ROMA | MACRO (#Studio Bibliografico) e Bibliotheca Hertziana | 28 settembre 2021 – 23 gennaio 2022
di MARIA VITTORIA PINOTTI
Nel Manifesto della pittura Surrealista, André Breton evoca un’immagine sublime, secondo cui la realtà è nelle mani delle dita di una donna che soffia sulle pagine di un volume.[1] In questa scena, dal sapore mistico e rituale, in cui si intreccia l’aleatorio e la sensualità, il libro, oltre ad essere mezzo di trasmissione di parola e memoria, è anche lo strumento rivelatore della forza vitale dell’oggettività del mondo. Una tale proprietà inedita del volume, in quanto oggetto di trasmissione culturale, viene interpretata in maniera sorprendente nella collettiva Fore-edge Painting organizzata sia presso il MACRO | Museo d’Arte Contemporanea di Roma – già Museo per l’Immaginazione Preventiva con la direzione di Luca Lo Pinto – sia nella Sala del Disegno di Palazzo Zuccari, sede della Bibliotheca Hertziana, con le opere di Tauba Auerbach, Kerstin Brätsch, Cansu Çakar, Enzo Cucchi, Camille Henrot, Victor Man, Andrea Salvino, Andro Wekua, in programmazione dal 28 settembre 2021 al 23 gennaio 2022.
Il progetto induce una formidabile sorpresa, per essere un’esperienza dinamica scaturita dalle diverse interpretazioni sull’antica tecnica medievale del fore-edge painting, che prevede proprio la decorazione del taglio frontale dei libri per segnalarne vuoi il contenuto vuoi lo stato di appartenenza ad una determinata persona. Tale modalità decorativa divenne popolare in Inghilterra, sul finire del Seicento e nei secoli successivi, dove i disegni così occultati erano visibili solo con una certa inclinazione delle pagine del volume stesso. Il piano espositivo, come detto, prende vita con un duplice allestimento, luoghi di rassegna ove gli artisti sono stati chiamati ad interpretare il fore-edge painting, scegliendo un volume a loro piacimento: il risultato è una mostra vitale e variegata. Quanto esposto presso il MACRO di Via Nizza si snoda lungo un tracciato permeabile, scandito da strutture verticali a pressa che trattengono i volumi frontalmente nella giusta inclinazione, permettendo la perfetta visualizzazione dell’immagine che si anima emergendo nella limpida luce della sala.
Una siffatta eterogenea predisposizione musiva si pone come una valida alternativa al retorismo dei classici allestimenti museali, in quanto emerge un nuovo modo di pensare l’opera nello spazio, attraverso un esercizio di stile che capovolge quell’afasico sensazionalismo allestitivo tendente a sovraffollare gli ambienti di opere, proprio per il timore di non essere abbastanza espressivo e comunicativo. Altrettanto peculiare è l’installazione presso la Biblioteca Hertziana, laddove, i volumi si trovano stretti da una struttura a pressa, come ad intendere che esiste una libertà che va oltre la loro guaina fisica e che si esala nella singolarità dei tagli anteriori, così diversamente interpretati dagli artisti coinvolti.
Tra le opere in mostra presso il MACRO spicca, con veemenza, l’interpretazione dell’artista Andrea Salvino (Roma, 1969), il quale pone in mostra una Bibbia sul cui taglio viene riportata una scena del film erotico intitolato Intérieur d’un couvent di Walerian Borowczyk risalente al 1978. Sebbene sia evidente la difficoltà tecnica nel dipingere il fronte del volume, mantenuto com’è nella necessaria inclinazione, il volto ritratto è ripreso con acuminato realismo, secondo una pittura volontariamente sprezzante e strapazzata. Con questa scelta iconografica, l’artista pare eseguire un processo di catarsi verso ogni accorata e dissuasiva interpretazione, che considera l’arte come una religione stretta e coinvolta nel suo incantamento; prova ne sia la riprodotta citazione, da cui traspare una riflessione sull’ipocrita sacralità che aleggiava negli ambienti religiosi dell’epoca, luoghi in cui invece si distillava la quintessenza dell’uomo. Un tale interessante approccio di Salvino emerge anche nella sede della Bibliotheca Hertziana, laddove l’artista sceglie di lavorare sul romanzo dello scrittore tedesco Karl May (1842–1912), su cui ha riprodotto un’immagine di Totò tratta dall’episodio Che cosa sono le nuvole, diretto da Pier Paolo Pasolini per il film Capriccio all’italiana (1968): anche qui il soggetto esplode in pistilli multicolore segnati da veloci e calzanti pennellate filamentose che immortalano il protagonista intento in un atto di voyeurismo.
Dalle opere emerge limpidamente un memento, che, beninteso, si inserisce nella coerenza produttiva di Salvino stesso, secondo cui l’opera è viaggio nella storia e nel dato collettivo, sì da lasciare intendere che l’arte è linguaggio libero, mai asservito o a servizio dello svago e dell’intrattenimento popolare. In sostanza, Salvino procede ad una completa metamorfosi rispetto a ciò che avveniva nel passato: dapprima l’artista era un personaggio divino che compiva lo sforzo metafisico di creare dal nulla, ora, invece, egli spira l’aria trascorsa, laddove trova un contenuto semantico, secondo il triplice mandato di appetito, desiderio e volizione. Limpida consapevolezza dell’artista, in altri termini, in quanto attore che non ha alcuna possibilità di astrarsi verso gli eventi della storia, neanche in virtù di un atto di volontà o decisione. Tuttalpiù, perché per Salvino è impossibile vivere l’arte in una forma di isolamento e così le due scene riprodotte sui volumi sono sintomo di un’arte pensante, intesa alla maniera del filosofo Georg W. F. Hegel, intenta com’è non a produrre e riprodurre, bensì a conoscere scientificamente cosa sia l’arte, mai esclusa del suo passato.[2]
La molteplicità interpretativa della tecnica del fore-edge painting trova ulteriore motivo di ricerca nelle opere degli artisti Tauba Auerbach, Victor Man ed Andro Wekua, che si pongono nell’indagine della scrittura e nella riduzione estrema alla monocromia; le loro interpretazioni, infatti, intendono ragionare, con la necessaria enfasi, su un aspetto particolare, quale il confronto alternativo, ampiamente affrontato da Cesare Brandi attorno ai termini di segno ed immagine, significato e significante.[3] Quanto voluto da Tauba Auerbach (San Francisco, California, 1981) è intriso appieno nella dimensione linguistica, a tal proposito l’artista gioca con l’inciampo visivo della lettera “o” che secondo l’esperienza personale – che la vide lavorare su esercizi di scrittura a mano – è una delle lettere più difficili da realizzare, tanto da assumere sul fronte del volume un aspetto di strana metamorfosi visiva. Così l’artista, per sfuggire da ogni compromesso legato alla figurazione, ragiona esclusivamente sulle belle forme celate nell’invenzione linguistica della lettera.
Anche Victor Man (Cluj, Romania, 1974) si pone sulla scia dell’abdicazione delle immagini: sul volume Gerusalemme liberata di Torquato Tasso in mostra al MACRO, Man inscrive la frase «ROMA O MORTE», proveniente dal portico del Mausoleo Ossario Garibaldino sul monte Gianicolo di Roma, sinonimo di un idioma nazionale. Il motto qui si presenta come una traccia storica che emerge per essere una bella invenzione già insita del suo valore estetico, proprio come la concepiva Leon Battista Alberti, ovvero “funzionante e così efficace che già di per sé stessa muove a diletto.”[4] Inoltre, con Man la creatività coincide sì con il dato storico, ma anche con quello topografico, poiché presso la sede dell’Hertziana disegna un paesaggio che richiama quello della Via Appia Antica su un volume delle Abbazie del Lazio.
Con Andro Wekua (Sukhumi, Georgia, 1977), da par suo, il distillamento verso la figurazione si fa ancora più drastico, quasi a volerci rammentare che con l’annullamento delle immagini si entra in contatto con le pulsioni più recondite della sfera creativa. In questo modo, l’armonica massa di colore che copre il taglio frontale dei volumi ci permette di percepire il desiderio di voler tornare all’origine e all’aspetto significativo del colore, in quanto sussurratore di immagini pure ed ineffabili: non è infatti un caso che l’artista abbia scelto di lavorare sul volume del pittore primitivista georgiano Niko Pirosmani.
Sorprendenti ed innovative sono le opere di Enzo Cucchi (Morro D’Alba, 1949), entrambe alludono alla vita, rappresentando la ritmica danza verso l’ora più corta, qual è il tempo della morte. Le opere, simili nelle loro sembianze, derivano da una riflessione sull’aspetto materico della ceramica in quanto materiale povero, di antica memoria e portatore, come i volumi in mostra, di favelle e sussurri mnemonici. Cucchi abilmente plasma la rugosa materia ceramica, di cui ne conosce i segreti più nascosti, e così costruisce due incavi che accolgono altrettanti oscuri volumi su cui lascia in sospensione una schiera di candidi scheletri, come se fossero visioni tanto numinose quanto luminose di un folle burattinaio. Elementi da non sottacere che emergono preponderanti dai lavori, sono le sagaci limature e le consumazioni della materia, che assieme alle volenti imperfezioni frutto di pennellate approssimative e frettolose, intendono cadenzare il ritmo, assurdo e conturbante della morte.
Nelle mani del grande Cucchi, caratterizzate come sono da una raffinatezza tecnica e inventiva, la morte ha trovato casa, giacché l’artista infiamma, con il suo divino terrore, il margine ignoto ericcamente sfilacciato della vita umana. In questo modo l’originale intervento diventa una sorta di memento mori, che si ripercuote nel senso di una vita panta rei, a cui ognuno di noi appartiene e al termine della quale non ritornerà più.
Complementari e di grande valenza ed interesse per la capacità di cogliere la poetica artistica insita nel disegno all’insegna della leggerezza e della misura, sono le interpretazioni di Kerstin Brätsch, Cansu Çakar e Camille Henrot. I disegni ad acquarello proposti da Brätsch (Amburgo, 1979), sono tratti dalla serie Para Psychic dalla stessa ideata e vengono disegnati sul Libro rosso dello psichiatra Carl G. Jung e sulla Divina Commedia illustrata da William Blake. In entrambi i casi poesia e delicatezza coincidono con un senso di spiritualità coloristica volta a descrivere la vitalità della gamma stregata, forse allusiva di particolari stati emotivi. L’effetto di sfondamento delle strane creature che abitano il fronte del volume suggerisce una suggestiva riflessione verso un esercizio di stile il cui disegno subissa gli esseri, che si pongono come in una sorta di sopramondo fantastico privo di peso.
L’elemento dell’immaginifico ritorna nelle interpretazioni di Cansu Çakar (Istanbul, 1988): in entrambe le opere in rassegna inscena misteriosi paesaggi animati dal minimo mutare del vento e così i disegni, sottilmente eseguiti con segni filiformi, inscenano un mondo primitivo e arcaico. Con Camille Henrot (Parigi, 1978), diversamente, la figurazione sfocia nel suo aspetto più surreale, così da sfuggire alla logica e alla coerenza; i due lavori sono eseguiti sul fronte del Dizionario Enciclopedico Italiano su cui l’artista inscena due narrazioni visive accattivanti di strambi quadrupedi che si confrontano in un particolare vis-à-vis di inusitate, sconvolgenti e strampalate storie inventate. È così che la mostra si propone come una forma di esercizio intellettivo e creativo, in cui gli artisti sono stati chiamati ad interpretar volumi sì da far emergere allo spettatore momenti di sensualità, attrazione ed indagine. Proprio questo stravolgimento del format della classica mostra museale consegue un obbiettivo: il visitatore può godere indisturbato di opere inedite per allontanarsi dal qui e per raggiungere l’altrove, a partire da una forza d’urto, una sorta di energia che ogni libro emana e che acquisisce senso, proprio come immaginava André Breton, solo con il soffio del nostro pensiero sul volume.
Fore-edge Painting
Tauba Auerbach, Kerstin Brätsch, Cansu Çakar, Enzo Cucchi, Camille Henrot, Victor Man, Andrea Salvino, Andro Wekua
28 settembre 2021 – 23 gennaio 2022
MACRO (#Studio Bibliografico) e Bibliotheca Hertziana
Info: www.museomacro.it
www.biblhertz.it
[1] André Breton, Il surrealismo e la pittura, (1928), Abscondita, 2010, p. 26
[2] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, La morte dell’arte, a cura di Federico Nicolai, AlboVersorio Edizioni, Milano, 2013, p. 29
[3] Cesare Brandi, Segno e immagine, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2010, p. 67
[4] Erwin Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, Bollati Boringhieri, 2006, p. 104