di ILARIA BIGNOTTI
Scrivere di Mauro Panzera per chi, come me, è cresciuta con i suoi testi e le sue lucide critiche all’arte povera, concettuale, alla contro architettura radicale, alla fotografia, e poi, alle nuove generazioni di artisti…
Non so se sia questo sia l’inizio corretto per un saluto a Mauro Panzera, mancato lo scorso 3 giugno, soprattutto se questo saluto è scritto dalle aule dell’Accademia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia. Qui infatti Mauro Panzera, per me, ha smesso di essere solo un nome di riferimento della critica d’arte italiana, ed è diventato un essere umano. Nel senso più alto del termine.
Qui insegnava Storia dell’Arte contemporanea. Io avevo appena iniziato a insegnare, avevo un corso breve. Un po’ spaesata, andavo a sentire le sue lezioni. Mi sembrava di tornare all’Università, quando si è avidi di informazioni, di stimoli, si è impressionabili come la cera, e tutto quello che si può desiderare è un docente che ha vissuto in prima linea le cose che racconta.
I suoi corsi monografici erano incursioni trasversali: si partiva con il gruppo Azimuth e si sbucava da Saatchi. Si iniziava con Marina Abramovic e ci si trovava dalle parti di Paul Klee. Portava tanti cataloghi. Diceva che bisognava andare a vedere le mostre ed essere presenti sempre. Lo seguivo quando faceva le uscite didattiche con gli studenti. Spiegava con la sua energia di voler far vedere le cose.
Non spiegava in realtà: davanti alle opere d’arte tirava fuori problemi.
Le opere d’arte sono problemi che gli artisti pongono al mondo, chiedendoci di risolverli; altrimenti non sono opere d’arte, diceva. Queste frasi le ricordo come se fossero dette ieri.
Mauro Panzera ha tirato su generazioni di giovani artisti. Guardava i loro lavori con una ironia grave e una leggerezza serissima. Non dava mai parole di elogio, ma sapeva far capire la direzione da proseguire, o la svolta da provare. Senza mai imporre nulla.
E lasciava che la storia dell’arte filtrasse, come un tè leggero in una grande tazza di acqua in bollore, bollente e a volte pericolosa come i linguaggi delle nuove generazioni, quando stanno crescendo.