ROMA | FONDAZIONE PASTIFICIO CERERE | 6 MAGGIO – 30 LUGLIO 2021
di MARIA VITTORIA PINOTTI
Nel 1950 il filosofo tedesco Martin Heiddeger, nel testo intitolato Sentieri interrotti, spiega come l’opera d’arte non necessiti di troppe spiegazioni, in quanto è degna di attenzione perché “porta in sé stessa il proprio mondo; lo fonda lo istituisce essa stessa.”[1] Ma v’è di più, seguendo la visione di Heiddeger l’opera si pone come un ambiente indipendente che attende di essere scoperto e vissuto; si presenta come una sorta di progetto esemplare di un microcosmo che sussiste ed è degno di attenzione in quanto tale. Questa singolare visione, secondo cui l’opera viene concepita come un progetto totale capace di rivelare una prospettiva generale sul mondo, non è affatto dissimile dall’idea di base con cui è stata concepita la prima personale dedicata a Giulio Bensasson (Roma, 1990) presso la Fondazione Pastificio Cerere, intitolata LOSING CONTROL a cura di Francesca Ceccherini e realizzata con il contributo dell’avviso pubblico Lazio Contemporaneo.
L’esposizione si sviluppa in due allestimenti site-specific: Losing Control #1 dispiegato nel sotterraneo Spazio Molini e Losing Control #2 visitabile presso il silos del Pastificio, uno spazio neutro longitudinale pronto ad essere liberamente manipolato. Il tema che unisce entrambe le installazioni, secondo quanto afferma la curatrice Francesca Ceccherini, è “il dialogo continuo tra controllo-incontrollabilità che si manifesta in un gioco di opposizioni formali. Ma anche attraverso l’inesorabile trascorrere del tempo, che nello Spazio Molini trasuda dai muri inumiditi mentre nel silos si manifesta sulle pellicole aggredite dalle muffe.”[2] Proprio in questa contrapposizione progettuale viene ad implicarsi il gioco dialettico degli opposti, bianco e nero, sotto e sopra, antico e nuovo, passato e presente. Su questa scia si articola il progetto espositivo frutto di una ricerca avviata dall’artista Giulio Bensasson nel 2019, dedicata al tema della perdita del controllo e dei fenomeni che questa origina.
Nell’elaborazione complessiva dell’esposizione si trovano le tracce di una visione tipicamente postmoderna dell’arte, secondo cui è l’opera stessa a far decadere ogni rapporto tra realtà e rappresentazione, così che lo spettatore possa confrontarsi attraverso un libero uso delle capacità interpretative. Il prodotto artistico, in altri termini, si presenta come uno schema aperto per la sua natura iperreale, capace di rileggere lo stato delle cose secondo nuove visuali, ovvero simulacri portatori di verità.[3] Ed è per questa ragione che, in Losing control #1, la libertà interpretativa coinvolge i sensi, sia dell’udito sia della vista, nonché quello dell’olfatto. Accedendo negli antichi ambienti dello Spazio Molini – risalenti a una costruzione industriale ottocentesca, poi adibita a pastificio nel 1905 – si inscena un dialogo tra le installazioni dell’artista Giulio Bensasson e l’opera sonora progettata da Filippo Lilli, già udibile in sottofondo sin dall’ingresso, così come è possibile apprezzare un’emanazione olfattiva diffondente un profumo di pulito che stride con l’ambiente corroso dal tempo. Secondo la curatrice Ceccherini, la forza del luogo è proprio nelle sue tracce, tant’è che afferma come “lo Spazio Molini è manufatto consegnatoci dal tempo: i suoi muri sono come superfici pittoriche, i suoi ambienti abitati da nuove forme di vita. La sua condizione di dismissione è parte integrante dell’installazione LOSING CONTROL #1, nata per il luogo, dentro il luogo. Ogni scelta artistica e curatoriale è stata spontaneamente guidata da questa relazione.”[4]
In questo contesto si presentano le tre opere installative dell’artista Giulio Bensasson, due muri e una colonna ricoperti da circa 1700 mattonelle bianche, tutte realizzate singolarmente a mano con la tecnica del calco, e sulla cui superficie si propone, in maniera sporadica, una vera mosca. La singolare presenza di questo insetto intende segnare il confine tra il controllo maniacale della purezza dell’area della piastrella, che rapisce la nostra vista in maniera ipnotica, e la possibilità di non poter pienamente controllare le sue naturali imperfezioni. È l’artista stesso a notare come le installazioni vogliono condurci ad una situazione surreale in cui si avverte “l’illusione di trovarsi di fronte delle superfici pulite e controllabili da poter detergere o dalle quali è possibile eliminare ogni elemento di disturbo […] che sembra essersi poggiata lì per caso, ed apparentemente “eliminabile” con un semplice gesto della mano.” [5] Dalle opere di Bensasson emerge inequivocabilmente una particolare attitudine verso il fare artistico, sintomo di un dissenso verso la tendenza a concepire l’atto creativo come figlio della società industriale e meccanica. Infatti le mattonelle sono state realizzate in circa quattro mesi, come a voler significare una forma di riappropriazione della manualità medievale, intesa proprio come una abilità felice e distaccata dall’esasperata meccanicità contemporanea.
Le tre strutture ricoperte da piastrelle bianche all’interno dello Spazio Molini sembrano porsi come frammenti di architetture giunte da un’era surreale dell’avvenire, si dispiegano, in altre parole, ai nostri occhi come degli sprofondamenti areali che stringono lo spazio in una morsa temporale tra presente, passato e futuro. Il legame con il passato emerge dall’uso originale dei sotterranei del Pastificio, luoghi in cui avveniva la lavorazione del grano con le tramogge, tutt’ora presenti, che lo trasportavano verso il conferimento nei silos. Da questi aspetti deriva, con nitore e pregnanza un forte valore icastico dei luoghi, in cui le ragnatele, i muri porosi e corrosi mantengono un fascino vibrante e si presentano nella loro bellezza con le intramontabili tracce temporali. Tornando a riflettere sul tema portante del progetto, ovvero la perdita del controllo e ragionando sul valore intrinseco del grano lavorato nel pastificio, è possibile considerare questo semplice alimento come fondamento di una vita equilibrata, senza il quale non si potrebbe controllare il livello del proprio benessere.
Nell’ultima sala dello Spazio Molini, si trova la fonte da cui viene diffusa l’opera uditiva di Filippo Lilli ed ascoltando tale traccia pare che quelle piccole mosche inglobate o poggiate sulle mattonelle, accuratamente ideate da Bensasson, abbiamo trovato modo di esprimersi con un leggero ronzio che accompagna la visita in tutte le sale. Così, visitando Losing Control#1, volendo utilizzare l’accezione semantica di Baudrillard si vive un’esperienza iperreale, paradossalmente più reale della vita reale. Il percorso espositivo prosegue con Losing Control #2, laddove si rivela un altro aspetto relativo alla perdita del controllo, nel caso in specie quello dell’impossibilità di regolare l’azione del tempo sulla materia fotografica portatrice di memoria storica. Le opere esposte sono sviluppate a partire da immagini tratte dall’archivio Non so dove, non so quando (2016), che raccoglie diapositive recuperate dall’artista, verosimilmente risalenti agli anni Sessanta e primi anni Ottanta. Esse sono concreta dimostrazione di come uno stesso materiale può essere utilizzato per esprimere una ulteriorità dell’oggetto: le immagini, infatti, sono sbiadite, in alcuni casi inspiegabilmente danneggiate nei punti chiave che, invece, dovrebbero parlare di per sé.
Anche qui ritornano prepotentemente i cinque sensi, il posizionamento delle diapositive all’interno di visori d’epoca ci invita, gioco forza, ad avvicinare gli occhi verso l’immagine proiettata; mentre su una fotografia, esposta all’ingresso dello spazio, sembra sia avvenuta una cancellazione con un tratto di polpastrello, così tutte le opere vogliono essere una sorta di bombardamento sensibilistico in cui l’immagine fotografica è naturalmente polverizzata ed esplosa dal tempo. Sulla fuga prospettica della sala è collocato un light box con una diapositiva illuminata, i colori violacei e l’aspetto multiforme dell’ingrandimento sembrano raffigurare delle foto satellitari di croste di pianeti rocciosi. Così avviene naturalmente un passaggio in cui il micro diventa macro e, a sua volta, è testimonianza di una esistenza che viene proiettata su larga scala.
Questa produzione si inserisce, in maniera coerente, nel percorso creativo dell’artista che lavora sin dalla sua prima produzione con la morfologia di elementi vegetali, minerali ed organici che mutano aspetto. Il perché di questo particolare focus è giustificato da Bensasson che, a tal riguardo, tiene a precisare come l’interesse sia “nella casualità e quindi l’imprevedibilità con cui il tempo gioca con la materia, plasmandola e deformandola in modi talvolta inimmaginabili dall’intervento umano. Ma ciò che maggiormente mi esalta è la feroce ironia con cui la decomposizione si abbatte sugli aspetti da noi ritenuti più belli e armoniosi della forma.”[6]
La chiosa conclusiva si stringe nel definire LOSING CONTROL quale prova di una intenzione espositiva volta a rappresentare un punto di partenza per riflessioni relative alla bellezza estetica, che paradossalmente emerge dalla materia quando la si abbandona. Un’ottica differenziata che si impernia su un progetto dispiegato al fine di far affiorare una visione secondaria delle cose con schemi cognitivi distillati da valori sensibili. La mostra si pone, dunque, come una riuscita ricerca volta a conciliare l’icasticità della perdita del controllo, laddove tutto viene affrontato in una fusione temporale, perché proprio Bensasson, come afferma la curatrice, ha la “capacità di trattare e restituire un tema storico, come quello della vanitas, della natura morta, attualizzandolo al tempo presente.” [7]
Giulio Bensasson. LOSING CONTROL
a cura di Francesca Ceccherini
6 maggio – 30 luglio 2021
Opening day: giovedì 6 maggio 2021, 16.00 – 21.00
Ingresso esclusivamente su prenotazione su: www.pastificiocerere.it
Fondazione Pastificio Cerere e Spazio Molini
Via degli Ausoni 7, Roma
Info: info@pastificiocerere.it; +39 06 45422960
www.pastificiocerere.it
[1] Gianni Vattimo, Introduzione a Heidegger, Editori Laterza, 2000, p. 115
[2] Intervista scritta rilasciata da Francesca Ceccherini il 29/4/2021
[3] Il filosofo e sociologo francese Jean Baudrillard (1929-2007) conia il termine Iperreale in riferimento alla società contemporanea. Con l’avvento delle teorie artistiche Postmoderne questo termine è stato applicato anche al mondo dell’arte. Secondo Jean Baudrillard i mass media e gli strumenti virtuali trasformano il reale in iperreale, coprendo il reale con una “patina” creando simulazioni e simulacri.
[4] Intervista scritta rilasciata da Francesca Ceccherini il 29/4/2021
[5] Intervista scritta rilasciata da Giulio Bensasson il 29/4/2021
[6] Intervista scritta rilasciata da Giulio Bensasson il 29/4/2021
[7] Intervista scritta rilasciata da Francesca Ceccherini il 29/4/2021