Intervista a Koen Vanmechelen di Matteo Galbiati*
Durante Art Stays 2018, il festival della cultura contemporanea che tutti gli anni anima la cittadina di Ptuj in Slovenia, abbiamo a lungo (e piacevolmente) conversato con Koen Vanmechelen. L’artista belga deve la fama internazionale alla sua ricerca che, unendo arte, cultura, scienza e attenzione per le diversità, sfocia in progetti eterogenei di forte impegno sociale ed etico. Se l’estetica artistica resta una parte non prioritaria del suo impegno, il valore maggiore della sua esperienza si indirizza proprio nel provare a fornire all’uomo, anche con una militanza attiva, gli strumenti per un progresso più equo e responsabile. Nel suo caso, l’arte non racconta di un forte impegno sociale ma è essa stessa motore di cambiamento delle società particolari e della società globale nel suo insieme, per un mondo più giusto e solidale.
Ecco il riassunto della nostra conversazione sotto il sole sloveno.
Ci racconti brevemente le tappe del tuo percorso? Cosa ti ha spinto a fare l’artista?
È stato un semplice animale ad avermi trascinato fuori da un’infanzia tradizionale. In età molto precoce ho iniziato a pormi le solite domande impegnative grazie all’incubatrice e ai polli nella mia stanza. Ho chiesto a mio padre perché – era una domanda sull’addomesticamento – ingabbiamo ciò che amiamo. Mi chiedevo perché c’erano polli dappertutto e come fosse possibile che questo uccello avesse conquistato il mondo. Dove è nato, come e perché è migrato? Mio zio mi portò in un parco naturale, dove appresi dell’habitat del gallo bankiva rosso, il pollo primordiale che vive ai piedi dell’Himalaya. Ho tradotto quanto appreso sulla specie che conoscevo meglio, l’animale umano, e questo ha conferito alla mia ricerca una natura antropologica. Diventato un po’ più grande, ho rimesso tutto in discussione e ho realizzato i miei primi assemblaggi. Anche questo non è venuto dal nulla: mio padre aveva uno studio d’arte e mia madre disegnava moda. Da loro ho ereditato il “gene artistico” e la spinta a chiedermi perché facciamo ciò che facciamo. Nel mio lavoro metto sempre più a fuoco questi interrogativi e li ri-definisco continuamente; poi, resto nel mio mondo per spiegare il mondo in generale e oltre. Questo mi rende un artista.
Un tuo motto, che ripeti spesso, recita: “Ogni organismo sta cercando un altro organismo per sopravvivere”. Cosa riassumono queste parole? Quale riflessione devono suscitare, unite al complesso dei tuoi lavori?
Riassumono quella domanda sempre ricorrente nel mio lavoro che si basa sulla dualità della natura, anche sulla nostra natura umana. Il riconoscimento dell’altro è il nostro riconoscimento. È l’unico modo di arrivare alla “fertilità”: da una prospettiva evolutiva e sociologica o psicologica, la singolarità conduce a un vicolo cieco, alla sterilità e, alla fine, all’estinzione. Gli altri non sono solo altri animali umani, ma anche altre specie. Sono la co-specie che abbiamo addomesticato per trasformare la natura selvaggia in cultura. Senza di loro, non siamo nulla. La comprensione dell’interconnessione, di tutto a tutti, è fondamentale se vuoi essere un artista e riflettere sul mondo.
Sei definito un artista concettuale, ma credo non sia una definizione completamente efficace per riassumere la complessità poliedrica della tua ricerca e dei suoi campi d’intervento…
Tutte le definizioni comportano delle limitazioni. Come artista vengo considerato un concettuale perché questo è l’unico termine disponibile per esprimere il mio partire sempre da un concetto potente per tradurlo poi in un’abbondanza di materiali e immagini. Non solo quelli tradizionali, come il legno, la pittura e il marmo, ma anche materiali meno utilizzati come il DNA, gli animali, ecc… Usare diversi materiali significa interconnettersi con altri domini e discipline, lavorare sull’intersezione delle cose e mischiarsi a nuove prospettive. Ciò significa che le tue opere si svelano in componenti che, in sé, hanno già il potenziale di essere opera d’arte. Sono come macchine di von Neumann, viaggiano di continuo nella mia testa per trovare nuovi terreni fertili. Nuovi pianeti, definiamoli come nuove uova, per ottenere le risorse con cui ricostruire e moltiplicare. Tutto ciò porta a una prospettiva di trasformazione senza fine su ciò che chiamo il mondo, il nostro “Umwelt” (ambiente, ndr). Che è solo uno di tanti. Per mantenere il controllo su queste opere, in crescita e in migrazione, mi avvalgo di alcune fondazioni: la CosmoGolem Foundation, The Walking Egg, CWRM, Combat, Mouth e CCRP.
All’arte assegni un ruolo demiurgico, molto speciale, e la leghi e la connetti alla scienza, alla filosofia per parlarci di diversità e di identità bio-culturale. Come può un’opera d’arte assolvere questa importante missione? Come concepisci i tuoi lavori secondo questo senso e attraverso queste ripetute connessioni?
Tutto è equilibrio. Trovare un equilibrio tra opposti apparenti, la ricerca di un punto di congiunzione sull’intersezione delle discipline, è il centro del mio lavoro. Il mio approccio è pluristratificato e sfaccettato. Nella mia recente esposizione It’s About Time al Serlachius Museum in Finlandia, ho predisposto installazioni dentro e fuori del museo, sui terreni circostanti, oltre a una fattoria dove si sta sviluppando una nuova comunità. Creare collegamenti con una comunità è vitale perché l’arte deve connettersi, trovare i neuroni specchio, interagire per essere rilevante. ComingWorldRememberMe è come una configurazione e pure Cosmopolitan Chicken Project. Inizia sempre con un seme e diventa una foresta. Il mio quartier generale è il mio nuovo studio Labiomista a Genk, in Belgio: è un laboratorio di idee e un laboratorio per tutte le mie idee, fondazioni e progetti. Si trova nella migliore posizione possibile: sul confine tra natura e cultura, una linea in cui si incontrano natura selvaggia e civiltà. C’è il luogo in cui la cultura umana è iniziata, là dove troviamo nuovi percorsi e prospettive. Senza il contatto costante con la natura, perdiamo noi stessi. Labiomista è un cervello funzionante, che analizza, medita, sintetizza, sogna. Con gli ingredienti che il mondo offre, cerca di capire il mondo di domani. Interagendo con il mondo senza distanziarsi da esso. È un sito gravido e fecondo, in cui le idee nascono per chi sa recepirle e, “fecondato”, sa portare il frutto di quel processo in altri luoghi.
Al centro della tua opera c’è il pollo: presente da Cosmopolitan Chicken fino a Planetary Community Chicken (PCC). Come mai hai scelto proprio il pollo per parlare delle necessità dell’uomo, del suo destino? Come tocchi i temi della multiculturalità, delle sfide economiche, delle nuove socialità? A chi ti rivolgi?
Come possiamo guardare noi stessi e imparare, senza annegare in noi? Studiando i nostri amici, cioè i nostri animali da compagnia. Le specie che abbiamo addomesticato per diffondere la cultura in tutto il pianeta. Le specie che ci hanno resi resistenti alle malattie e ci hanno aiutato mentre stavamo migrando verso le parti più lontane della Terra. È come trovare un pianeta. Gli astronomi cercano comportamenti anomali nella loro stella compagna. Faccio lo stesso con gli animali umani e le loro co-specie. Ho iniziato con il pollo perché 6.000 anni fa abbiamo addomesticato questo magnifico uccello e l’abbiamo portato in giro per il mondo. La gente lo ha trasformato, e così hanno fatto le diverse culture, ed ora ogni uccello contiene le storie, i geni e le tendenze dei popoli che ha accompagnato. È un perfetto esempio di località globale o globalità locale. Noi siamo l’uccello, il suo uovo è il mondo. Tuttavia ricorro anche ad altri animali nelle mie opere: aquile, gufi, camelidi, varie specie di uccelli più piccoli, maiali, ecc… Per capire cosa sta succedendo nel mondo, sono in costante contatto e lavoro con scienziati di varie discipline, imprenditori, filosofi, con comunità (indigene), innovatori… C’è una vasta raccolta di informazioni memorizzate in culture antiche, rappresentate per esempio dalle tribù native. Le visito, scambio idee e avvio progetti. Non solo la diversità biologica mi affascina, ma anche la diversità culturale, entrambe sono interconnesse, quindi l’identità bio-culturale è un tema nel mio lavoro. Le domande sono chi siamo, perché e per quanto tempo?
Recentemente ha visto la luce Labiomista e l’Open University of Diversity. Ci introduci tali progetti?
L’Open University of Diversity o OpUnDi è stata fondata nel 2012 e combina le mie basi. Serve anche da piattaforma intellettuale e forum e mira a creare una comunità inclusiva di menti e pensatori innovatori attorno al tema della diversità bio-culturale. Quindi OpUnDi è un insieme di esperti e un luogo di incontro per l’impollinazione incrociata. Scienziati, filosofi, artisti e altri specialisti di diversi settori sono invitati a rendere la comunità OpUnDi più forte e diversificata. Dibattiti, simposi, conferenze e riunioni sono eventi organizzati e strutturati attraverso le opere d’arte che saranno esposte permanentemente. OpUnDi funge da spazio intellettuale in cui arte e scienza possono intersecarsi.
Labiomista, d’altra parte, è il mio studio e il quartier generale della fondazione, situato in un ex zoo pubblico. Labiomista, che letteralmente significa “combinazione di vita”, è di per sé un progetto artistico onnicomprensivo, concepito come modello per le idee filosofiche sulle quali si basa il mio lavoro. Ospito la prima Open University of Diversity e le relative basi. Il sito è anche il luogo in cui vivono e si riproducono i miei animali. È sia un laboratorio, una biblioteca di diversità bio-culturale che un parco zoologico.
Quali sono gli impegni che ti aspettano nel prossimo futuro, quali progetti ti vedranno protagonista? A cosa stai lavorando?
Ho recentemente aperto una fattoria in Etiopia, in collaborazione con l’Istituto internazionale per la ricerca sul bestiame, con un nuovo progetto sul pollame per combattere la povertà e la carestia. Incubated Worlds è un’opera d’arte e un centro di ricerca allo stesso tempo, uno sforzo congiunto con due genetisti esperti di bestiame. Vuole sfruttare la diversità per promuovere nuovi tipi di unità e armonia. Rivela di nuovo come l’arte e la scienza siano partner preziosi nell’affrontare le sfide globali dei sistemi alimentari sostenibili. Sono reduce da mostre a Mänttä (Finlandia) e da Art Stays 2018, il festival di arte contemporanea di Ptuj (Slovenia). In previsione ho un nuovo Cosmogolem in Ecuador e lo sviluppo di Labiomista che aprirà al pubblico a maggio 2019. In autunno ho una mostra in una galleria a Chicago. Per il prossimo anno, poi, stiamo programmando una mostra al Victoria and Albert Museum di Londra, all’Università di Mendrisio e alla Biennale di Venezia.
*Tratta da Espoarte #103.
Koen Vanmechelen (Belgio, 1965) è un artista acclamato, le cui opere d’arte riuniscono natura, scienza e azioni dirette che contribuiscono alla sostenibilità socio-economica ed ecologica di una comunità. I temi chiave sono la diversità bioculturale, la fertilità e il movimento perpetuo per l’equilibrio. Nel 2010, ha ricevuto un dottorato ad honorem dall’Università di Hasselt ed è stato premiato con la Golden Nica Hybrid Art a Linz nel 2013. Oltre ad essere regolarmente presente alla Biennale di Venezia, il suo lavoro è stato esposto alle Biennali di Mosca, L’Avana e Dakar, alla Triennale di Guangzhou, all’Expo Mondiale di Shanghai 2010, a Manifesta 9 e dOCUMENTA (13). In tutto il mondo sono state organizzate oltre 80 mostre personali ed è stato incluso in oltre 220 collettive. Oratore ricercato, si è esibito al World Economic Forum nel 2008 e durante numerose conferenze TED.
Info: www.koenvanmechelen.be