Intervista ad ISABELLA FALBO di Corinna Conci
Un’opera d’arte per essere pienamente vissuta dovrebbe accendersi, attivarsi attraverso l’interazione sensibile: la vista, l’udito, il gusto, l’olfatto, il tatto e la cinestesia esistono per stare in relazione con il mondo, entrare nell’identità e nei molteplici significati dell’oggetto altro da sé.
Gli echi nati dall’inconscio dell’artista e insiti nell’opera sono portatori di una potenza pre-verbale, che si dilegua spesso nelle parole dei testi critici propri del sistema dell’arte. È solo tornando al nostro linguaggio espressivo primario e sensoriale che avremo la formula del contatto viscerale con la realtà esterna: si tratta della comunicazione corporea, performativa.
E se un critico d’arte presentasse un’opera tramite una performance? Nell’osservare un corpo consapevolmente critico che interagisce con un manufatto artistico, lo spettatore verrebbe proiettato in un’esperienza alla quale non avrebbe altrimenti accesso: si tratta del proprio universo interno sensibile e affettivo messo in contatto diretto con quello del critico-medium e dell’artista stesso. La percezione è l’organizzazione degli stimoli che provengono dai nostri canali sensoriali, è un processo di costruzione di senso e attribuzione di significati. Anche le emozioni si possono concepire come categorie percettive innate che ci guidano nella complessa interpretazione della realtà.
Secondo lo storico dell’arte David Freedberg e il neurofisiologo Vittorio Gallese la percezione estetica poggia su una componente sensori-motoria oltre che emotiva, perché consiste nell’attivazione di meccanismi incarnati che comprendono la simulazione effettiva di azioni, emozioni e sensazioni corporee. Grazie agli ultimi anni di ricerche in campo neurofisiologico sappiamo infatti che l’esperienza soggettiva delle sensazioni e delle emozioni va a coinvolgere una struttura neurale identica anche in chi osserva una persona che esperisce quelle sensazioni e emozioni: il meccanismo dei neuroni specchio e il processo della simulazione incarnata ci confermano la natura profondamente relazionale dell’uomo, riservando all’empatia un ruolo fondamentale anche nell’esperienza estetica. Nell’ambito della critica e della curatela artistica, Isabella Falbo ha intuito che l’approccio performativo può coinvolgere empaticamente lo spettatore, sostituendo alla parola un nuovo modo di vivere e comprendere l’arte: il corpo critico.
Come nasce l’idea del manifesto di Critica Performativa?
L’idea di Critica Performativa è nata nel 2008, obbedendo a ciò che sentivo di dover fare: accedere concretamente all’opera per poterla davvero capire e concettualizzare.
Dal 2008 al 2011 ho condotto le mie sperimentazioni di Critica Performativa a porte chiuse. Entrando nello spazio espositivo di mostre personali da me curate, esploravo le sensazioni legate all’opera d’arte col mio corpo. In una logica di osservazione partecipante empatica, incontravo l’opera e il suo autore. Documentavo le azioni attraverso la fotografia e il fotografo aveva un ruolo fondamentale. Grazie alla collaborazione di Roberto Roda (Centro Etnografico-Osservatorio Nazionale sulla Fotografia di Ferrara) ho tratto da queste performance la documentazione fotografica che ha dato origine al primo corpus di “Opere critiche performanti”.
Nel 2012 è maturata la consapevolezza di ciò che stavo realizzando: una modalità di indagine capace di tradurre la critica scritta in critica visiva attraverso azioni performative dove, in una logica di contaminazione fra critica-arte-performance e moda, non utilizzo soltanto il mio “occhio critico”, ma tutto il mio corpo, completo dei vestimenti che indosso.
Ho ufficializzato la Critica Perfomativa nel 2012 attraverso la mostra Critica performativa. Per una differente metodologia della critica d’arte, 2012, Villa Abbondanzi, Faenza. La mostra afferiva alla rassegna d’arte Body Butterfly, diretta da Serena Donigaglia Digiacomo. Grazie all’invito e alla fiducia di Serena Donigaglia Digiacomo ho avuto l’opportunità di presentare il Manifesto sulla Critica Performativa e di esporre il corpus di “opere critiche performanti” realizzate dal 2008 al 2012 sul lavoro degli artisti Stefano Babboni, Giorgio Bevignani, Massimo Festi, Ferruccio Gard, Fabio Lombrici, Stefano Scheda, Cosimo Terlizzi e Dania Zanotto. In occasione dell’opening di questa mostra, con l’intento di mostrare e far comprendere al pubblico il mio approccio metodologico, ho presentato per la prima volta “a porte aperte” un’azione di critica performativa.
Dal 2012 ad oggi tutte le azioni di Critica Performativa sono state “a porte aperte” e presentate davanti ad un pubblico, come ad esempio la Critica Performativa sul lavoro di Cosimo Terlizzi, Notte Post-Strutturalista, Bologna, Spazio Tzunami, 2012; sul lavoro di Mona Lisa Tina Campo minato 2000/2012, Sala museale del Baraccano, 2012; Vinylic Skin, Intervento di Critica Performativa sul lavoro di Sergio Dagradi, Bologna, Galleria H2O, 2012; An ice cream palette for the Dough Warrior sul lavoro di Soren Dahlgaard, Cremona, 2013; The Preservation of Fashion sul lavoro di Daniele Davitti, Bologna, Museo Internazionale della musica, 2015; Prêt-à-Le sfoglie sul lavoro di Stefano Scheda, EXPO – Piazzetta della Regione Emilia Romagna, Milano, 2015; e MLB home gallery, Ferrara, 2015.
Il primo maggio ho presentato all’inaugurazione della London Biennale – che quest’anno si è svolta a Roma, in collaborazione con Studio-ra – un’azione di critica performativa sul lavoro dei suoi fondatori: David Medalla e Adam Nankervis che dal 1992 collaborano come Mondrian fun club.
Nella tua pratica emergono molti obbiettivi dedicati al pubblico, tra questi ne esiste uno in particolare?
In generale le azioni di Critica Performativa, trasponendo i contenuti teorici della critica scritta nel linguaggio poetico e seduttivo della performance, coinvolgono il pubblico e suscitano in esso una interpretazione attiva dell’opera d’arte. Come sappiamo la conoscenza avviene non solo attraverso la riflessione, ma anche attraverso l’azione: tra i vari livelli della conoscenza quello che applica la Critica Performativa è un livello arcaico, scritto in un altro linguaggio che, come mi ha fatto osservare il Professore Roberto Boccalon, direttore dell’Istituto di Psicoterapia espressiva di Art Therapy italiana a Bologna, chiama in causa una memoria procedurale che richiede dei processi di traduzione essenzialmente corporea, in cui il linguaggio è costituito dall’insieme delle sensorialità primarie. L’occhio, l’udito, l’olfatto e il gusto degli spettatori vengono sollecitati durante le azioni di critica performativa e le emozioni che provano penso lascino loro emozioni legate all’opera d’arte più forti che leggendo soltanto il testo critico.
Che tipo di accezione possiede il corpo all’interno della critica performativa?
Nella Critica Performativa viene rivalutata l’intelligenza corporea. Dunque, se la critica tradizionale è in linea con il modello cartesiano dell’io cosciente che osserva, nella Critica Performativa, unendo i due estremi della conoscenza attraverso la mediazione, l’io si fonde con l’oggetto osservato, con l’intento di conoscere per far conoscere. Come ha osservato di nuovo Boccalon, sono un po’ come uno sciamano che mette a disposizione sé stesso e si mette un po’ a nudo. Nella Critica Performativa è il corpo del critico che racconta indirizzando lo sguardo dello spettatore verso l’opera dell’artista, il corpo del critico come transitum dalla critica scritta alla critica visiva, per fare risuonare parte dell’esperienza inconscia dell’artista.
Se in ambito artistico il corpo viene tradizionalmente trattato nudo e utilizzato come metafora e come soggetto protagonista di racconti visivi, nella Critica Performativa il corpo è sempre vestito e si carica di significati attraverso gli elementi vestimentari. Nel ruolo di critico performante mi propongo come soggetto – nuovo, ibrido – nel sistema dell’arte, che usa anche la propria personalità per entrare fisicamente nel lavoro dell’artista. La Critica Performativa aggiunge dunque alla testimonianza oggettiva che rivolgo all’opera degli artisti di volta in volta coinvolti un’interpretazione che mi chiama in causa in prima persona: presentando le poetiche altrui, alla fine, inevitabilmente, rivelo anche me stessa, soggetto critico e performante, dotato di un’identità e di uno stile che non può essere ignorato o rimosso.
Il tuo intervento parte sempre da un’opera, si genera cioè da uno stimolo già artistico: qual è il processo tramite il quale avviene la produzione della tua azione?
La Critica Performativa nasce coerentemente a un personale approccio metodologico diretto alla vera comprensione dell’opera e delle intenzioni dell’artista, si caratterizza come osservazione critica che diviene osservazione partecipativa e si sviluppa con l’intento di andare alla conquista di un linguaggio originale che, uscendo dai confini della critica scritta, comunica attraverso interventi visivi di carattere performativo: in generale parto dall’analisi della pratica artistica attraverso la stesura di un testo critico tradizionale e successivamente procedo a scrivere lo script dell’azione.
Normalmente prima della stesura di un testo critico incontro ed intervisto personalmente l’artista, cerco di capire a livello teorico il suo lavoro, mi interesso anche della sua biografia per cercare di comprendere quanto di personale viene trasposto nell’opera. Successivamente metto a fuoco gli elementi chiave della poetica generale del lavoro e le specifiche dell’opera/e di cui si parla.
Forse anacronisticamente rispetto le tendenze dell’arte contemporanea, io bado ancora alla forma e ricerco la bellezza, elementi per me necessari e imprescindibili per elaborare, contenere e comunicare i contenuti dell’opera d’arte. Per fare un esempio, nell’ambito di Expo 2012, organizzato a Bologna per il trentennale di Art Therapy Italiana, ho presentato un intervento di critica performativa sul lavoro di Mona Lisa Tina, artista e arteterapeuta. Questo intervento si è definito attraverso una profonda indagine teorica del percorso decennale dell’artista, e si è sviluppato in dialogo con l’installazione in mostra, Campo Minato, 2000/2012, mettendo in luce ed amplificando i concetti fondanti della poetica dell’artista: mutamento, ibridazione, condizione umana e post-umana fra natura e artificio, spazi alterati.
Il segno vestimentiario è molto importante per te: quale attribuzione ha e che senso ritieni possieda all’interno della Critica Performativa?
Fulcro metodologico della Critica Performativa è l’utilizzo dei “segni vestimentari”, attraverso cui il “corpo vestito” diviene strumento di trasmissione della poetica dell’artista. Come fashion designer prima e critico d’arte poi, ho sempre inteso la moda come codice culturale e artistico costituito da un insieme di segni vestimentiari ad alta definizione che, sul finire del XX secolo ha cominciato a farsi stada come nuovo media per investigare ed esplorare la complessità della vita e della società attuale. Ovviamente la “moda” di cui parlo è quella fatta da quei creativi che ho definito “fashion intellectuals”, artisti che creano segni vestimentari per fare parlare il corpo. Per la mia più recente azione di critica performativa sul lavoro di Mondrian fun club, alla London Biennale, ho realizzato io stessa l’abito/segno vestimentario che ho indossato: il tipo di tessuto e il fatto di averlo cucito a mano riferiva a Stitch in time, uno dei progetti storici di Medalla; la forma e il colore bianco rimandavano alla spiritualità di Mondrian e all’importanza della superficie bianca che, in Composizione 2, alla quale mi sono espressamente riferita domina il quadro e il suo centro, e ripreso quindi in innumerevoli lavori di Mondrian fun club.
Info: www.isabellafalbo.it