Intervista a FRANCO MELLO di Irene Biolchini*
“Libracci: sono quelli senza figure”. La definizione proviene dall’alfabeto di Franco Mello, recentemente pubblicato nell’imponente monografia Franco Mello. Tra arti e design, a cura di Giovanna Cassese. In poche e brevi battute si può rintracciare il senso della ricerca di Mello, il gusto scanzonato e pop che ha accompagnato la poliedricità del suo sguardo, in una costante “inquietudine” capace di spaziare dalla fotografia al design, dalla grafica all’editoria, dalla produzione di pezzi unici all’allestimento, dall’artigianato al packaging. Il tutto in un continuo gioco di specchi in cui ogni incontro, nella vita così come nella professione, si riflette nell’elaborazione del progetto. Siccome analizzare questa varietà è quasi impossibile (oltre che molto poco sensato), nel corso di questa intervista abbiamo cercato di isolare delle costanti – creative ancora prima che operative – per entrare in contatto con il suo colorato mondo.
Quanto è importante lavorare contemporaneamente su più versanti, che ruolo ha avuto nella tua ricerca?
Tutte le cose che ho fatto, e che ancora faccio, coesistono per due ragioni. La prima è una sorta di inquietudine personale che si traspone in una necessità di cambiare ambito, frequentazioni, produzioni e che si riversa negli incontri. La seconda è legata alla mia formazione, alla mia cultura genovese, da sempre esposta a più influenze: per fare un esempio per tutti, credo sia necessario per me ricordare l’esperienza della Galleria del Deposito (a cui vedo pochissimi fanno riferimento, nonostante sia stato lo specchio di un momento centrale della storia e della cultura italiana).
La Galleria del Deposito – concepita da Eugenio Carmi – ha esposto artisti diversissimi per formazione e cultura, ma tutti assolutamente centrali alla scena del contemporaneo europeo: da Alviani a Vasarely; da Arnaldo Pomodoro a Luzzati; da Costantini a Lucio Fontana. E tutto questo in un piccolo spazio, a pochi passi dalla spiaggetta di sassi a Boccadasse. Il fatto che, parallelamente alle mostre, la Galleria del Deposito producesse anche oggetti (vassoi, foulard, multipli d’arte e tutti di grandissimo spessore qualitativo) è certamente centrale alla mia formazione e, prima ancora, al mio modo di intendere l’idea stessa di produzione. Da quella esperienza ho ereditato un mio segno caratteristico: la mia voglia di fare e produrre oggetti che non fossero soltanto begli oggetti, ma anche un recupero di tecniche ed artigianalità. Ancora oggi, per esempio, continuo in un territorio di scoperta, di inquietudine e curiosità nei confronti dell’artigianato che, solo per fare un esempio, mi ha portato alla recente produzione di ceramiche a Vietri sul Mare.
Nel racconto della Galleria del Deposito c’è il ricordo di una certa idea di progettazione, basata soprattutto sulla condivisione, ma anche sulla rinuncia alle specializzazioni, come se l’esperienza non si potesse separare dalla conoscenza. Cosa è cambiato, da quel momento ad oggi, nel modo contemporaneo di intendere la progettazione del design?
Mi accorgo che oggi si parla del made in Italy come di una stagione eroica, come di un’eredità nostra che ci rende unici tutt’oggi. E lo facciamo ricollegandoci agli anni Cinquanta, quando invece queste storie sono vecchie come il mondo. Basta rileggere il libro di Stern, La storia di Tönle per capire che la capacità di promozione, di creazione, di rischio che avevano tutti quelli che dal Veneto partivano ed attraversavano le montagne, con sulle spalle delle casse in legno fermate con cinghie di cuoio, per andare in luoghi quali San Pietroburgo, il Perù, Vienna, Parigi (solo per menzionarne alcuni). Ecco vorrei che ci fermassimo un momento a pensare: queste casse in legno, queste cinghie, qualcuno le avrà progettate… E lo ha fatto pensando, ovviamente, a cosa dovevano contenere: le stampe dei Remondini. Ora, ai fini del mio ragionamento è necessario ricordare come erano organizzate queste stampe, che erano ordinate e divise all’interno delle scatole non solo per soggetto, ma anche perché i soggetti erano determinati dalla destinazione d’arrivo. Chi progettava la spedizione sapeva prevedere la diffusione delle stampe a seconda del gusto del Paese e delle città a cui erano destinati.
Ora la mia domanda è: quanto stiamo facendo di più oggi rispetto a duecento anni fa? E chiedo questo avendo la consapevolezza che: qualcuno disegnava le stampe; qualcuno le prendeva a credito e, alla luce della sua conoscenza sul mercato di ricezione, se le caricava sulle spalle? Cosa è questo se non l’essenza stessa di quello che oggi si chiama marketing, iniziativa, start up.
Se vogliamo fare un bel salto, da allora ad oggi, posso fare un esempio: con un gruppo di miei ex-studenti, che ora lavorano sotto il nome di Brut Epoque, stiamo progettando una serie di scatole in canapa che hanno come grandezza massima il formato 20×20, qualcosa di non troppo diverso da ciò che accadeva allora con le scatole di legno e le cinghie in cuoio.
In questa tua panoramica si rintraccia un filo continuo tra le figure dei tuoi modelli (Stern, i Remondini), i tuoi maestri e i tuoi allievi. Che ruolo hanno avuto le figure dei maestri nella tua crescita e che ruolo ha, invece, la tua esperienza di docente?
Come dicevamo, data la natura inquieta, io mi annoio in fretta e quindi per me è una grande opportunità poter studiare progetti con i miei studenti. La docenza permette di consolidare relazioni umane, rende possibile l’incontro, ed è l’incontro il motore che spinge ad inventare cose nuove: questo è certamente un mio atteggiamento non sistemico, ma creativo, fin dai miei esordi. Quando ho iniziato a lavorare, ho vissuto un periodo fortunato dove tante volte è stato sufficiente andare ad una mostra ed iniziare una frequentazione prima insperabile. Fontana mi donò una litografia, Vasarely allo stesso modo. Alcuni di questi oggetti li ho conservati, molti altri li ho venduti perché non è l’oggetto, il feticcio ciò che mi interessa, ma l’esperienza. Ai miei allievi, o più che allievi direi anche solo studenti, insegno il valore del rischio, del proporsi. Chiunque può solo dirvi sì o no, ma non si rischia nulla eccetto l’esporsi o l’incontro. Ed è quello, come dicevo, il motore delle cose.
A proposito di prolifici incontri: nel corso della tua carriera hai lavorato con numerosi critici, intellettuali, scenografi, come dimostra la recente monografia a cura di Giovanna Cassese. Come descriveresti queste collaborazioni?
I ‘non maestri’, cioè le persone con cui sono cresciuto, sono le figure più importanti della mia carriera perché hanno accompagnato molti progetti, contribuendo in maniera fondamentale alla loro riuscita. Uno di questi è uno scenografo (e grande disegnatore) che si chiama Tronconi, con il quale abbiamo anche realizzato un libro di cui sono molto fiero per le Edizioni Melangolo. L’altra figura centrale nella mia crescita ‘ibrida’ tra arte, design, architettura ed altri linguaggi, è Bistagnino.
Ricordo che con loro lavorammo ad una trasmissione Rai per la quale abbiamo prodotto dodici puntate, che andarono in onda subito dopo quelle curate da Munari. Con queste due figure credo di avere fatto di tutto: progettazioni di negozi, libri per bambini e trasmissioni televisive.
Ed è proprio citando l’editoria che non posso che chiederti quale è stata la tua esperienza nella produzione di libri d’arte, che ti ha visto collaborare, solo per citare alcuni nomi, con Gastini, Parmiggiani, Paolini, Paladino, De Maria. Quale è per te la relazione tra queste esperienze e la tua produzione come designer?
Il lavoro come editore mi ha donato due cose fondamentali: la libertà e il contatto diretto con una dimensione artigiana. Mi sono sempre divertito a mischiare serigrafia, tipografia, stampa su metallo. Come nella vita ho ottenuto le mie esperienze più feconde dall’incontro, allo stesso modo nell’editoria i massimi risultati sono arrivati mischiando le carte, le tecniche. È dall’incontro di differenti mondi, rappresentati dalla conoscenza artigiana dei materiali e dalla visione unica e personale dell’artista, che sono nati risultati non ovvi. Penso ad esempio al libro di Parmiggiani L’Arte è una Scienza esatta in cui si riproducevano i quadrati di Mondrian e la sua ricerca.
La chiave dei rapporti tra l’arte ed il design risiede proprio in questa passione, che ho nutrito fin dalle origini, per la materia. Toccare le cose, incontrare persone: la fisicità è centrale al lavoro. I computer andrebbero assimilati, ma solo per poi espellerli e tornare.
E a proposito delle collaborazioni con gli artisti, l’incontro con Gilardi e con la GUFRAM è stato certamente un momento centrale alla tua produzione come designer, posso chiederti come ricordi questa storia?
Nella realtà la storia è molto più semplice di quello che appare da una prospettiva storica. La GUFRAM era nella sostanza composta da quattro fratelli che avevano grandissime competenze e specificità tecniche nella loro produzione di mobili in stile. Il cambiamento rispetto a quella produzione è rappresentato dall’arrivo di Raimondi che, vedendo i lavori di Piero Gilardi, sviluppa l’idea di adottare il poliuretano come materiale per l’arredo. Dopo Pinuccio Raimondi, il gruppo Strum ha iniziato a collaborare con la GUFRAM, portando la loro visione, ovvero un’anima culturale ed elitaria. Da qual momento in avanti la capacità artigianale, la visione colta degli architetti (e dei loro collaboratori) e il marketing hanno favorito la nascita di numerosissimi progetti, che sono stati possibili grazie al sostegno e all’entusiasmo di Mr. Stending. Sono stati anni assolutamente eroici e liberi, si producevano oggetti serenamente inutili, coloratissimi, leggeri.
Un incendio e il cambiamento del mercato hanno determinato un cambiamento nella produzione, fino alla decisione di collaborare, tramite contract, con la FRAU. La ditta ha quindi continuato ad avere una sua produzione specifica, mantenendo l’altissima qualità al centro della propria produzione fino a che, ai giorni nostri, si arriva alla vendita a Barolo che ne porta avanti storia e produzione.
Ascoltandoti sembra che per te non esista l’idea di un design ‘puro’, ma che l’idea stessa di progettazione nasca dall’incontro.
Credo che il termine “puro” non esista neanche in natura e quindi meno che mai nel design che mai come in questo momento di incertezza, inquietudine, probabilità e rischio (non tutto insieme ma con possibili combinazioni a piacere!) ha bisogno di crearsi degli esiti possibili, immaginati. Ma che nessuno o quasi può prevedere. E anche se ormai tutto è design, anche l’Arte checchè se ne dica, forse davvero è arrivato il momento di tornare ad una Utilità dell’Inutile?
*Intervista tratta da Espoarte #101.
Link utili:
www.gufram.it
www.gangemieditore.com
www.fondazioneplart.it