GENOVA | Guidi&Schoen | Fino al 17 novembre 2024
Intervista a GIACOMO COSTA di Tommaso Evangelista*
Giacomo Costa ha la capacità di fondere tecnologie complesse e riflessione estetica in un dialogo profondo e provocatorio con il mondo naturale e artificiale. Il suo lavoro, che attraversa fotografia, pittura e installazione, esplora le tensioni tra progresso tecnologico e degrado ambientale, mettendo in luce l’impatto dell’azione umana sul pianeta. Al centro della sua ricerca vi è il paesaggio, inteso non solo come elemento naturale, ma come una complessa stratificazione di significati e relazioni tra l’uomo e gli ecosistemi. Le opere, spesso dominate da scenari distopici e post-apocalittici privi di figure umane, evocano un senso di decadenza e abbandono, e sono il risultato di un processo creativo che combina modelli matematici e algoritmi con una sensibilità artistica originale nell’evidenziare non solo l’interconnessione tra arte e scienza, ma anche il rapporto tra fragilità della civiltà umana e precarietà dei sistemi. Costa crea visioni di mondi che potrebbero sembrare lontani, ma che in realtà sono specchi della nostra realtà presente, amplificando la necessità di una consapevolezza collettiva, di un ripensamento del nostro rapporto con la natura, dell’importanza del ruolo dell’arte quale strumento di indagine e cambiamento sociale. I suoi ultimi lavori sono esposti in una personale, Infinitely delicate landscapes, negli spazi della galleria Guidi&Schoen arte contemporanea a Genova, fino al 17 novembre…
Le tue opere sembrano esplorare la fragilità della civiltà umana e la precarietà del nostro ambiente artificiale. Con quali dinamiche osservi il rapporto tra l’arte e la necessità di riflettere sul futuro dell’umanità e del nostro pianeta?
Per molti anni ho vissuto a strettissimo contatto con la natura sviluppando un rispetto per l’ambiente che sempre più sta diventando fondamentale per tutti e soprattutto per le nuove generazioni. Non ritengo di essere un artista ecologista militante, sarebbe una lettura limitata e semplicistica interpretare il mio lavoro esclusivamente come una sorta di monito. Ovviamente esiste anche questa componente che fa però parte di una più ampia riflessione sulla fragilità dell’essere umano e sulla sua fallimentare idea di poter dominare l’ambiente e la natura che, sebbene assai maltrattata, ha delle enormi capacità di rigenerarsi e riprendersi i suoi spazi. Certo i segnali che l’ambiente ci sta dando non possono non imporre a tutti una profonda riflessione sugli stili di vita, sui modelli di sviluppo e su quale sia la direzione verso la quale si sta andando. Chi fa una ricerca artistica non può non riflettere su questi temi che sono l’ossatura portante del momento storico che stiamo vivendo.
Il concetto di paesaggio, soprattutto antropico, nella tua opera, diventa una metafora complessa dell’interazione tra cultura e natura. Come definisci il “paesaggio” e quale ruolo attribuisci all’artista nel rivelarne le dinamiche profonde?
Fin dai miei primi lavori ho sempre sostenuto che le mie immagini siano metafore per raccontare le vicende umane e per riflettere su quale sia il rapporto tra l’uomo e l’ambiente che sempre più viene considerato come un bene nella totale disponibilità dell’essere umano. Il paesaggio ne è una plastica rappresentazione. Oramai la grandissima parte di quello che consideriamo “paesaggio” è di natura antropica. Quasi ogni spazio, soprattutto, in nazioni come la nostra, è costruito o manipolato per poterne approfittare a nostro vantaggio. Anche gli spazi non direttamente coinvolti nelle attività umane sono comunque pesantemente influenzati dalle conseguenze delle nostre scelte. Come già detto, questa dinamica determina due differenti atteggiamenti, da un lato un superomismo che ci fa ritenere di poter fare qualunque cosa e dall’altro una sensazione di distopia da fine del mondo. Credo però che ci siano una grande quantità di sfumature intermedie che è compito degli artisti e degli intellettuali di esplorare.
Nel tuo lavoro si percepisce una tensione tra il progresso tecnologico e il deterioramento ambientale. Credi che l’arte possa contribuire a ripensare il nostro rapporto con la tecnologia e la natura in un’epoca dominata dall’antropocene?
La presenza dell’essere umano sulla terra ha, sin dagli albori, creato delle profonde trasformazioni del nostro ecosistema. E questa influenza dipende, in buona sostanza, dalle capacità tecniche che l’homo sapiens ha sviluppato e implementato nei secoli. Lo sviluppo tecnologico sta subendo una crescita esponenziale tanto da rischiare di sfuggirci di mano sia per le conseguenze sull’ambiente sia per il rischio che gli effetti positivi possano diventare negativi, magari non per tutti ma per una grande fetta di popolazione. Prendere le misure con la tecnologia cercando di renderla il più possibile uno strumento, senza esserne dipendenti, è una pratica che tutti dovremmo tenere in considerazione. La mia ricerca artistica è fortemente influenzata dall’uso di complesse tecnologie; per questo mi sono sempre posto il problema di poter dominare lo strumento senza esserne travolto. Al primo posto c’è l’immagine che ho in mente e poi viene la ricerca dello strumento adatto per poterla realizzare senza cadere nel mito della tecnologia fine a sé stessa. Credo quindi che sia necessario spostare il baricentro della tecnologia, toglierla dal centro della scena e riportarla alla sua natura di strumento e non di fonte di ispirazione.
La tua arte si colloca in un punto intermedio tra la fotografia e la pittura, creando mondi fotorealistici ma inesistenti. Come interpreti il concetto di “realtà” nelle tue opere, e come credi che questa visione alterata influenzi la percezione del reale da parte dello spettatore?
Questa domanda è collegata alla precedente riflessione sulla tecnologia e sulla necessità di mantenere un margine di autonomia rispetto alla pervasività dello sviluppo tecnologico. Il mio lavoro è nato con la fotografia analogica, per poi passare alla fotografia digitale e approdare, infine, alla completa generazione digitale utilizzando complessi software utilizzati per gli effetti speciali. Io odio la realtà e non sopporto dovermici confrontare. È questo il mio principale motore creativo, la necessità di creare mondi che esistono solo nella mia testa e poterli mostrare al pubblico. Lo spettatore deve cadere nel mio inganno visivo, anche solo per una frazione di secondo, prima di capire il trucco ed è quell’istante che crea il legame con il mio mondo immaginario. Ho sempre sostenuto di dipingere in qualità fotografica, e per questo ho scelto di usare il 3D come strumento ma non nego che stia pensando alla pittura come alternativa. Se la mia ricerca si colloca a metà tra i due linguaggi visivi gli strumenti a mia disposizione sono molteplici.
Le tue immagini evocano un senso di decadenza e di rovina, suggerendo un futuro distopico. Come vedi il ruolo dell’artista nel confrontarsi con temi come il fallimento della modernità e la possibilità di un cambiamento radicale nel nostro modo di vivere?
Sono nato nel 1970 e ho vissuto a pieno l’era dei super robot giapponesi e quindi dell’immaginario post-atomico. Sono cresciuto nella Guerra Fredda con il terrore della guerra termo nucleare globale per poi vivere la catastrofe di Chernobyl. Siamo state le prime generazioni nella storia dell’umanità a vivere con l’idea che la fine del mondo fosse possibile. La possibilità di estinguerci con una guerra o con una catastrofe ha poi lasciato spazio all’evidenza che avremmo potuto distruggere il mondo con il benessere. Non so se questo sia il fallimento della modernità ma di certo la velocità con cui cambiano le istanze sociali, economiche e politiche impongono un continuo ripensamento dei nostri modi di vivere. Credo che il vero fallimento contemporaneo sia proprio da ricercare nella lentezza con la quale ci adattiamo alle continue trasformazioni che ci investono restando sempre un passo indietro a quello che sarebbe necessario.
Come influenzano l’uso degli algoritmi e dei modelli matematici il processo creativo e la tua visione artistica, e in che modo questi strumenti tecnologici trasformano dati economici, sociali e ambientali in paesaggi fotografici che interrogano il rapporto tra arte e scienza?
Il mio odio per la realtà assieme al mio scarso interesse a viaggiare mi hanno spinto a creare una lente virtuale con la quale osservo il mondo senza il ben che minimo interesse a rappresentarlo secondo un criterio di verità. L’enorme quantità di dati a disposizione nella rete e la possibilità di elaborarli con algoritmi che io stesso scrivo e che uso per interfacciare le fonti a mia disposizione con i software che utilizzo, mi consentono di generare paesaggi. Mappe satellitari, planimetrie, modelli 3d, big data e tantissimi altri archivi sono una fonte illimitata di conoscenza che però necessita di algoritmi per poter essere gestiti ed interpretati. È qui che entra in gioco la mia passione per la programmazione, per la logica e per la matematica e che costituisce la base tecnologica che sviluppo per poter poi dar vita ai miei scenari.
* Intervista tratta da Espoarte #127
Giacomo Costa. Infinitely delicate landscapes
Fino al 17 novembre 2024
Guidi&Schoen arte contemporanea
Piazza dei Garibaldi 18r, Genova
Orari: da martedì a sabato 10.00-12.30 | 16.00-19.00
Info: +39 010 253 0557
info@guidieschoen.com
https://www.guidieschoen.com/