MILANO | Secci Gallery | Fino al 29 luglio 2023
di ILARIA BIGNOTTI
Ci sono mostre che hanno la responsabilità di riscrivere la cronologia e le relazioni della ricerca artistica: è il caso di quanto accade davanti al progetto espositivo sapientemente curato da Rossella Farinotti, direttrice dell’Archivio Giò Pomodoro, da Secci a Milano.
L’impatto è violento, per due ragioni: la prima, la freschezza dei materiali e delle cromie che ti si parano davanti, sin dalla vetrina. Una scultura verticale diagonalmente esposta a muro, giallo squillante, attraversata da avvallamenti: si chiama Espansione, è di fibra di vetro e poliestere, ed è datata 1959.
Giò Pomodoro questa scultura, e le altre opere esposte in mostra, non le ha mai descritte, raramente le ha mostrate: alcune sono pubblicate nel Prontuario della scultura, un manuale di suo pugno del 1987, commovente per la generosa lucidità con la quale l’artista analizza il suo percorso alla ricerca di una possibile condensazione del movimento nel tempo-spazio, della vita nella materia, si potrebbe azzardare, come se questa e quella non potessero far altro che cercare la scultura, per coesistere nutrendosi di reciproca energia.
Ecco, le opere da Secci sono proprio questo: un’esplosione di vita. Uno schiaffo in faccia anche alle cronologie finora risapute e risolute della storia dell’arte. E questo è il secondo motivo per il quale l’impatto con questa mostra è violento: per il tempo nel quale sono realizzate queste opere. Un tempo aurorale di quella radicalità dei linguaggi che tutt’oggi conosciamo come avanguardie del secondo Novecento.
Giò Pomodoro lavora nel 1957-1958-1959 su queste opere, che poi vanno avanti sino al 1970 nella loro evoluzione di un pensiero che però, ribadisco, sorge quando stava per sorgere Azimuth, creatura letteraria ed estetica di Piero Manzoni ed Enrico Castellani, quando stava per sorgere il Gruppo Zero destinato a squadernare per l’Europa, in buona compagnia di altri raggruppamenti, un modo eversivo di rileggere le avanguardie storiche più radicali, alla luce di un annullamento germinante; tutto questo “stava per”, e Giò Pomodoro rivestiva intanto dei pannelli di legno con polivinilico nero, e rosso e nero, per ottenere opere monocrome che contengono una tensione plastica e concettuale destinata poi a invadere, con prepotenza, lo spazio nelle grandi sculture di un decennio successivo.
Nel 1958 sta preparando i lavori per Kassel. Li avrebbe chiamati Superfici in tensione: “la trama e l’ordito dei segni in negativo, fra di loro ortogonali, attraversano una superficie modellata ondulata e ne sottolineano l’andamento «continuo» ininterrotto. Ma ancora i segni si rilevano in opposizione alla superficie continua modellata del fondo da cui sorgono”, scrive l’artista nel suo Prontuario della scultura, quasi trent’anni dopo.
Sotto all’Espansione gialla, come a suggellarne l’impatto, a terra, a sinistra, un piccolo Sigillo rosso, di poliestere anch’esso ovviamente, datato 1964.
Da qui il percorso in mostra prosegue in esterna: vi è la Grande Gibellina, del 1964-65, un corpo che si estende e abbraccia tra le sue stesse pieghe, verde; e poi il nero, il nero di queste opere, con un solo punto rosso, nella grande sala: qui impatta Marat (Marat l’ami du peuple), datato 1968: qui c’è tutta la violenza di questa storia nascosta di Giò Pomodoro. È una scultura monumentale, nera, posta diagonalmente rispetto all’ambiente espositivo: è densa e colpita, dalle sue pareti lunghe escono come pugni e gomiti lucide angolature, rientranze contuse. Marat, tradito nel bagno, mandato a morte nell’opera capitale e rigorosa di Jacques-Louis David, 1793, è icona che grida nella forma torturata di Giò Pomodoro, un segno plastico monumentale nero sorto nel Sessantotto.
In Piazza Missori, è installato Colloquio col figlio, 1975: la materia si geometrizza, le forme si irrigidiscono fino al punto delle teste. Una lama centrale divide i due corpi apparentemente siamesi, le nuche si piegano all’indietro, aprono un varco al loro colloquio. Giò Pomodoro racconta una relazione eterna e tormentata con la potenza drammatica della sua scultura.
Tutto grida, grida vita, grida possibilità, grida responsabilità: la scultura è una cosa seria, resiste al tempo, resiste a se stessa, e per questo, e Giò Pomodoro con queste opere ce lo dice senza troppi giri di forma e parola, è forever young.
Giò Pomodoro: opere in poliestere. Ricerca sui nuovi materiali dal 1957 al 1970
a cura di Rossella Farinotti
Fino al 29 luglio 2023
Secci Gallery
Via Olmetto 1, Milano