SANT’ANNA DI STAZZEMA (LU) | Sacrario di Sant’Anna di Stazzema – Museo e Parco della Pace | In permanenza (dal 25 aprile 2018 opera in progress)
Intervista ad GIANNI MORETTI di Matteo Galbiati
Il 12 agosto del 1944 la XVI divisione SS del Reichsführer saliva da quattro mulattiere a Sant’Anna di Stazzema (LU) per compiere un rastrellamento improvviso, inatteso, immotivato. Un’azione che divenne, quella notte, presto eccidio efferato e crudele. Uno degli orrori compiuti dalla furia cieca dell’odio acceso dalla Seconda Guerra Mondiale. Pagarono con la vita 560 civili innocenti. Fu edificato, a memoria perenne, il Sacrario di Sant’Anna di Stazzema e il Museo e Parco della Pace, luogo di celebrazione di chi è diventato, suo malgrado, martire, icona della tragedia che qui si è compiuta.
Gianni Moretti è stato chiamato a realizzare un monumento, un’opera a celebrazione di questo evento drammatico che deve essere salvaguardato come memoria collettiva. La sua sensibilità, la sua intelligenza, la logica della sua poetica ci hanno regalato Anna – Monumento all’attenzione, un’opera scevra da ogni retorica e potente nella sua ritualità affidata al singolo, il cui gesto, poi, trova familiarità con quelli di chi l’ha preceduto nel definire il senso di questo intervento disseminato in loco.
Anche io ho percorso il sentiero per piantare il “mio” chiodo-cardo la scorsa primavera, ho seguito le tracce lasciate da chi mi ha preceduto e ho potuto cogliere la forza della sua opera che, tralasciando l’oggetto in sé, ha la sua componente più forte e potente, poetica e toccante, proprio in quei gesti e in quelle azioni che siamo chiamati a compiere.
Piantare un fiore che è un chiodo, ripercorrere a ritroso la mulattiera che oltre settant’anni fa era diventato una via verso la morte, significa assorbire, con l’empatia di una partecipazione attiva, la consapevolezza di quanto è stato e quanto si deve fare per ricordare. Il dolore della perdita, delle vite spezzate, la paura di un oblio della memoria che impone lo sforzo del ricordo. Vince l’idea di celebrare la vita, in un gioco di antitesi rispetto alla morte che qui si è abbattuta come un flagello: Anna – Monumento all’attenzione è un inno di vita che si intona ogni volta che un cardo viene piantato. È vita che incontra altre vite; sono esistenze interrotte che ritrovano un loro esistere in quelle di chi viene in pellegrinaggio in questo luogo che, pur di dolore, sa mantenersi come scrigno di memoria.
Gianni con questo lavoro ci tocca nel profondo, ci fa commuovere, ci lascia nel cuore e nell’anima il segno indelebile di quelle 560 anime perdute che in noi ritrovano custodia e riparo, perché per chi lo compie, per chi lo osserva e lo percorrere, Anna – Monumento all’attenzione non è un monumento alla storia, è prima di ogni cosa un monumento all’amore ritrovato per l’umanità.
Scopriamo con l’artista questo sua straordinaria opera collettiva in questo lungo, accorato e approfondito dialogo:
Da artista serio e attento hai approfondito molto la storia di questo eccidio insensato e tremendo. Hai incontrato testimoni, hai letto documenti, hai parlato con autorità… Ci riassumi brevemente quei drammatici fatti di 78 anni fa e come si sono tradotti poi nella tua personale esperienza?
Quel giorno ha preso forma uno degli episodi più atroci e che ha maggiormente segnato la memoria nazionale in relazione alla Seconda Guerra Mondiale.
Quella mattina un plotone nazista salì al paese di Sant’Anna di Stazzema, lo accerchiò e in poche ore uccise 560 civili, in larga parte donne e bambini. Sant’Anna era considerata una zona bianca, per questo quel piccolo paese, che oggi conta 15 abitanti, accoglieva così tanti civili.
Sant’Anna è un luogo che, una volta visitato, difficilmente può essere confuso con altri. Ha un’energia che avvolge e schiaccia appena vi si fa ingresso; è un luogo che emette un suono diverso, che impone un altro registro.
Ricordo il primo sopralluogo avvenuto con Luigi Ficacci, allora Soprintendente ai Beni Culturali di Lucca e Massa Carrara, il quale mi invitò a pensare un monumento per Sant’Anna. Ciò che ricordo maggiormente di quelle prime visite è stata l’accoglienza e il dialogo con le persone che sono sopravvissute a quella giornata e che in parte, ancora oggi, vivono quei luoghi. In particolare l’incontro con Enrico Pieri il quale, in auto, ci raccontò quel giorno, di come si salvò e di quando, poche ore dopo, insieme allo zio, seppellì la sua famiglia. Aveva 10 anni. Pieri, il quale purtroppo da poco ci ha lasciati, ha dedicato gran parte della sua vita a mantenere viva la memoria di quei fatti. Impossibile dimenticare una persona dall’umanità così grandiosa e intensa.
In Pieri e in tutti coloro che ho incontrato a Sant’Anna, che ancora oggi ringrazio, mi ha colpito una consapevolezza composta e seria. Nessuna retorica, ma un impegno solido nel rivitalizzare costantemente la memoria.
Quindi cosa ti ha lasciato davvero dentro questo avvenimento storico e le piccole-grandi vicende di uomini e donne che, inghiottiti da questa tragedia immensa, sopravvissuti o vittime, hanno avuto il destino indelebilmente segnato? Tra tutte le vittime hai pensato ad Anna, la vittima più giovane e, per questo, icona di innocenza… Perché ti sei rivolto proprio a lei e come hai trascritto la sua presenza nell’opera?
“Dobbiamo personalizzare la storia (…). Per la maggior parte della gente, la morte di milioni di persone è un fatto statistico, ma la morte di uno è una tragedia”. Come ho già avuto modo di dire in passato, questa frase di Michael Barenbaum è stata centrale nello sviluppo del progetto.
Anna Pardini fu la vittima più giovane dell’eccidio di Sant’Anna, aveva 20 giorni quando perse la vita.
Nel pensare alla vita di Anna mi sono reso conto che, se fosse ancora viva, sarebbe poco più grande di mio padre, nato nel 1950, che ho rischiato di perdere alcuni anni fa. In qualche modo, nella mia testa, qualcosa li ha connessi e parzialmente sovrapposti. Questo processo ha fatto sì che il mio rapporto con l’eccidio di Sant’Anna cambiasse, trasformandosi da un fatto storico di dimensioni tragiche, inimmaginabili e schiaccianti (tanto enormi dall’assumere, nell’immaginario, dimensioni astratte) a un fatto reale, avvenuto in un passato non remoto, ma fortemente connesso con il mio presente.
L’eccidio di Sant’Anna è divenuto nella mia mente l’interruzione di un’esistenza che avrebbe potuto incrociare la mia o quella di qualcuno a me vicino.
Un passaggio di corsia da una dimensione distante e astratta a una vicinissima e reale.
Mi sono interrogato spesso sulla ragione di questa proiezione di mio padre su Anna e credo che, oggi, uno dei possibili sensi del monumento sia questo: ritrovare sé e la propria storia nell’Altro da sé. In questo senso ho immaginato un monumento a un’altra temperatura, generato da un intervento che coinvolgesse il fruitore senza schiacciarlo.
Come è maturato, a questo punto, il progetto per Sant’Anna di Stazzema? Ci racconti la storia di questa tua opera che, a mio avviso, non è solo la più intensa del tuo repertorio, ma anche una delle più sensibili, audaci e autentiche voluta e pensata, oltre ogni retorica, come “monumento” di memoria?
Negli ultimi anni si è intensificato il dibattito sull’idea di monumento e contro-monumento, ribadendo quanto il monumento sia ancora centrale nei processi sociali. Il monumento sta cambiando fortemente le proprie intenzioni, riformulando la propria relazione con il potere e con la società.
All’inizio ebbi grandi difficoltà a immaginare un monumento per Sant’Anna: non sapevo come approcciare quel fatto senza risultare retorico, irrispettoso o banale. Sant’Anna ne è già piena e non avevo idea di come avrei potuto aggiungere qualcosa all’atto di rivitalizzazione della memoria già messo in atto da altri prima di me.
A seguito di riflessioni, confronti e approfondimenti ho immaginato il monumento come un ponte, capace di tendere una corda tra l’allora e l’adesso. Ho immaginato un monumento che fosse in grado di cambiare il proprio statuto, accompagnando il fruitore da una posizione di osservazione a una di attenzione.
L’attenzione è un processo cognitivo che richiede alcune condizione specifiche, tra queste il fatto che il soggetto viva uno stato di prossimità e di misurabilità con l’oggetto su cui si concentra, senza che questo venga percepito come distante, pericoloso o fuori dalla propria scala.
Ho immaginato un monumento come una forma mobile, cangiante nel tempo e nello spazio. Un organismo vivo e, come tale, soggetto al passaggio del tempo, al cambiamento e al deperimento. Ho pensato a una forma in grado di flettersi a diverse letture, età e forme di pensiero; ho pensato al monumento come a un luogo di costruzione, un luogo di passaggio e di cambiamento dell’angolo di illuminazione.
Il monumento occupa molto spazio e si lascia guardare.
Lo sguardo dell’osservatore, però, si abitua e si stanca facilmente, trasformando lo stupore e l’attenzione iniziali in assuefazione e abitudine. Il monumento dovrebbe vivere in una dimensione di limite tra ciò che si palesa alla vista e ciò che, invece, va cercato e scoperto, creando un costante inciampo nel quotidiano. Qualcosa che desti l’attenzione, che brilli fortissimo per un attimo, per poi scomparire e riapparire di nuovo, come un lampo o una lama.
Hai avuto ripensamenti, cambi di idee? Trovo l’opera pensata con tenacia, oltre ogni retorica: nella sua essenza è densa di metafore, significazioni, “resistenza” e nuove immagini redentrici e riconcilianti…
I ripensamenti sono stati molteplici, sarebbe impossibile elencarli tutti. Potrei direi, però, che tutti rientrano all’interno di un processo di aderenza al corpo e all’ascolto.
In questo progetto ho lasciato ampio margine al sentire più che al pensare. Da un progetto iniziale, cerebrale e chirurgico è come se il lavoro, man mano, abbia assunto una dimensione organica e viva. Lungo il suo farsi il lavoro si è modellato su quel luogo, prendendo la forma di quel sentiero. C’è stata via via una semplificazione della forma data dall’ascolto del luogo, della comunità e di me stesso.
All’inizio il progetto ha inciampato in innumerevoli complicazioni inutili da cui mi sono liberato anche attraverso il dialogo con Ficacci, il quale ha accompagnato tutto il processo con un ascolto attento e mai invasivo, per il quale ancora oggi lo ringrazio.
Questo monumento ha una sua voce, come ogni opera d’arte. La capacità sta nell’ascoltarla, senza paura che questa possa renderci vulnerabili o farci apparire per quello che siamo: imperfetti. Il monumento stesso è imperfetto, come sono imperfetti lo spazio che lo ospita e il modo in cui le persone lo costruiscono e ne fruiscono.
All’inizio mi ero imposto una sorta di copione coreutico in cui ogni scelta, azione, gesto fosse parte di un meccanismo perfetto. In principio tutto era controllato, poi col tempo la materia si è ammorbidita. A ogni sua costruzione è il monumento a decidere che forma prendere, o meglio sono le persone a dargliene una ogni volta diversa.
Un altro ripensamento ha riguardato una domanda fattami più volte: “E se qualcuno ne ruba uno?”. Così è nata l’idea di Promessa: un’installazione a pavimento come parte integrante del processo dell’opera. Ho pensato alla possibilità del lavoro di allontanarsi temporaneamente dal territorio di Sant’Anna per tornarvi in altra forma e con un’altra energia. Questa installazione è stata pensata per diversi luoghi, creando ogni volta un dialogo specifico con lo spazio ospitante.
L’installazione è composta da circa 2000 “cardi”. Gli elementi che formano il monumento sono stati poggiati sul pavimento, disposti secondo dei cerchi concentrici che ricordano il movimento di un mandala. L’installazione così concepita è una forma destinata alla disgregazione, temporanea, in cui gli elementi a terra sono solo lasciati in deposito temporaneo presso un altro luogo. Chiunque potrà prenderne uno, se lo vorrà, ma questa scelta implica una promessa: entro un anno dovrà andare a Sant’Anna per installare il cardo lungo la mulattiera per la quale è stato pensato.
Ho saputo che molte persone nel giro di pochissimi giorni (dall’esposizione a Palazzo Marino, n.d.r.) da Milano sono andati a Sant’Anna per piantare il cardo lungo la mulattiera. Tutto questo è parte del processo di rivitalizzazione proprio del concetto voluto per questo monumento.
Come hai voluto rendere, allora, speciale il tuo “monumento” visto che non si impone alla vista, la sua costruzione è demandata ad altri e temporalmente si “disperde” in un’azione collettiva in progress? Quanto conta chiedere all’altro di essere parte del processo costitutivo, non ovvio, dell’opera? Quanto sensibilizza, rende consapevoli e partecipi?
In questi anni ho incontrato un interesse e una partecipazione che non avrei mai immaginato e, per altro, completamente trasversali. Il suo essere “speciale” risiede nel corpo delle persone che lo costruiscono. Il giorno della sua inaugurazione, a un certo punto, ho alzato la testa e ho visto le persone lungo il sentiero: alcune parlavano, altre martellavano, altre si guardavano intorno. È stata quella presenza fisica a farmi comprendere la forma reale del monumento. Non tanto i punti dorati lungo il sentiero, ma quelle vite, quei respiri lungo la mulattiera erano, sono e saranno il reale monumento. Quei respiri creano una forma ogni volta nuova e mai prevedibile. Quei respiri un giorno potrebbero semplicemente allontanarsi, la costruzione del monumento potrebbe essere interrotta e andrebbe bene così, magari altri monumenti in altri luoghi nasceranno e cresceranno attraverso quei respiri.
Che riscontri hai avuto in questi quattro anni? Si mantiene vivo il contatto con chi segue il sentiero e aggiunge i nuovi cardi? Che risposte hai avuto?
Il primo riscontro che ho, ogni volta che vado a Sant’Anna, è dal monumento stesso. Ogni volta temo di trovarlo spento, che qualcosa sia svanito mentre ogni volta lo trovo vivo e presente. A seconda delle stagioni si palesa immediatamente o si nasconde sotto le foglie o tra la vegetazione. Il monumento implica, perciò, una doppia azione: quella di costruirlo e quella di riscoprirlo ogni volta, prendendosene cura. Richiede un livello di energia elevato, un impegno continuo. Essendo privo di basamento si abbandona alla sua vulnerabilità e carica il fruitore di una responsabilità.
Riscontri da parte delle persone ce ne sono stati tantissimi ed è stato molto interessante vedere come ognuna di queste abbia letto e vissuto il monumento secondo un proprio vocabolario, legando quell’azione alla propria storia. Ricordo che un giorno una famiglia composta da padre madre e due bambini scesero lungo la mulattiera. Tornarono indietro dopo molto tempo spiegandomi di aver cercato un punto in cui i loro quattro cardi potessero essere piantati l’uno accanto all’altro e che avrebbero potuto ritrovare a distanza di anni quando fossero tornati a Sant’Anna. In questo senso il monumento ha intessuto una relazione umana e temporale tra ciò che è stato e ciò che è, dando forma a un organismo vivo e in grado di cambiare nel tempo.
Ho percorso anche io il sentiero per piantare il “mio” chiodo-cardo la scorsa primavera. Ho seguito le tracce lasciate da chi mi ha preceduto e ho potuto cogliere la forza della tua opera che, tralasciando l’oggetto in sé, ha la sua componente più forte e potente, poetica e toccante, proprio nei gesti, nelle azioni e nella consapevolezza che matura nel compierli. Ti dico che il silenzio della natura, quello che si sa della strage e già che si approfondisce nel museo, il percorso della Via Crucis, il Sacrario affinano la percezione e si è avvolti da sentimenti forti. Allora forse puntare un chiodo, e piantare un fiore non è più solo un atto “artistico”…
Immagino quel piantare come un atto consapevole, una decisione e una presa di posizione. “Il monumento” nei decenni ha perso il suo basamento, con tutto quello che questa perdita simbolicamente comporta. Pensiamo alla spina dorsale del fruitore e come la sua posizione sia cambiata nei decenni in relazione al monumento stesso: da una posizione statica e incurvata all’indietro a una mobile in cui la curva si flette in avanti nell’atto del chinarsi per vedere, leggere o costruire. Penso che il monumento contemporaneo faccia sempre più spazio sul suo piedistallo alla comunità che lo edifica, raccogliendone i racconti e le istanze, ma richiedendo al fruitore una percezione di sé diversa dal passato, più attenta e presente.
Una volta compiuto l’ultimo gesto, esauriti tutti i cardi… Cosa vuoi che rimanga del tuo lavoro? Come dovrà essere letto nei decenni?
Il monumento è composto da 26.919 elementi: ognuno di essi simboleggia un giorno non vissuto della vita di Anna, dal momento della sua morte a quello dell’inaugurazione del monumento avvenuta il 25 aprile 2018. Una volta installati, il paesaggio si arricchirà di altri 365 elementi per ogni anno successivo. Questo monumento è immaginato senza una conclusione: nessuno, io in primis, sa quando il monumento terminerà. Ho la presunzione di immaginarlo come una vita di cui si conosce l’inizio, ma non la fine, sinché questa non sopraggiunga.
Negli anni la mia presenza è andata diradandosi, la costruzione del monumento è sempre più autonoma, in mano alla comunità che deciderà per quanto tempo proseguirlo.
Gianni Moretti. Anna – Monumento all’attenzione
responsabile del progetto Luigi Ficacci
prodotto e realizzato dalla Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per le province di Lucca e Massa Carrara nell’ambito del Piano per l’Arte Contemporanea 2016 del MiC (ex MiBAC, Ministero per i Beni e le Attività Culturali)
in collaborazione con Comune di Stazzema; Comune di Camaiore; Comune di Pietrasanta; Parco Nazionale della Pace di Sant’Anna di Stazzema; Museo Storico di Sant’Anna di Stazzema; Associazione Martiri di Sant’Anna; Montrasio Arte Monza e Milano
supporto e contributo tecnico di Giovanardi s.p.a.
documentazione fotografica di Fosca Piccinelli
documentazione video di Patrizia Emma Scialpi
In permanenza
dal 25 aprile 2018 opera in progress
Sacrario di Sant’Anna di Stazzema – Museo e Parco della Pace
Sant’Anna di Stazzema
Info: www.santannadistazzema.org
www.anna-monumentoallattenzione.net
www.giannimoretti.com
www.giovanardispa.com