specifico sulla materia: questa decisione gli ha sicuramente permesso di avere molta libertà d’azione. Ha iniziato a occuparsi della fotografia a diciannove anni, costruendosi da sé, passo dopo passo, con l’esperienza. Prima ha iniziato a fotografare il paesaggio industriale e periferico della sua città natale, Chicago, per poi scegliere di trasferirsi a Portland, in Oregon (nella West Coast), dove avrebbe raggiunto con più facilità quei territori desolati e impervi che gli avrebbero permesso di approfondire la sua ricerca.
Il suo linguaggio fotografico da un lato è estremamente delicato, elegante e poetico, dall’altro espressivo, tagliente e ironico. Parla di ghost towns, di cittadine abbandonate e desolate dove la presenza dell’uomo è ormai rara e transitoria e dove invece la natura fa da protagonista.
Cosa connota maggiormente la sua ricerca nelle diverse fasi e serie? Quali sono le riflessioni che lo hanno accompagnato fino ad oggi?
La caratteristica predominante degli scatti di Thompson è quella di ritrarre la realtà in modo tale da renderla sur-reale. Molto spesso le fotografie dell’artista sembrano far parte di un paesaggio onirico, estrapolato dal sogno, che scuote e suggestiona, che lascia affiorare emozioni e paure inconsce.
Allo stesso tempo, però, le sue foto fanno riflettere su alcuni aspetti rilevanti della contemporaneità: sui cataclismi e disastri ambientali che toccano l’intera superficie terrestre, come alluvioni, incendi e tornado, ma anche sul fatto che queste cittadine distrutte o abbandonate non siano mai state né ricostruite, né ripopolate, per scelta. Che l’uomo non se ne sia preso cura e che dunque la natura abbia preso il sopravvento.
Dal punto di vista tecnico l’artista realizza sempre scatti o auto-scatti di se stesso come parte integrante della scenografia. Il suo lavoro non prevede mai una post-produzione, alcuni dettagli della foto, infatti, possono rimanere volutamente sfocati o imprecisi, ma la composizione di questa prende forma già nella mente dell’artista. Per queste ragioni è più corretto parlare, nel caso di Thompson di pre-produzione piuttosto che di post-produzione. Nel 2015 la serie Ghost Town gli permette di approfondire unicamente questo soggetto. Per la prima volta l’artista sperimenta il vivere per due giorni all’interno di una casa abbandonata di una città fantasma. S’immerge nell’acqua che ha inondato la città, realizza autoritratti, vive in prima persona quegli spazi. Lo stato d’animo che prevale nell’osservare queste immagini, nonostante la loro bellezza e accuratezza estetica, è l’inquietudine.
Successivamente la sua ricerca si sviluppa e prosegue con la serie Open Stage esposta in anteprima alla Reggia di Caserta e poi nella sede della galleria aA29 Project Room a Milano, nel 2018. In questo caso le sue fotografie si compongono in dittici: la prima foto, di grandi dimensioni, è un autoritratto dell’artista, la seconda invece, più piccola, rivela l’ambientazione dove l’artista ha scattato la prima foto. Si tratta sempre di un paesaggio desolato, spoglio e grigio: ponti dalle linee fredde ed essenziali, case circondate da foresta, canali che si diramano nella campagna, pozze d’acqua e fango. La prospettiva che ne deriva è sempre straniante.
Infine l’ultima serie, conclusa quest’anno, nel 2019 e correlata dall’omonimo catalogo: Sinking Ship (La Nave che Affonda, n.d.r.), titolo che di certo non rassicura.
Ai ritratti e autoritratti, negli interni o esterni di case abbandonate, si aggiunge una ricerca socio-antropologica più specifica. L’artista è portato a chiedersi il perché dell’abbandono, a entrare in queste case per collezionare alcuni “reperti” del passato, quasi fosse uno storico o un archeologo, che però estende la sua indagine a un periodo più recente.
Quali sono i temi portanti della personale Sinking Ship? Da cosa si compongono la mostra nelle tre sedi?
Sinking Ship è il frutto di una ricerca da parte dell’artista durata più di un anno e mezzo. Thompson per realizzarla ha percorso in automobile le interminabili lande disabitate dello stato in cui vive, l’Oregon, fino a spingersi nel cuore degli Stati Uniti, nel Midwest, specialmente in North e South Dakota e nel Wyoming. Ha raggiunto anche il canadese Saskatchewan, con la sua natura selvaggia e incontaminata. Tra i paesaggi che ritornano di frequente nei suoi scatti vi è la cosiddetta grasslands (prateria, n.d.r.) americana. Sinking Ship vuole rivelare un aspetto dell’America del Nord meno conosciuto, la vita di queste cittadine fantasma, o quasi fantasma, in cui vi abitano una, due, al massimo cinque persone. Thompson cerca di ricostruire un filo logico, di andare a ritroso nel tempo e capire le ragioni dello spopolamento. Le cause sono principalmente due: o naturali, ossia catastrofi naturali e disastri ambientali, oppure socio-economiche perché alcune attività fondamentali per la vita delle città sono state chiuse o alcune linee di comunicazione, quali la rete ferroviaria o stradale, deviate. I conflitti in corso o passati, come la Guerra del Vietnam, hanno incrementato la crisi. La maggior parte delle città ritratte da Thompson sono state abbandonate tra gli anni Settanta e Novanta. Ora ciò che rimane all’interno delle abitazioni sono solo frammenti, indizi delle persone e delle famiglie che un tempo vivevano al loro interno.
Quindi i temi toccati dall’artista sono quelli dell’abbandono, del paesaggio di scarto, della vita ai margini della società, della natura che riprende il pieno possesso di quei territori prima occupati e modificati dall’uomo, ma anche della vita che ritorna, in forme nuove e differenti.
La mostra, sviluppata su tre sedi, si compone essenzialmente di 12 fotografie, selezionate dall’omonimo catalogo Sinking Ship, di dimensioni differenti. La scelta è stata fatta seguendo un criterio di aderenza al tema del “paesaggio di scarto”. Le opere selezionate sono sia autoritratti dell’artista che dettagli specifici e rilevanti degli interni e degli esterni delle case. Non manca, in alcune di esse, una spiccata dose d’ironia e di sarcasmo.
Ghost towns e autoritratti, natura e umano, visione e negazione, pubblico e privato: come si legano questi soggetti, quale visione complessiva restituiscono?
Queste giuste dicotomie da Lei sottolineate trovano un punto d’accordo e di raccordo proprio nella mente dell’artista, che ricostruisce, attraverso i molteplici oggetti e documenti ritrovati all’interno delle stanze vuote, una storia. Thompson di queste case abbandonate ci restituisce sì una visione personale, ma che si trasforma poi anche in metafora della condizione universale dell’abbandono. Ciò è visibile in alcune fotografie come in Index I, dove un pavimento ricoperto di oggetti sparsi alla rinfusa, tra fogli, documenti, VHS e fiori finti, rappresenta la sinossi della vita vissuta, sciupata, che ora non c’è più.
Presenza e assenza sembrano dominare le scene del reale facendolo sconfinare in qualcosa che diventa metafisico, onirico, ambiguo e ir-risolto… Come riesce a controllare questa (apparente) ambiguità lasciando conquistati e persuasi il nostro sguardo e la nostra ammirazione?
Onirico e surreale (termine già utilizzato in precedenza) sono aggettivi perfetti per descrivere la gran parte delle opere di Thompson, specialmente quelle della serie precedente, Open Stage (2018). In Sinking Ship l’ambientazione da sogno potrebbe essere quella rappresentata da un parco giochi immobile e deserto, privo di bambini che lo animano (Playground) o da un autoritratto dell’artista dal volto bendato e all’interno di una vasca, in un bagno dalle pareti color rosa confetto (Bathtub). E poi c’è l’immagine scelta come copertina del catalogo (Capsule) dove il corpo nudo dell’artista, avvolto in un vaporoso lenzuolo di plastica, viene trasfigurato e diventa altro: si trasforma in un fantasma dal profilo indefinito e impalpabile. L’ambiguità non viene controllata, ma espressa, è tutto molto chiaro e nitido nelle fotografie di Thompson, c’è immediatezza e sincerità. L’intento non è di apparire o di occultare degli aspetti scomodi, ma di rappresentare in maniera semplice la realtà di queste ghost towns, filtrata attraverso gli occhi dell’artista.
Una parte importante del suo lavoro sta anche nella relazione con l’altro, ad esempio i rapporti epistolari con gli abitanti isolati di questi villaggi “dimenticati”. Quanto incide questo incontro “umano” con la sua riflessione artistica?
Lo scambio epistolare o di email, tra l’artista e i pochi (se non unici) abitanti rimasti delle città del Midwest, sono fondamentali per comprendere fino a che punto la ricerca e la curiosità dell’artista si sono spinte. È Thompson stesso che si è fatto avanti per contattare queste persone e ha inviato loro lettere, ricercando gli indirizzi tramite Google. Le domande che l’artista ha rivolto a loro sono sempre le stesse, poche e semplici: com’era la città prima di venire abbandonata e come si viveva? Qual è stato il fattore o i fattori determinanti dello spopolamento? Cosa rimane ora? Perché Lei ha deciso di continuare a viverci e non se n’è andato?
Allora vi è Carmen da Hillsview (South Dakota) che parla per conto della madre Helen e che afferma che la loro città, un tempo densamente popolata e viva, è ora disabitata e priva di attività commerciali; che racconta che i ritmi della vita sono semplici e tranquilli e che l’unico segno di civiltà sono le luci lungo le strade. E poi vi è Randolph che spiega nel dettaglio le fasi della storia di Bosler (Wyoming): un tempo era definita party town, una città vitale, sempre in festa, con la stazione ferroviaria che portava persone. Poi tutte le attività hanno chiuso e si sono trasferite lungo la linea della nuova autostrada. Randolph spiega che rimane nella sua città, perché ama la tranquillità e la solitudine. Entrambi affermano che non c’è speranza per le loro città di risollevarsi e rinascere.
Questo confronto umano rende le fotografie di Kyle ancora più sincere. Le pareti delle case abbandonate sono pregne di ricordi, di aneddoti di vita quotidiana.
Nel silenzio denso di poesia dei suoi lavori possiamo ricavare un senso e un valore non solo estetici, ma anche antropologici, sociali, culturali di un’America diversa e che diventa paradigma del resto del mondo e della stessa condizione umana attuale? Deriva o speranza?
Direi entrambi gli aspetti. Deriva e speranza insieme. Le continue e persistenti calamità naturali e disastri ambientali che si stanno abbattendo sulla Terra, sia a livello nazionale che internazionale, sono la chiara testimonianza di un equilibrio naturale che si è spezzato e che andrebbe ripristinato. L’uomo ha una grande responsabilità sulle proprie azioni. Può decidere se andare alla deriva o muoversi a favore del cambiamento e scegliere per la speranza.
Arrivati a questo punto non ci si può più permettere di far finta di nulla o chiudere gli occhi di fronte ai cataclismi che ogni giorno colpiscono parti differenti della superficie terrestre: da incendi a terremoti, da alluvioni a uragani. È evidente che la natura si sta ribellando ed essa è molto più imprevedibile, devastante e incontrollabile di quanto lo siano gli uomini. La speranza, però, c’è, c’è sempre e mi piace intravederla in quelle due rondini immortalate dall’artista in Birds Nest, che si librano in volo e vivono, nonostante la desolazione della casa disabitata che hanno scelto come rifugio.
In cosa e perché è attuale e contemporanea la ricerca di Kyle Thompson, nonostante appaia così legata ad un’interpretazione più tradizionale della fotografia e dei suoi metodi?
Trovo che sia attuale proprio per i temi che tratta. Per rivelare, con poeticità e piacere estetico, le disgrazie e lo sfacelo del mondo contemporaneo. Alcune opere sembrano quasi pittoriche per la vivacità dei colori. L’artista, tuttavia, scatta ancora con una macchina fotografica professionale (Canon 5D Mark II), usa un cavalletto per mantenere fermo l’obiettivo e imposta il timer al momento di realizzare i suoi autoritratti. Niente cellulare né selfie stick!
Quanto conta il fattore “tempo” – umano, sociale, economico, naturale, … – nella dimensione complessiva delle immagini proposte dai suoi scatti?
Il tempo è tutto. Le fotografie di Thompson sono il frutto del tempo, delle energie e della pazienza impiegati per realizzarle. Il tempo è innanzitutto quello che viene speso per raggiungere la località scelta. Il viaggio in automobile per l’artista può durare anche dei giorni. Per darvi un’idea delle distanze da Portland, la sua città, fino al North Dakota, vi sono dalle 18 alle 20 ore di viaggio. Una volta raggiunta la città fantasma l’artista deve iniziare a conoscere lo spazio in cui si muove, diventarne parte e poi preparare il set. Normalmente si muove da solo quindi il lavoro è molto più faticoso. Per gli autoscatti mi spiegava che a volte impiegava delle mezz’ora per capire la posizione migliore per il posizionamento della macchina e del treppiede. Come accennavo prima è più il lavoro di pre-produzione, se così possiamo definirlo, piuttosto che di post-produzione. Il tempo, la fatica e l’impegno, insieme alla casualità e all’istante giusto dello scatto (come per le due rondini in volo) danno la fotografia. Gli scatti dell’artista sarebbero impossibili senza l’avere vissuto prima quegli edifici e quei luoghi.
Abbiamo detto che Sinking Ship si divide nelle tre sedi della galleria, quali differenze ci sono nei tre progetti espositivi? Quali variazioni?
Vista la nuova serie d’opere inedite ricche di suggestioni e di stimoli abbiamo scelto di esporre le dodici fotografie di Sinking Ship selezionate sulle tre sedi della galleria aA29 Project Room, per dare maggiore visibilità all’artista e far sì che il suo progetto americano venisse condiviso tra più persone possibili in Italia.
Per fortuna le tre sedi si distribuiscono in maniera abbastanza omogenea lungo l’Italia: a Milano la prima, a Reggio Emilia la seconda e a Caserta l’ultima, se si segue il profilo dell’Italia da Nord a Sud. Nelle tre sedi, però, non sono mancate piccole variazioni al tema, dovute specialmente alla diversità di disposizione e di grandezza degli spazi espositivi. In tutte tre le sedi, all’interno di una bacheca, sono state posizionate le lettere di Carmen e Randolph (sopra citati) in risposta all’artista. Tuttavia in ciascuna di esse sono stati inseriti documenti differenti che Thompson ha recuperato dalle case abbandonate: talvolta un bigliettino d’auguri, una patente di guida o alcune fotografie di piccole dimensioni che ritraggono famiglie, donne e bambini.
È Importante anche menzionare, sempre come opera inedita, il video trasmesso in loop e visibile nelle tre sedi, realizzato dall’artista inserendo delle telecamere nascoste in alcune case abbandonate nella periferia di Portland.
Cosa attende Kyle Thompson nel prossimo futuro? In cosa lo vedremo impegnato?
Nell’immediato futuro, precisamente a fine gennaio 2020, Kyle parteciperà alla 44a edizione di Arte Fiera a Bologna, nella sezione Fotografia e immagini in movimento. Inoltre, in quanto galleria che lo rappresenta, l’obiettivo della aA29 Project Room per il 2020 è quello di far conoscere maggiormente il lavoro di Thompson negli Stati Uniti, progettando almeno una mostra e una partecipazione a una fiera internazionale. Incrociamo le dita!
Per quanto riguarda invece la sua ricerca artistica, Thompson ha già nuovi progetti a mente, che gli permetteranno di approfondire maggiormente il tema delle ghost towns e che lo porteranno a viaggiare. Ancora nulla di particolarmente definito al momento, ma vi terremo aggiornati sugli sviluppi!
Kyle Thompson. Sinking Ship
a cura di Lara Gaeta
20 novembre 2019 – 29 gennaio 2020
aA29 Project Room
Piazza Caiazzo 3, Milano
Orari: da mercoledì a venerdì 15.00-19.30; su appuntamento telefonando al +39 320 2168291
22 novembre 2019 – 31 gennaio 2020
aA29 Project Room
Via Verdi 10, Reggio Emilia
Orari: da mercoledì a venerdì 15.00-19.00; su appuntamento telefonando al +39 3391796205; +39 3282971601; +39 0522 454018
24 novembre – 31 gennaio 2020
aA29 Project Room
Via F. Turati 34, Caserta
Orari: da mercoledì a venerdì 16.30-19.30; su appuntamento telefonando al +39 329 8589624
Info: info@aa29.it
www.aa29.it