ROMA | PALAZZO BONAPARTE | FINO AL 28 AGOSTO 2022
di BEATRICE CONTE
Fino al 28 agosto, Palazzo Bonaparte di Roma ospita la prima grande mostra dedicata a JAGO, artista visionario e interprete contemporaneo. Noto e molto amato tra i giovani, ha fatto proprio il linguaggio della scultura valicandone i confini liturgici, accedendola all’immaginario collettivo e suscitando provocazioni e riflessioni nelle dinamiche del presente. Per questo, confrontarsi con l’opera di Jago è un esercizio emozionale complesso, dove niente si riduce alla buona o alla cattiva estetica. Mentre tutto resta sospeso sulla linea del tempo, le superfici disegnano una traccia personalissima dell’autore, che con la materia ha costruito un rapporto intimo e mutevole. Ciò che si percepisce dal suo lavoro, è il febbricitante desiderio di creare qualcosa di importante, di attuale, qualcosa che attraversi lo spettatore e gli lasci un frammento. Quello stesso frammento che è parte del suo mondo, un mondo che si rivela dalla pietra, che comunica, viaggia e vive attraverso gli occhi di chi lo osserva, dove il visitatore è testimone e nutre la volontà che l’artista ha di andare in scena.
Recuperando una tradizione antica cui impone il suo linguaggio, quanto mai contemporaneo, crea attorno l’opera un coinvolgimento che ne stratifica la lettura, dal paradigma classico agli schemi del suo tempo. Del suo presente storico, l’artista si rende interprete e vettore di immagini che fotografano l’oggi e il domani, sottraendo alle forme canoniche cui si relaziona la loro universale e immutata bellezza. Queste opere del grande repertorio antico mutano d’ordine, armonia, equilibrio, per trovarne di nuovi che sappiano attraversare e imprimersi nella memoria odierna. La Venere si spoglia della sua fanciullezza, e si lascia definire dai segni del tempo. Nello sguardo trattiene la dicotomia del forte e del fragile. La fronte corrugata svela di lei una grande malinconia, mentre lo sguardo nasconde una quieta veemenza. Questa forza a cui la figura non rinuncia, unita alla geometria che lega il suo corpo alla sua giovane immagine, sono significative di un linguaggio che vuol mostrare tutti i volti del vero. Non solo la bellezza, ma anche la bellezza. Non solo il dramma, ma anche il dramma. In tal senso, la Pietà non scava solamente nella pietra, ma si impone a noi guidando la riflessione ai margini del “mondo occidentale”, dove l’orrore è il volto di un padre che stringe a sé il corpo esanime di suo figlio. Qui, le dinamiche tensionali del gruppo scultoreo invertono la lettura rinascimentale. La Maria michelangiolesca è assorta in un dolore quieto in cui non ci si riconosce, mentre Jago ci lascia assistere ad un linguaggio di forme in cui possiamo identificarci e sentire che quel dramma ci appartiene. L’intera immagine sembra sorreggersi a un filo sottile in cui i corpi si lasciano ammansire dal peso che li trascina a terra, mentre il volto e le spalle del solo padre sostengono il tormento che governa la composizione. Una metafora, quella dell’opera, sapientemente rafforzata dal suo posizionamento sullo scorcio del “monumento sepolcrale della Nazione”, che conduce lo spettatore al dibattito al contempo critico e intimo con sé stesso.
Queste due opere – la Pietà e la Venere – si specchiano nell’inasprimento dell’esistenza umana in cui vita e morte si contendono il palco, in una triangolazione di spazi emotivi conformi ai dettami di contrasto di luce e buio. Alla penombra è affidata la figura della Venere che gioca sul valore nascosto di forza e bellezza, per richiedere un tempo di osservazione più lungo e raccolto. Mentre la Pietà si lascia permeare dal riverbero del mondo esterno che ha su di sé questo sempre presente rapporto con l’abbandono, l’assenza, lo smarrimento. Ed entrambi gli ambienti coincidono con una voluta suggestione per cui lo spettatore si possa riflettere e avvicinare a questi contenitori di significato. Alchemica è invece l’immagine del Figlio velato, la cui resa del velo gli corrisponde una ruvidità delle superfici che di poco si allontana dal sentimento tardo-barocco di cui l’opera di Sanmartino, mantenendone la delicatezza di linee. Nascente dal blocco di marmo, sotto il sudario e ritmata dalle pieghe del velo, la figura del neonato si rende ancor più esposta ed evidente. Sul volto, un’espressione quasi serena di ferma rassegnazione, la paziente consapevolezza di possedere un destino comune per tutti e temuto per alcuni. E la moderna sensibilità dell’artista ancora una volta ne inverte i canoni di senso. Un bambino precluso alla vita vi attribuisce ancor più significato di quanto se ne legga in un uomo, quasi che se ne abbia una percezione di vaga speranza.
Nei suoi primi lavori, l’artista era già alla ricerca di un mezzo da cui enucleare una forma di significato esistenziale, che ritraesse la vita attraverso la morte e viceversa. Nel ciclo dei Sassi, qui in mostra presente all’inizio del circuito espositivo come allegorico punto di principio e di fine, l’autore si intromette nel lavorìo dell’acqua che sulle rive del monte Altissimo – Toscana – leviga grandi pietre di scarto deposte sul letto del fiume. Interferisce e conduce questa danza della natura a sua immagine, a sua intuizione, restituendo opere di grande valore pregevole come La pelle dentro e Memoria di sé. In Memoria di sé, Jago scandisce e stratifica l’esistenza raccontando la propria. Un nascituro e un uomo adulto che condividono la stessa memoria, nella stessa misura di pace e raccoglimento.
Con quest’ultimo affondo si sintetizza il percorso intimo e mutevole dell’artista, il suo rapporto con la materia, con sé, con il visitatore. I suoi lavori ci fanno capire di Jago che il suo processo di trasformazione non riguarda solo la pietra. Riguarda l’idea. Riguarda il pubblico.
JAGO. The Exhibition
a cura di Maria Teresa Benedetti
12 marzo – 28 agosto 2022
Palazzo Bonaparte
Spazio Generali Valore Cultura
Piazza Venezia 5, Roma
Orari: tutti i giorni 11.00 – 21.00
(la biglietteria chiude un’ora prima)
Info: + 39 06 87 15 111
www.mostrepalazzobonaparte.it/mostra-jago.php