di Valeria Carnevali
Era il 2013 quando Bruno Corà scelse per una personale di Franco Giuli alla galleria romana Edieuropa il titolo Itinerari inesauribili della pittura. Inesauribile è l’aggettivo che si adatta come un guanto alla ricerca di Franco Giuli, prolifica, intensissima e sempre orientata all’evoluzione nella fedeltà al proprio stile, fino all’ultimo. Fino all’ultimo, perché il maestro Franco Giuli si è spento a Fabriano lo scorso 2 dicembre, e chi lo ha conosciuto ed ha avuto occasione di frequentare negli ultimi anni il suo luminoso studio sa come fosse alacre la sua attività e lucida la sua riflessione, sempre orientate, entrambe, a costruire “la prossima mostra”, nonostante gli ottant’anni passati, nonostante la celata malattia.
Nato nel 1934 a Cerreto d’Esi, piccolo comune dell’entroterra anconetano, Francesco Giuli, noto da artista come Franco, comincia ad esporre negli anni Cinquanta presentando i suoi lavori, allora di matrice informale, nelle gallerie della propria regione, e sviluppa presto una sua peculiare cifra, orientata alla riflessione sulla razionalità dei segni e sui contrasti cromatici. L’originalità della sua indagine lo porta a farsi riconoscere, e se ne accorgono critici affermati come Giulio Carlo Argan, ma anche le allora giovani leve della critica militante come Giancarlo Politi e Italo Tomassoni. Nel 1970 debutta nelle piazze che contano, arrivando a Roma con una personale presso lo Studio d’arte moderna SM13; nella stessa galleria si riproporrà tre anni dopo, presentato dal coetaneo Enrico Crispolti, con cui intreccerà per tutta la vita carriera e amicizia, fino alla triste coincidenza che li ha visti sparire a distanza di una settimana l’uno dall’altro.
Se gli stilemi grafici di Giuli sono già presenti nella produzione acerba, è proprio all’inizio degli anni Settanta che cominciano a ricorrere i tipici elementi che lo renderanno riconoscibile: i giochi di controllatissima astrazione geometrica piana e solida innestati su campiture di tinte nette e uniformi, capaci di moltiplicarsi in miriadi di versioni sempre diverse e sempre regolari; è questo il periodo della sua produzione che rappresenta di più la forza dirompente e contemporanea della sua proposta artistica: non è infatti un caso che è proprio alla XXXVI Biennale di Venezia, quella del 1972, in cui viene invitato a partecipare. L’esperienza è naturalmente uno spartiacque nella carriera dell’artista, e l’evoluzione che ne segue porta frutti di ricerca inaspettati: dalla metà degli anni Settanta le superfici debordano dalla forma rettangolare e cominciano a farsi scabrose, appare la sperimentazione di tecniche che sfruttano sostanze diverse, come legno, juta, e soprattutto il cartone, che divenne in seguito il suo mezzo di elezione: i quadri si fanno materici.
Va tenuto presente il contesto culturale in cui Giuli si forma e si muove: è un artista del secondo Novecento nell’Italia centrale, dove non si può prescindere dalla lezione sulla materia di Alberto Burri, e ha conosciuto da vicino il lavoro sul cemento del conterraneo Giuseppe Uncini: il suo punto di partenza era preciso, la direzione imboccata netta, ma lo sviluppo lo ha portato su territori di assoluta novità ed originalità. L’ultima grande ricognizione sulla sua più che cinquantennale carriera è stata la mostra Franco Giuli: le costruzioni pittorico-plastiche e oltre a cura di Bruno Corà, allestita nel 2016 al Museo Bilotti di Roma, ed in quella sede è risultata evidente la lezione che ha lasciato, nell’arte e nella vita: la fantasia è senza limiti, il controllo è volontà, e la libertà è tale solo se vissuta nei limiti della legge interiore.