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NAPOLI | Museo Madre | 9 luglio – 8 novembre 2021

di BEATRICE SALVATORE

Una distopìa, o anche anti-utopia, contro-utopia, utopia negativa o cacotopia, è una descrizione o rappresentazione di una realtà immaginaria del futuro, ma prevedibile sulla base di tendenze del presente percepite come altamente negative, in cui viene presagita un’esperienza di vita indesiderabile o spaventosa. (Wikipedia)

Raffaela Mariniello,
Cokeria

La parola utopia ha assunto ormai essa stessa valenza negativa, come fosse un contenitore vuoto, creato appositamente per ingenui sognatori, un oggetto colorato che agitato produce un tintinnio e nulla più; un po’ come la parola ideologia, mostro a tre teste che evoca totalitarismi e domini assoluti e pericolosi.
L’utopia come “tendere a”, come rappresentazione immaginaria di mondi non ideali, ma desiderabili (creati dal potere del desiderio), come luogo intimo, ma condiviso, di scenari di un’umanità fondata sui valori di riconoscimento, memoria, comunità, aiuto, distribuzione, infatti non esiste più, quindi non è più di moda.
In una parola, un’altra, è l’immaginario ad essere in pericolo. Reale.

Utopia Distopia: il mito del progresso partendo dal Sud. Veduta della mostra al Madre, museo d’arte contemporanea Donnaregina Foto di Amedeo Benestante. Spazio Urbano Perino e Vele; Danilo Correale; Raffaela Mariniello

Potrà suonare come un proclama, un’affermazione assolutista, ma l’uomo è libero innanzitutto (e solamente) se è vivo il suo immaginario, la sua capacità di creare altri mondi, impiegando il suo desiderio (la forza vitale della nostra psiche) come uno strumento utile e costruttivo.
Qui dunque sta la forte consonanza tra l’arte (e il suo potere che spesso gli stessi artisti non ricordano più) e il senso dell’utopia, che anche da un punto di vista storico, politico e reale, ha lasciato il posto al suo contrario: la disillusione del distopico.
E proprio attraverso lo sguardo dell’arte e del potere dell’immaginario dunque, la mostra dal forte sapore documentaristico Utopia Distopia: il mito del progresso partendo dal Sud, a cura di Kathryn Weir e voluta dalla Fondazione Donnaregina per il Museo Madre, indaga il tema dell’utopia legato alla realtà del mito del progresso, fondato su un’idea di futuro (migliore) per tutti e rivelatosi poi vantaggio del profitto, del denaro, del potere di pochi e soprattutto visione di un liberismo che in realtà diviene asservimento.

Utopia Distopia: il mito del progresso partendo dal Sud Veduta della mostra al Madre, museo d’arte contemporanea Donnaregina Foto di Amedeo Benestante. Spazio Industriale Ibrahim Mahama

Cinquantacinque artisti di cui trentacinque campani e sei che hanno scelto il sud come territorio di genesi di alcune loro opere emblematiche esposte nelle sale del Museo, si confrontano con l’idea di ciò che poteva essere, il sogno di una società e di un’umanità in equilibrio con la natura e il suo ambiente, con ciò che nel corso della storia è stato in realtà.
La mostra si legge come un vero e proprio percorso suddiviso in sei sezioni (come capitoli di un libro) in cui la parola utopia può essere declinata, partendo dal concetto e dalla rappresentazione della città come luogo principe di una collettività che guarda speranzosa al progresso affidato alla tecnologia, che avrebbe dovuto liberare l’uomo dalla fatica e dalla dipendenza dal lavoro, ma in realtà lo ha asservito ancora di più, dominandolo.
Si apre così la narrazione espositiva di Spazio Urbano: la città è innanzitutto spazio, è corpo collettivo che invece di essere luogo di appartenenza, di espressione di diritti e di comunità, subisce continui sventramenti, frammentazioni, decentramenti: non a caso, dopo la prima piccola sala introduttiva dove nel lavoro di Cherubino Gambardella la città è mappa ideale e caotica, il percorso si apre con le immagini di forte impatto tratte da Le mani sulla città, pellicola del 1963 diretta da Francesco Rosi, che mostra mischiando reale e simbolico, il contrasto tra un passato che sembra resistere ed un futuro imposto da un potere che aggira e raggira in nome del puro profitto; in un angolo dello spazio raccolto della videoinstallazione, una betoniera lucidata e riposta come un oggetto prezioso, presenzia muta.

Domenico Antonio Mancini, La periferia vi guarda con odio
Dimensioni ambientali

La grande sala centrale è una foresta di segni che raccontano con luci e suoni sovrapposti il rapporto a volte straniante tra l’uomo e lo spazio abitativo, il suo decentramento e lo spaesamento: nel video The Game, Danilo Correale mette in scena l’utopia della partecipazione immaginando una partita a tre squadre, con interviste al pubblico; le fa da contraltare il grande pannello fotografico di una periferia desolata ed immobile, animata solo dal suono di una trasmissione popolare con telefonate in diretta, come se provenisse da una delle case anonime in fotografia. Al centro la grande installazione di Perino e Vele sembra rappresentare un esasperato bisogno di orientarsi tra segni contraddittori e i non luoghi della contemporaneità che a sua volta Giulio Delvé racconta, scegliendo l’ironia, in Carazia in cui confronta il rapporto tra affetti intimi e l’astrazione delle istituzioni.

Giulio Delvé, Carazia

A chiudere questa sezione il lavoro di Domenico Antonio Mancini La periferia vi guarda con odio sottolinea il divario e il conflitto che si crea ai margini di una società frammentata mentre il poetico lightbox di Raffaela Mariniello che illumina le case dei Quartieri Spagnoli sembra raccontarne le piccole nascoste realtà.
L’utopia del progresso così, attraverso la lente dell’arte mostra il suo fallimento e tutte le sue insanate contraddizioni.

Utopia Distopia: il mito del progresso partendo dal Sud Veduta della mostra al Madre, museo d’arte contemporanea Donnaregina Foto di Amedeo Benestante. Spazio Rurale Bruna Esposito; Antonio Biasucci; Maria Lai

Alla città come luogo della disillusione si contrappone lo Spazio Rurale, sezione della mostra che racconta il rapporto con la natura e con le sedimentazioni di un passato resistente che a partire dagli Anni ’60 gli artisti stessi con il loro attivismo politico, hanno vissuto e rappresentato come luogo privilegiato dell’utopia, una sorta di Eden da conservare e valorizzare; non a caso in quegli anni è fortissimo l’intreccio tra arte e antropologia, che racconta il mito della civiltà contadina e dei suoi valori di forte coesione e condivisione sociale: il racconto inizia con la documentazione fotografica del bel lavoro del duo Bianco Valente, artisti da sempre impegnati ad indagare l’aspetto relazionale e lo spazio della contemporaneità attraverso l’acuta analisi dei segni linguistici, che qui hanno chiesto agli abitanti di un paesino del Cilento (Roccagloriosa) Cosa manca? Per raccontare il progressivo svuotamento del (dei) piccolo borgo e quindi delle sue radici e della sua cultura.

Bianco Valente, Cosa manca?

Il mondo rurale è evocato anche nell’installazione video della performance Legarsi alla montagna di Maria Lai in cui l’artista “lega” con un lungo nastro case e abitanti e negli oggetti simbolici e reali di Bruna Esposito. Al centro campeggia un grande e odoroso nido dal titolo Migrazioni di Michele Iodice, che rappresenta allo stesso tempo un luogo di incertezza e il senso (desiderio) di un approdo sicuro per i tanti braccianti extracomunitari che l’artista ha coinvolto nella creazione stessa dell’opera. L’elegante lavoro di Eugenio Giliberti, una grande tela in cui sono catalogati e disegnati piccoli arbusti, indaga la natura come risultato di un’armonia tra l’uomo e il suo ambiente, mentre Salvatore Emblema cattura sulla superficie la pietra lavica come simbolo di forze naturali.
Qui si fa strada l’idea del Sud come luogo di trasformazioni sociali e culturali profonde ma anche come possibile origine di una diversa realtà fondata sulla natura e su valori fondamentali da riscoprire come fuoco sotto la cenere da cui ripartire.

Utopia Distopia: il mito del progresso partendo dal Sud Veduta della mostra al Madre, museo d’arte contemporanea Donnaregina Foto di Amedeo Benestante. Spazio Rurale Michele Iodice

Lo Spazio Periferico è un’indagine estetica attraverso lo sguardo di artisti che con il loro impegno e coinvolgendo gli abitanti di spazi urbani lontani dal centro, hanno cercato di rendere vivi luoghi destinati alla marginalità e all’oblio come nel caso delle sperimentazioni sociali di Riccardo Dalisi e di Felice! Video intervista all’attivista intellettuale Felice Pignataro che lega il suo nome alla realtà di Secondigliano e alla nascita del Carnevale di Scampia.
L’inevitabile Spazio Industriale si apre con le visioni di Mimmo Jodice e Raffaela Mariniello dallo storico stabilimento siderurgico di Bagnoli e di Red Rivers e Gardens of Eden di Ibrahim Mahama che associa immagini industriali dell’ex stabilimento alle mappe del territorio africano o ancora con le stranianti macerie di Goldschmied & Chiari che invadono una sala del museo.

Goldschmied & Chiari, installation view. Utopia Distopia: il mito del progresso partendo dal Sud Veduta della mostra al Madre, museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli

L’utopia questa, di un futuro quasi fuori dalla storia, è raccontata nella sezione Spazio Extraterritoriale, una sorta di Finis Terrae (è il titolo dei lavori di Monica Biancardi) dell’umanità in cui si sottolinea il senso di vuoto e di assenza di appartenenza, come nel bel lavoro di Francesco Arena, che affida ad una visione quasi onirica il desiderio di terra e approdo sintetizzandola nell’immagine di una sottile striscia di sabbia sul ferro di una trave che attraversa la sala.
Anche il corpo e soprattutto il corpo femminile è ed è stato luogo di utopia e di conflitto sociale, sempre in bilico tra rappresentazione di libertà e di puro oggetto estetico, tra desiderio di emancipazione e realtà di discriminazione: testimonianza per la sezione Spazio del corpo sono le opere del collettivo storico Gruppo XX (Mathelda Balatresi, Antonietta Casiello, Rosa Panaro, Mimma Sardella) che la lungimiranza di Lucio Amelio fece conoscere al pubblico e che ha indagato le dinamiche ancora attuali del modello culturale patriarcale o per le ultime generazioni di artiste, le opere che ricercano attraverso la performance il tema dell’identità e del genere, come nel video di Roxy in the Box o nella cruda e allo stesso tempo delicatissima poetica di Rosy Rox, di cui vediamo in mostra una piccola scultura-ventaglio dal titolo Credo che gioca con l’ambiguità del nome che allude allo stesso tempo ad un pieno atto di fiducia e alle lamette usate per la cura estetica.

Utopia Distopia: il mito del progresso partendo dal Sud, veduta della mostra al Madre, museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Installation view Spazio del corpo

In un angolo della sala, la video installazione Ciao Bucchì (Sopravvivere d’arte), lungo racconto intervista sulla vita e il lavoro di Betty Bee in cui l’artista rappresenta autenticamente l’unione tra arte e vita.
La mostra si chiude idealmente con i versi di Anna Maria Ortese e di Pier Paolo Pasolini che sembrano voler aprire ad una nuova speranza, oltre gli scenari distopici che ormai abitiamo.
Una realtà che rientra paradossalmente nel senso della distopia è rappresentata dai video spenti dell’installazione Cittàlimbo Archives di BrigataEs, che apparteneva alla Collezione permanente del Museo e che sarà definitivamente disinstallata; l’opera è un archivio della ricchissima memoria artistica di Napoli, un documento di volti riconoscibili e muti che hanno inciso fortemente sul tessuto culturale del territorio. Volti dell’utopia che non deve finire.

 

Utopia Distopia: il mito del progresso partendo dal Sud
a cura di Kathryn Weir

9 luglio – 8 novembre 2021

Museo MADRE
Via Settembrini 79, Napoli

Orari: l
unedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato dalle ore 10.00 alle ore 19.30. Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00. La biglietteria chiude un’ora prima della chiusura.
Martedì: chiuso. 

Info: www.madrenapoli.it

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