ROMA | Macro Testaccio | 1 febbraio – 17 marzo 2013
Intervista a MICOL DI VEROLI di Daniela Trincia
Abituati a percepire Israele come un Paese fortemente vincolato alla religione, costantemente impegnato nel conflitto palestinese già all’indomani della sua proclamazione nel maggio 1948, inconsapevolmente, riteniamo che ogni altro tipo di attività quotidiana sia rallentata se non addirittura inesistente. Israel Now – Reinventing the future, l’esposizione curata da Micol Di Veroli al Macro Testaccio, punta a sfatare questo fallace convincimento. Ventiquattro artisti, di generazioni diverse e di differenti linguaggi, illustrano una produzione artistica molto ricca e fertile, attenta ai più aggiornati linguaggi, pronta a recepirli e a riformularli in mondo originale e inedito. Soprattutto perché alcuni Paesi “occidentali” non sono riusciti a conciliare la propria storia con il progresso tecnologico, e ciò ha spesso creato dei cortocircuiti culturali. L’apertura verso il nuovo e la predisposizione verso il progresso sono i punti di partenza delle scelte curatoriali. Focalizzando negli artisti israeliani una spiccata propensione verso l’avvenire nel significato di speranza e di riscatto, nelle rispettive produzioni sono stati altresì individuati peculiari modi di approcciarsi al concetto di futuro, delineando delle tematiche, dalle quali emerge quanto la spiritualità permei la produzione artistica senza però condizionarla o ostacolarla. Emerge cioè come gli artisti sono riusciti a ottenere quel giusto bilanciamento e quell’autonomia atti a porli di fronte alla tradizione in modo schietto, obiettivo e, in alcuni casi, anche critico, senza riverenza o timore.
Ma è la stessa curatrice a parlarci della mostra più dettagliatamente.
Nelle pagine del catalogo hai affiancato al sostantivo futuro un sentimento di ansia dell’incerto. Quest’ansia, secondo te, corrisponde all’innata incertezza del popolo ebraico oppure è una riflessione più ampia?
È una riflessione più ampia, una via dell’arte in generale, che percorre tutto l’Occidente, soprattutto perché a volte il futuro è anche comprensione del passato, della storia.
Seguendo da vicino l’arte israeliana, hai avvertito che, più il passato ha un certo peso, maggiore è il desiderio di futuro?
In questo caso passato e futuro vanno di pari passo. Anche nella mostra gli artisti parlano della memoria come della religione che diventano le chiavi per guardare il domani. Che non vuol dire che sia esclusivamente quello tecnologico.
Nella mostra sono presenti pressoché tutti i linguaggi, dal video alle installazioni, alla fotografia, mentre è quasi assente la pittura…
Mentre eseguivo le mie ricerche curatoriali, ho guardato molto anche la pittura e ho constatato che ce n’è tantissima ma, mi si passi il termine, è molto naïf e, quindi, per me non in grado di veicolare concetti e tensioni universali.
Tra le opere selezionate, ci sono dei lavori appositamente realizzati per la mostra?
Sì, e sono Rusted planet (Mars) di Gal Weinstein, due grandi tavole sulle quali è stata incollata della lana di acciaio; i video di Leig Orpaz (Level one, Seven Stars e Butterfly, 2012) dove, dopo l’immagine di una persona che non si vede che cammina nella neve, si vedono degli anziani seduti su delle sedie a rotelle che parlano di un passato remoto e non di quello prossimo, perché colpiti dall’Alzheimer, e di nuovo una persona che non si vede che cammina nel buio, video in cui di nuovo si parla dell’incertezza, dell’essere spaesati perché, pur avendo una memoria, non si sa dove condurrà; Vive le Capital, la videoinstallazione di Orit Ben-Shitrit che denuncia anche lo stato attuale di crisi economica che attraversa l’occidente; le riedizioni delle installazioni di Shay Frisch (Campo 1666 B e Campo 4011 N) e del wall painting di Maya Attoun (Moving).
Inoltre hai selezionato le opere in base a delle specifiche tematiche che hai individuato durante la ricerca…
Sì, infatti, ho notato che sono diversi i modi di approcciarsi al futuro. Chi lo reinventa attraverso la “ricerca scientifica” (Uri Nir col video 00:02:09” dove c’è uno scienziato che inietta il sangue umano in una medusa, e Michal Rovner che osserva l’umanità come attraverso un microscopio nel video Culture plate #7). Chi lo reinventa attraverso la tecnologia (Guy Zagursky, Follow the white rabbit). Chi attraverso la forma (Nahum Tevet, Islands). Chi attraverso la memoria e la religione (Lea Golda Holterman, Untitled). Chi attraverso nuovi confini geografici (Yehudit Sasportas, The lightworkers; Shai Kremer, IDF Structure near the Turkish railroad station). E chi, infine, attraverso consapevolezza socio politica (oltre a Bartana già citata, Dani Gal, Zen for tv and the birth of the Palestinian refugee problem).
Sono affiancati artisti appartenenti a generazioni diverse, è voluto?
Sì, perché per me il dialogo serve per “far crescere” l’artista giovane e dare nuova linfa all’artista più maturo.
Così come sono presenti anche lavori “datati”…
Non mi interessava la più recente produzione ma la potenza del messaggio ancora attuale.
Perciò l’intento principale della mostra era quello di…
…mostrare un volto di un paese menzionato solo per il conflitto e mostrare un lato che di solito non è conosciuto che è quello culturale e dell’arte contemporanea.
Israel Now – Reinventing the future
a cura di Micol Di Veroli
Macro Testaccio
Piazza O. Giustiniani 4, Roma
Orari: da martedì a domenica 16.00-22.00
Ingresso: biglietto intero € 6,00; ridotto € 4,00
Info: www.museomacro.org
www.israel-now.org
+39 06 67107040