TORINO | THE PHAIR 2021 | Padiglione 3 – Torino Esposizioni, Parco del Valentino | 18-19-20 giugno 2021
Intervista ad ANTONIO MANAGÒ e SIMONE ZECUBI di Livia Savorelli
Quello che vi proponiamo oggi è un intenso dialogo realizzato con i J&PEG – duo attivo dal 2008, composto da Antonio Managò e Simone Zecubi – in occasione della presentazione della loro nuova serie Mistica, che sarà esposta in anteprima da Gagliardi e Domke in occasione dell’annuale appuntamento torinese con The Phair, kermesse dedicata alla fotografia e all’immagine che quest’anno – dopo l’edizione 2019 alla Ex Borsa Valori di Torino – si terrà al Padiglione 3 di Torino Esposizioni, nel Parco del Valentino, il 18-19 e 20 giugno 2021.
Mantenendo una forte linea di continuità con la precedente ricerca – l’immagine è il risultato di un processo performativo che si focalizza sulla complessità dell’essere umano – il mondo a cui i J&PEG rivolgono la loro attenzione e che restituiscono attraverso le loro fotografie, che prendono vita attraverso un processo complesso che scoprirete a seguire, è “un ibrido che nasce dall’abbraccio di mondi opposti, virtuale e reale, digitale e analogico”…
La vostra produzione più recente, la serie Mistica, sarà presentata in anteprima a The Phair a Torino, dopo la preview offerta nel 2019 in occasione dell’antologica di Napoli, a Castel dell’Ovo.
Da una parte essa si pone come riflessione antropologica sull’uomo, condotta assecondando la logica della macchina e, quindi, i dettami della tecnologia, dall’altra innesta una messa a nudo della falsificazione e della conseguente trasfigurazione che l’identità umana subisce nella realtà virtuale, che semplifica, oggettivizza e rende superficiale tutto ciò che in essa viene inglobato. Come nasce questa serie, di quante opere si compone e da quali motivazioni? Come si pone in continuità con la vostra ricerca precedente?
Questa nuova serie nasce in seguito ad una lunga gestazione e riflessione. Nell’ultimo anno e mezzo ci siamo isolati a prescindere dalla pandemia, con l’idea di sperimentare e trovare un linguaggio che riflettesse pienamente la nostra percezione del periodo storico che stavamo vivendo. Parte della produzione nata durante questo lasso di tempo è stata volontariamente accantonata con il proposito di raggiungere un’estrema qualità, affinando sempre di più il nostro approccio. Abbiamo selezionato una decina pezzi che ci soddisfano pienamente e che diventeranno la base per sviluppare il nostro lavoro futuro.
Lavoriamo insieme dal 2008 e, sin da allora, la nostra ricerca artistica ha subito una naturale evoluzione riflettendo probabilmente le nostre esperienze di vita. Siamo sempre stati interessati alla composizione di un’immagine come risultato di un processo performativo che avesse come centralità la complessità dell’essere umano. La maggior parte dei nostri lavori includono sempre nell’inquadratura almeno una persona. Anche nel caso di questa recente produzione, in cui il concetto di natura morta è protagonista, la nostra volontà è stata quella di descrivere indirettamente i sentimenti di una presenza umana, che è palpabile al di fuori del rettangolo dell’inquadratura.
Già il titolo della serie, preannuncia l’idea di riportare in primo piano l’icona – sempre a partire dalla constatazione che i social hanno di fatto reso “icone” persone che hanno generato un’elevata attenzione mediatica solo grazie al loro modo di apparire e comunicare al mondo – donandogli un’aura di eternità.
Sembra che vogliate comunicare che tutti possiamo essere icone ma non necessariamente dobbiamo occultare la nostra personalità per diventarlo…
È la realtà. Questo ciclo di lavori è partito da una ricognizione del mondo reale attraverso gli occhi della rete.
Il labirinto del web nel nostro processo creativo è sempre stato una risorsa enciclopedica da cui prendere ispirazione e spunti di riflessione. Una sorta di vaso di pandora che, una volta aperto, rileva lo stato di malessere della comunità di cui facciamo parte.
Nell’ultimo decennio la nostra società, definita dalla filosofia contemporanea come società della tecnica, ha subito a sua insaputa un processo di schiavitù digitale senza precedenti. Questo meccanismo ossessivo ha spinto gli esseri umani a percepire, e a far percepire ai loro simili, il mondo per quello che non è. Migliaia di foto dai colori sgargianti invadono le piattaforme social (Instagram, TikTok, ecc) canalizzando agli occhi dell’utente l’eterna farsa dell’apparire, che tutto trasfigura nel breve tempo di un giorno o di un like.
Questo meccanismo subdolo che ci obbliga a mostrarci per qualcosa di diverso da quello che siamo, cristallizza la nostra immagine trasformandoci in icone casalinghe.
Seguendo questa logica democratica, tutti possono diventare tutti semplicemente indossando una maschera. Forse è una utopia poter scardinare questo automatismo che ormai è sottopelle, diventato parte del nostro istinto quotidiano. Siamo talmente unici come esseri viventi, che basterebbe essere consapevoli dei nostri limiti per diventare dei veri protagonisti.
Collegandomi a quando detto precedentemente torna, seppur con modalità diverse rispetto alle serie precedenti, il concetto del mascheramento. Un telo argentato – che restituisce sia l’immaginario patinato e glamour che pervade questo ciclo sia la dimensione pixelata attraverso la quale in rete si costituisce l’immagine – agisce sui volti dei soggetti, ne camuffa le fragilità ma li riconsegna a una realtà nuova che è meglio della finzione. La frammentazione, quindi, come restituzione?
Sì esatto. Il telo argentato che utilizziamo per creare la frammentazione dell’immagine è il vero protagonista della scena. Anche se lo si nota solo in un secondo momento, ci permette di dipingere l’immagine attraverso migliaia di pigmenti colorati che frammentano la finzione per far emergere il vero reale.
In questa terra di mezzo, cerchiamo di imprigionare l’essenza del soggetto che appare affascinante per quello che è veramente. Tutto quello che è dietro al telo, rimane sfondo cagionevole al passare del tempo.
La serie, basata su colori intensi, con degli immediati rimandi visivi alla moda e al teatro, è di fatto originata da un processo che contempla diversi step e diversi media: una pratica performativa (dalla definizione del setting all’azione dei soggetti protagonisti), una seconda fase prettamente di fotografia da studio e una terza che si avvale dell’uso delle tecnologie, per arrivare all’opera finita che di fatto è una fotografia. Ci volete raccontare qualcosa di più di questo vostro modus operandi? Chi sono i soggetti coinvolti e come intervenite a ridefinire, in questo alterato rapporto di realtà e virtualità, un rinnovato essere della persona?
Pur guardando il mondo attraverso il filtro di internet, il nostro lavoro è di fatto anche di vita reale, concreta. Possiamo definirlo come un ibrido che nasce dall’abbraccio di mondi opposti, virtuale e reale, digitale e analogico. Includiamo nel processo creativo persone che accompagnano il nostro percorso di vita. Siamo attratti dal loro sguardo, dalla loro personalità e dal loro modo di rapportarsi con il mondo. Diventano per noi dei punti di riferimento su cui posiamo lo sguardo per muoverci nella nostra dimensione di ricerca.
Anche nella composizione degli still life il processo è simile: l’oggetto inanimato diventa una sorta di persona a noi vicina, un conoscente che probabilmente vive nel nostro inconscio. La sua figura non esiste, ma gli oggetti fotografati compongono come un puzzle i suoi lineamenti e la sua struttura caratteriale.
In questo modo, il suo animo prende forma attraverso composizioni teatrali che riflettono indirettamente i nostri stati d’animo e la nostra volontà di costruire mondi immaginari per sfuggire alla realtà che stiamo vivendo.
La ricerca concettuale viene supportata da un lavoro in studio metodico, che si suddivide in ricerca, composizione dell’immagine, fotografia dell’immagine, proiezione dell’immagine su telo che è manualmente modellato, fotografia dell’immagine scomposta sul telo ed infine sovrapposizione dei due scatti attraverso un lavoro di post-produzione. Ogni opera stampata è unica, non esistono multipli.
Accanto ai soggetti “umani”, ritroviamo tutta una serie di oggetti che diventano protagonisti di accesi still life. Si tratta di oggetti domestici, ritornati durante il lockdown – che ha inevitabilmente dato origine a una nuova quotidianità e ridefinito il nostro rapporto con la casa e con gli oggetti che la caratterizzano – ad avere un’attenzione diversa e un ruolo differente nella nostra intimità: oggetti di affezione ma anche di evasione da una forma di reclusione difficile da accettare.
Si tratta di un processo inverso a quello di cui parlavamo all’inizio, ovvero ridare un nuovo volto ad essi e quindi in sostanza dare loro nuova vita? Potremmo parlare di personalizzazione di un oggetto inanimato? Still Life come definizioni di nuovi mondi?
Sì certamente. Come abbiamo anticipato nella domanda precedente, gli oggetti che compongono gli still life, pur avendo vita propria, intersecano le loro energie per disegnare i lineamenti di un volto che non esiste. Con la stessa modalità, gli elementi racchiusi nello scatto mostrano il nostro desiderio di costruire mondi immaginari dove poterci perdere, e liberare dalle sovrastrutture mentali che ci assillano dall’esterno. In quel paesaggio composto da elementi se vogliamo banali, ci si sente finalmente al sicuro, leggeri, protetti.
Siamo consapevoli di come il lockdown abbia amplificato la ricerca di questo feeling di evasione. Il senso di costrizione portato dall’isolamento ha spinto noi e tutto il resto della comunità a percepire la vita giornaliera attraverso occhi differiti. Personalmente ci siamo accorti che tutto quello che cercavamo in fondo era già dentro il nostro studio. Potevamo evadere da quello che succedeva all’esterno con degli oggetti che, fino a quel momento, erano stati dimenticati nella frenesia di tutti giorni.
Gli oggetti si sono trasformati in elementi animati con cui avere un dialogo visivo che appagasse la nostra voglia di esplorare.