ROMA | GALLERIA D’ARTE MODERNA | 17 DICEMBRE 2021 – 13 MARZO 2022
di MARIA VITTORIA PINOTTI
Il nome dello scrittore americano Henry Miller non è certo fra quelli destinati a stimolare la memoria dei critici e degli appassionati d’arte; eppure, era un pittore e nel domandarsi cosa significasse dipingere teneva a chiarire che «dipingere è amare ancora. Soltanto quando si guarda con gli occhi dell’amore si vede quel che il pittore vede. E il suo amore è libero da ogni possesso».[1] Tale forma d’affezione, sempre secondo Miller, si esterna con l’arte, capace com’è di «mostrare quel che accade nel mondo».[2] Quindi, se il mondo si ribalta, e viene sconvolto secondo nuove e sempre più suggestive prospettive, l’artista deve essere capace di ritrarre questi cambiamenti. Proprio sulla scia di tali forme d’indagine trova origine l’inedita proposta espositiva, incentrata sugli spazi indipendenti nel tessuto cittadino romano, intitolata Materia Nova. Roma nuove generazioni a confronto, a cura di Massimo Mininni, allestita presso la Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale, fino al 13 marzo 2022 e promossa da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con l’organizzazione di Zètema Progetto Cultura. Nel complesso, la rassegna è il risultato di una felice e riuscita ricerca del tessuto cittadino capitolino, tale da scoprire, con vivace limpidezza, un controllato strappo linguistico, beninteso non una lacerazione, verso i classici attori e metodi espositivi del sistema dell’arte contemporanea. Inoltre, il percorso espositivo è arricchito da una sezione interamente dedicata alle fotografie tratte dal volume Vera, progettato da Damiana Leoni e pubblicato dalla casa editrice Quodlibet che raccoglie testimonianze dagli spazi indipendenti di Roma.
Le sale espositive del museo, dedicate una per ogni spazio creativo, si offrono come un susseguirsi d’emanazione energica, sì da stimolarci a procedere, con un passo intenso e sicuro, verso la scoperta delle nuove ed animate realtà che da diversi anni caratterizzano la città di Roma, offrendo, nel contempo, al meravigliato visitatore uno cambio di prospettiva rispetto al consueto panorama artistico. È lo stesso curatore ad affermare come «questi artist-run space sono il palcoscenico stimolante di incontri in cui una cultura nuova celebra la propria affermazione e l’ambiziosa partecipazione al proprio tempo. Ma soprattutto sono l’imprescindibile punto di convergenza per chi esplora nuove forme di linguaggio artistico e di teorizzazione culturale, elaborando nuovi progetti e generando utopie ad alto potenziale, sono la fucina di ideologie che determinano sicuramente un nuovo corso della cultura figurativa». È altrettanto necessario sottolineare quanto sia stato complesso il lavoro preparatorio di Mininni, il quale ha saputo selezionare, confrontare, integrare le novità e le difformità della città di Roma senza troppi input reazionari e soffocanti per il visitatore. I protagonisti in mostra, sempre secondo lo stesso curatore, sono frutto di «un’analisi volta a riconoscere e mettere in luce le ricerche, le qualità, le peculiarità dei diversi linguaggi e degli interessi che contraddistinguono gli artisti romani dell’ultima generazione, per individuarne le singole personalità e le diverse potenzialità creative, che si offrono alla capitale come elementi di importante novità, rendendola centro di attrazione e luogo di riferimento nell’ambito della cultura italiana contemporanea».
Nell’intreccio espositivo di cui si parla, risulta di particolare interesse l’opera proposta da CASTRO (Contemporary Art STudios ROma), spazio fondato nel 2018 dall’artista Gaia Di Lorenzo, che si offre quale giusto compromesso tra gli intenti artisticamente formali di un site-specific e questioni di contenuto molto profonde. Sui muri della sala ove esposta la realizzazione sono state simulate delle crepe che alludono alla disgiunzione dell’attuale sistema dell’arte contemporanea; a suturare le ferite ecco delle graffe, eseguite dai borsisti dello spazio, per rappresentare simbolicamente gli stati d’incertezza emersi dalla mancanza di solidità dell’apparato che normalmente dovrebbe sostenere un artista. La logica conseguenza di questa singolare costruzione visiva è quella di indurci a considerare Roma come una città dal cuore elastico, capace di rimarginare fratture e tale da contemplare quest’ultime come occasioni per reinventarsi. La fondatrice, Gaia Di Lorenzo, così commenta questo peculiare aspetto «Roma è elastica al punto tale che apre al rischio ed ai cambiamenti. Temo che le iniziative che stanno venendo alla luce in questo periodo non venendo sostenute, sfruttate e amplificate, vengano velocemente dimenticate. Le rotture possono essere sfruttate e possono diventare un’opportunità se si lavora all’unisono o per lo meno in comunicazione. Per questa ragione la mostra in GAM è stata preziosa: è stata un’opportunità concreta di confronto e raccordo tra gli spazi guidati da artisti che lavorano a Roma».
Il fragile crinale tra l’emancipazione verso la figurazione e la deriva autoritaria del colore viene profondamente indagato dagli artisti appartenenti a CONDOTTO48, dimostrando così una specifica ed attrattiva effervescenza sperimentale. I componenti del gruppo, tra i più giovani in mostra, si pongono come dei neonati profeti che, prendendoci per mano, ci accompagnano verso una zona d’incoscienza in cui si decanta la quotidianità. Con Verdiana Bove e Luca Di Terlizzi si sottende l’avvento del reale che emerge come spoglia inconsapevole, così nelle opere esposte, secondo un procedimento sinestetico, presenze umane e scorci cittadini vengono rimossi forzosamente e rimaneggiati da strati di multiforme colore. Diversamente, con Francesca Romana Cicia, il linguaggio pittorico assume un carattere ossessivo con forme simili a ventricoli cardiaci che creano una rete su cui aleggiano colori monotonali. Un appello verso l’esperienza totale si avverte nelle opere di Emanuele Fasciani, la cui scultura intende invitare lo spettatore a confrontarsi con un fascinoso meandro, sì da specchiarsi nelle reazioni fisiche e biologiche dei materiali utilizzati.
All’insegna di una ricerca verso la lacerazione originaria tra l’uomo e la natura fa specie la creazione di Caterina Sammartino: che svolge un rotolo di dieci metri di carta su cui sono applicati colori naturali, come ad intendere che l’opera è atta ad ogni tipo di logoramento materico, purché sempre desunto spontaneamente dalla natura. Il lavoro degli artisti, la cui attività è sostenuta dal curatore Riccardo Paris, si riflette, con purezza e prontezza, anche nelle loro parole proferite con una mirabile sintonia, quando affermano come «l’individualismo non ci appartiene. È fondamentale per noi avere la possibilità di metterci in discussione, questo è il nostro punto di incontro, di scambio, di entusiasmo, di consigli, di osservazioni, di racconti, di conoscenza e di scoperta».
La sala dedicata allo spazio OFF1C1NA si presenta come un inno prometeico ed iconoclasta degli artisti, secondo cui l’amore assoluto per le immagini conduce il creatore ad eseguire una sorta di slancio volto ad annullare ogni figurazione. In questo modo i linguaggi, seppur fortemente diversi, tendono ad essere accomunati da un’energia realizzativa sublime in cui viene catturata l’essenza ineffabile del reale. Non è un caso che tale spazio indipendente, a dirla con l’unanime voce del gruppo, nasce proprio dalle «sottili relazioni e dagli incontri. Gli artisti che vi lavorano si sono riconosciuti reciprocamente nell’adesione a un comune ideale: è la relazione a innescare il motore e la spinta a restare, resistere e partecipare». Paolo Assenza, le cui tele ritraggono brucianti ed oscure genesi, segna visivamente l’atto utile a ripristinare un’azione annullata (Ctrl+Z) quasi ad indicare che l’autodistruzione è la finalità più ultima ed elevata dell’arte. Allo stesso modo l’atto di cancellazione verso il dato reale si ripete nelle ricerche sul colore e sulle forme geometriche di Katia Pugach, attenta a reperire gli stimoli percettivi per poi trasgredirne i limiti rappresentati attraverso una sfida incessante delle capacità geometriche della pittura.
Con Germano Serafini e Fabrizio Cicero il mestiere dell’arte diventa una forma di insurrezione verso le classiche regole fotografiche e scultoree: il primo, infatti, scandaglia le infinite possibilità del mezzo fotografico, con la serie La traccia del tempo in cui viene utilizzata la luce lunare a ritmare gli attimi, mentre con Cicero si ritrova l’edificazione tridimensionale di sublimi oggetti visivi attraverso una corrispondenza tra video e scultura, mantenuta viva dal dialogo con l’elemento naturale.
Nella sala dedicata ad /OMBRELLONI si raccolgono forze artistiche che cadenzano i dettami di una dolce guerriglia urbana dal soffuso carattere antropologico: le opere, di fatti, si intrecciano secondo un particolare legame metonimico con il contesto museale, sviluppandosi come riflessione attorno all’habitat del quartiere romano di San Lorenzo, laddove l’artist-run space sorge. Davide Silvioli, che ha avviato con lo spazio una salda e proficua collaborazione, chiarisce, da par suo, come nella sala espositiva «personalità differenti per alfabeto e formazione, che attraversano le pratiche della pittura, della scultura, del video, dell’installazione e della performance, parallelamente ai territori della figurazione, del perturbante, dell’astrazione, del virtuale, hanno deciso di non lenire le rispettive soggettività per apparire più uniformi e né di presentarsi come singolarità per esorcizzare remore legate a divergenze di linguaggio, restituendo l’idea che nel sistema dell’arte vi sia ancora espressione per una ricerca in grado di prescindere dai palcoscenici». Il mirabile gioco di riflessione con forme geometriche piatte dalla forte ambiguità visiva accomuna i lavori di Cristallo Odescalchi e di Jennifer MC Laren: il primo, a tal proposito, disegna un panorama costruito secondo un meccanismo narrativo-rappresentativo dettato dalla scala di colorazione del bianco e nero, MC Laren, invece, inscena in modo persuasivo, la trasposizione scultorea e pittorica del classico pattern della mimetica militare.
Una misteriosa ed iperrealista Krizia Galfo si schiude all’insegna della doppiezza e del mascheramento come una narrazione subliminale, mentre Alessandro Calizza gioca su una contaminazione identitaria che ha la sua forza nell’equilibrata collusione surreale tra il linguaggio aulico della scultura classica e quello di un’inattesa grammatica fanciullesca. Emerge forte tra le sale una libertà operativa: con l’opera Ballad of the end di Greg Jager, composta da tufi raccolti proprio nello spazio indipendente, l’artista intende creare una sorta di archeologia del presente, giacché è noto quanto nell’antica Roma venisse utilizzato tale materiale, ed allo stesso tempo indaga il suo aspetto antropologico, ovvero l’appartenenza ad un luogo concepito come un comune rituale. Tale sentimento si rispecchia anche nel lavoro-video proiettato sulla parete museale, ideato dai due collettivi WOW – Incendi spontanei ed Eeleye Production, in cui vengono riprodotte delle ombre umane entro lo spazio di un immaginato polittico proprio per rappresentare il nucleo sociale che rende autentico e vitale il paesaggio del rione. E come non far cenno alle sculture in ceramica di Scarful e Luca Mamone, entrambe figlie di un inferno ardente e le cui forme truculenti paiono desunte da un film proto-horror, anche perché giacciono su piedistalli espositivi come se fossero state abbandonate da venti dal sentore macabro ed apotropaico.
A rivendicare il carattere lento e meditativo dell’arte, senza alcuna smania a voler rincorrere logiche creative precostituite, si inseriscono le correnti di ricerca degli artisti appartenenti a Paese fortuna, i quali, a fattor comune, chiariscono come «lo studio è caratterizzato dall’eterogeneità delle nostre ricerche personali e da una profonda stima reciproca che ci ha portato negli anni – e prima di scegliere un nome per definirci – a collaborare gli uni con gli altri in progetti collaterali che abbiamo sempre inteso più come un eccesso di energia, una forma ludica, che come lavori definiti e definitivi». All’ingresso della sala si rimane rapiti da una ventata d’aria mite ed avvolgente, sensazioni dettate dal coinvolgente dialogo degli artisti in cui è lampante il senso di un’ammaliante sperimentazione dialogica che collega tutte le opere esposte. Questo particolare aspetto è così chiarito dai componenti del gruppo «l’allestimento è nato da un confronto con il curatore della mostra che, esaminati i nostri lavori individuali e collaborativi, è rimasto entusiasta e ha accolto con piacere il nostro desiderio di esprimere questa doppia natura di Paese fortuna. E così che in mostra i nostri 5 lavori personali sono parte di una quadreria composta anche da progetti di design, risultati di residenze artistiche all’estero e in Italia, workshop così come disegni e stampe a 4, 6 o 10 mani realizzati in momenti di ozio o “particolare entusiasmo”».
Dalle opere di José Angelino emerge chiaro il principio secondo cui le mani dell’artista creano ancor più velocemente del pensiero; i segmenti vaporizzati di gas argan, esalandosi in tonalità algide, creano nuovi stati della materia che si estende in dolci vettori geometrici di ecosistemi fisici che ci spingono scoprirne i cambiamenti.
Un tale invito a farsi sedurre dal magico potere dalla fisica della materia ci viene rivolto anche dalle opere di Marco Emmanuele, il quale, utilizzando una mistura a base di polvere di vetro, gioca limpidamente con il materiale nel suo segno di grazia, che si scompone e ricompone alla stregua di un territorio magico dal valore imperituro. Con Diego Miguel Mirabella si disegnano nuove costellazioni di parafrasi, tant’è che l’opera in mostra è volta a dimostrare un’inesausta ricerca dell’artista verso la mutilazione della scrittura ed i suoi bizzarri accostamenti geometrici, in questo modo la creazione diventa luogo per una intima riflessione.
Di profondo interesse, tale da creare un delicato ed equilibrato contrappunto sulla parete espositiva, è l’opera di Luca Grechi la cui ricerca si pone come un’intensa e profonda digressione nel campo della pittura. La tela è frutto di un agire pittorico lento e transeunte, poiché vede la luce dopo una lunga indagine sul metalinguaggio dell’agire pittorico, in cui il Grechi altro non è che un corpo biologico nelle mani dell’arte, pronto ad invitarci a vivere un’esperienza colma di una poesia visiva tiepida e sincera.
Un tratto temporale lento e familiare traspare anche nell’opera fotografica di Alessandro Dandini de Sylva, che, attraverso una singolare diegesi, cristallizza fotograficamente le diverse fasi di un progetto più ampio in cui si avvicendano due ritmi creativi: quello più pulito, spinto al limite del minimalismo e dell’astrazione e quello meno puro che ingloba il lavoro di preparazione allo scatto fotografico. Nel complesso la fotografia diventa una fonte d’incanto volta a catturare gli aspetti processuali di una tessitura di relazioni e di gesti. Inoltre, sempre Dandini de Sylva è anche ideatore del progetto editoriale chiamato Aniene Edizioni, riferibile all’anno 2016, pubblicazioni pure consultabili nel contesto della mostra che intendono raccontare proposte editoriali libere da qualsiasi vincolo inventivo.
Del tutto inusitata è la scelta espositiva di POST EX, gruppo composto da Eleonora Cerri Pecorella, Francesco D’Aliesio, Luca Grimaldi, Gian Maria Marcaccini, Lulù Nuti e Gabriele Silli, ai quali si sono aggiunti successivamente Federika Fumarola, Guglielmo Maggini, Alberto Montorfano, Azzedine Saleck e LU.PA. Quel che accomuna tutti questi artisti è un pensiero uniforme, secondo cui, il troppo vedere, l’affollamento visivo in una sala espositiva è a volte controproducente: e così hanno deciso di presentare installazioni site-specific a rotazione, riunite con il titolo Piccolo calcolo approssimativo di sostanza, non solo per ovviare, come già detto a questioni di spazio, ma anche per ragionare sul significato del luogo. È interessante riportare la testimonianza univoca del gruppo che così da ragione e sostanza a tale inusuale forma rappresentativa «abbiamo scelto di dilatarci nel tempo più che nello spazio anche per i motivi cui accenni e soprattutto per restituire due caratteristiche fondanti di Post Ex: accoglienza e scambio. Nell’ultimo anno abbiamo accolto in residenza diversi artisti e invitato tanti professionisti dell’arte. Ci piaceva evidenziare questi tratti distintivi, ospitando 16 ulteriori mostre nella mostra. Ci siamo arrivati con riunioni, verbali, dialoghi, arrabbiandoci e appassionandoci alle idee, dando voce alle diverse istanze, finché non è stato chiaro che il fulcro era dare ad ognuno uno spazio di possibilità di adeguato valore».
Ciò che incuriosisce lo spettatore è piuttosto l’aspetto di asportazione spaziale all’interno della sala museale, poiché una porzione di pavimento di Post Ex è stata montata come un plinto su cui sono allestiti i site-specific. Tale azione apparentemente degna di un acting, intende invece presentarsi come un ristringimento di un campo di azione verso una narrazione onesta che fa riferimento alle radici originarie dello spazio. Proprio secondo questa scelta interpretativa si volgono chiare e vivide le parole del gruppo che considera «Piccolo calcolo approssimativo di sostanza” è, letteralmente e metaforicamente, quello spazio: una porzione di studio prelevata e traslata che funge da pre-condizione al lavoro di ognuno e con cui ognuno deve capire come relazionarsi. Post Ex, pur dentro la coralità, è un luogo nato per servire ai singoli affinché possano definire, strutturare e sviluppare il proprio lavoro. Non siamo una monade e a fronte di una chiamata in causa come “parte di”, era interessante e necessario elaborare una soluzione che rispettasse le premesse e gli intenti di Post Ex».
L’allestimento espositivo proposto da SPAZIOMENSA è minimale ed imperniato su un montaggio di opere profondamente diverse: pare un luogo scenico ritmato da salti linguistici, con lavori che sottintendono diversi livelli di lettura. Anche i due teorici dello spazio, il filosofo Giuseppe Armogida e la curatrice Gaia Bobò, fanno notare come «l’allestimento rispecchia una cifra di SPAZIOMENSA, ossia il suo essere uno spazio di progettazione che, pur presentandosi come un univoco, è in realtà espressione di tante singolarità eterogenee, ognuna delle quali porta avanti una ricerca differente. Un’eterogeneità che si è potuta percepire anche nella programmazione di quest’anno, durante il quale ognuno ha sviluppato un proprio progetto personale, sebbene attraverso una collaborazione continua». Sebastiano Bottaro, da pittore qual è, ha fatto una scelta radicale esponendo una scritta a matita in quanto veicolo scarno di comunicazione criptica; inoltre, nel corso dell’inaugurazione della rassegna sono stati distribuiti dei volantini dai contenuti enigmatici, quasi per stimolare strane combinazioni tra il testo e il disegno rappresentato. Si tratta di un impulso concettuale che gioca su versi, parafrasi ed immagini dai significati sottointesi.
Strane combinazioni trovano eco nell’opera in mostra di Dario Carratta, in cui eccentriche creature si scoprono all’insegna di stravaganti anomalie. L’artista ausculta un mondo psichico sommerso e lo vive con grandi occhi ed orecchie, a noi giunge la sola immagine, vissuta secondo una percezione che finisce per sovrastarci con dei miraggi assurdi.
Degna di gran cenno è la scelta espositiva di Marco Eusepi che presenta una piccola ma intensa opera, dimostrando così di essere un artista capace di porsi di fronte al dato naturale come una lavagna sgombra di segni, da assorbirne visivamente i ritmi e leggerne i dati essenziali, dimodoché il colore è chiamato a veicolare la maggior parte delle informazioni che egli riceve dalle armonie naturali.
Un lavoro generato dalla gentile tensione tra passato architettonico e presente è quello di Andrea Polichetti, il quale presenta un’opera inedita che tratteggia un dialogo circa l’architettura classica ed i materiali contemporanei come il neon ed il cor-ten, elemento quest’ultimo dalle particolari qualità materiche. Ne risulta un’opera dalla presenza poderosa, alleggerita dal coronamento sottostante in neon, cifra quest’ultima caratteristica di Polichetti con cui usualmente idea opere scultoree generate da disegni dal carattere automatico. Diversamente, l’interessante scultura di Alessandro Giannì sembra rappresentare due teste che si stringono quasi a voler catturare un sovrappiù materico dal carattere metallurgico ed elettrizzante. Paiono derivate dal luogo di restanza, laddove la materia permane e si consuma, nel contempo le sbozzature sommarie trattengono la tenuta manuale dell’artista chiamata abilmente a creare nuovi livelli di immaginazione.
Ben lungi dal porsi nel filone del classico allestimento espositivo è la proposta di Spazio In Situ, degli artisti Sveva Angeletti, Alessandra Cecchini, Christophe Constantin, Francesca Cornacchini, Marco De Rosa, Federica Di Pietrantonio, Chiara Fantaccione, Roberta Folliero, Andrea Frosolini, Daniele Sciacca e Guendalina Urbani. Costoro ragionano coralmente attorno al quesito What’s a museum?, da cui vengono sollevate questioni affrontate, con lucida ed acuta sottigliezza critica, da Porter Ducrist, il curatore che da sempre affianca l’attività dello spazio. È proprio quest’ultimo a ragionare come «Spazio In Situ cerca sempre di ridefinire il limite tra arte e realtà. L’intervento proposto alla GAM non smentisce questa caratteristica; è una dichiarazione formale delle loro linee guide estetiche quanto concettuali. Per In Situ il limite è limitante, il confine va ridefinito ogni giorno perché il contemporaneo è di oggi, ben spesso questa cosa non è tanto chiara, soprattutto in una piazza come quella capitolina». Ciò che inoltre colpisce dell’allestimento proposto da questo spazio è la coerenza tenuta sempre ben salda da un briciolo di follia espositiva, tenacemente dimostrata da tutti gli artisti e che intende ragionare sul substrato culturale e relazionale che si instaura tra il visitatore, il contenitore museale e chiunque lavori in quell’ambito.
Questo approccio disinibito verso il mondo, ravvisabile in tutte le scelte espositive degli spazi in mostra, sottende scelte culturali degli artisti pronti a far emergere una latenza insita nel mondo, tale da scavalcare i valori ed i sistemi precostituiti dell’arte. Volendo citare ancora una volta il pensiero di Henry Miller, serve ricordare che se l’essere creativi coincide con l’amare ancora, è altrettanto giusto possedere uno spirito di intraprendenza poiché «l’individuo che sa adattarsi a questo pazzo mondo di oggi o è una nullità o è un saggio. Nel primo caso è privo di ogni senso artistico, e nel secondo è al di là di esso».[3]
MATERIA NOVA. ROMA NUOVE GENERAZIONI A CONFRONTO
a cura di Massimo Mininni
17 dicembre 2021 – 13 marzo 2022
Galleria d’Arte Moderna
Via Francesco Crispi 24, Roma
Orari: dal martedì alla domenica ore 10.00-18.30; ultimo ingresso mezz’ora prima della chiusura
Per informazioni:
060608 tutti i giorni dalle 9.00 alle 19.00
www.galleriaartemodernaroma.it
[1] Henry Miller, Dipingere è amare ancora, Abscondita, 2003, p. 22
[2] Ibidem
[3] Ivi, pp. 58-59