Intervista a Gianfranco Baruchello di Jacopo Ricciardi
L’opera di Gianfranco Baruchello si muove alla frontiera tra pensiero e reale, facendo sì che l’uno provochi l’altro, che l’uno metta in discussione l’altro. È l’opera che chiede all’artista il suo sviluppo ambizioso: sulla superficie del quadro si traccia l’archeologia dinamica del pensiero, poi nell’installazione lo spettatore diventa l’agente della dinamica del suo pensiero tra gli altri, infine, ci si apre alla condivisione, ossia alla comprensione e assimilazione di questo procedimento da parte di una comunità (la prima sede della Fondazione Baruchello opera dal ’98 al Parco di Vejo, vicino a Roma) che poi diventa comunità (ultima possibile aspirazione dell’opera) nella seconda sede della Fondazione, nel cuore della città di Roma, oltre il Gianicolo nell’alta zona di Monteverde. Questa sede è stata inaugurata con la mostra Start up. Quattro Agenzie per la produzione del possibile, curata da Maria Alicata e Carla Subrizi, dell’artista Gianfranco Baruchello che, per l’occasione, ha coinvolto numerosi artisti nella sezione Oggetti anomali (Maria Thereza Alvez, Massimo Bartolini, Elisabetta Benassi, Jimmie Durham, Bruna Esposito, Emilio Fantin, Claire Fontaine, Felice Levini, H.H. Lim, Rogelio López-Cuenca, Antoni Muntadas, Leonardo Petrucci, Cesare Pietroiusti, Santo Tolone, Carlo Gabriele Tribbioli e Cesare Viel)…
Nel decalogo posto alla parete della stanza che accoglie la prima agenzia, al primo punto, c’è scritto: «Meglio cento giorni da pecora che uno da leone» (nello spazio molte sagome di pecore di legno chiaro e grezzo, ben ordinate, a dimensione naturale). Mi sembra di cogliere una sfida pacifica al concetto di rivoluzione che sembra oggi tornato di moda nel nostro Paese.
Oggi è finita l’enfasi che un tempo sosteneva la brillante capacità della forza con la seduzione della vittoria. Queste sono oggi ridicole. Quindi il rischio è di far ridere quando uno sventola la bandiera. In passato ho avuto due greggi, e l’ho provato per pura curiosità. Sapevo che cos’era la terra, e qual era il suo odore fin dall’infanzia. È così che la pecora è venuta a far parte della mia retorica o narrazione. Che cos’è la narrazione? La pecora fa parte della narrazione. E l’ho portata qui al servizio di tutt’altro. Qui si fanno cose pazzesche, assurde.
Eccoci alla seconda agenzia. Essa prevede di prendere diversi metri cubi di terra dal giardino della prima sede della Fondazione per poi spedirli, dentro a delle casse di legno, all’estero, in predeterminati luoghi, e lì, una volta mischiati con la terra straniera, rispedirli indietro per essere riportati nel giardino della fondazione. Ho capito che su questa terra vuole fare un giardino. La terra germoglierà, e quindi da questo misto essa si riunirà, quasi che la terra potesse qualcosa che l’uomo sembra non poter attuare.
La terra porta con sé i semi. A quel punto l’operazione dello scambio di terra è già fatta. È una delle cose apparentemente assurde, che suscita, però, non soltanto la curiosità, ma anche una parziale ebbrezza da parte delle persone che mi raccontano cose strane, senza fine economico o commerciale. Non cammina per conto suo, ma va portata. Il pastore è anche un facchino del gregge.
Diciamo che questo lavoro delle pecore elimina l’oggetto. In realtà è quasi come se l’opera fosse la persona che viaggia con la pecora, creando una responsabilità verso questo animale che poi è soltanto un non-oggetto.
Questo è già un aspetto positivo di quest’operazione, nel senso che, in qualche maniera, suscita una procedura imprevista. Non sono i bambini che si gettano sulla pecora, ma i personaggi adulti. Questo è qualcosa che ci fa pensare, che mi fa pensare.
Ha sorpreso anche lei?
Sì. Io sapevo che la pecora è un oggetto e dipende da come la si presenta. Se uno la mostra come una cosa gloriosa, fa ridere, perché la pecora nessuno la insulta. Il decalogo che abbiamo fatto, quello è la provocazione. Diciamo «Noi amiamo la pecora nera» perché ci piace la pecora nera. Allora abbiamo fatto, da lì, tutto il decalogo, l’abbiamo deciso con le curatrici.
Le persone hanno reagito in modo inaspettato perché la persona interpreta se stessa.
Sì però senza dire l’opera è mia.
Esatto. Non è io mi impossesso dell’opera ma io mi impossesso di me stesso attraverso il trasporto della pecora.
Ah, questo sì. È il terzo personaggio. Vuol dire io ho capito questo gioco e mi piace, e vedo cosa succede.
Si ha un legame con questo elemento di legno come se fosse vivo.
Da una parte mi suona come una musica piacevolissima, dall’altra mi meraviglia.
Vorrei passare a parlare della terza agenzia nella quale lei ha coinvolto altri artisti. Mi è sembrato che le opere di questi artisti fossero davanti a me, palpabili, anche se non c’erano.
Noi qui facciamo vedere delle idee, nostre e eventualmente quelle degli altri. Chi sono gli altri? Sono tutti amici miei, dalla mia età a venir giù: l’età non conta. Perché c’è questo effetto saturante e soddisfacente di cui lei parla, non lo so dire, ma evidentemente il fatto che non sia necessario realizzare materialmente l’opera evita tutte le noie della realizzazione. Alcuni hanno fatto progetti molto complicati. Lo sforzo era che l’idea deve bastare. Sono personaggi che danno il limite massimo della possibilità di fare una cosa. C’è quindi un’invidia non penis ma aetatis (ride).
Non solo questo. Nel procedimento di rivelare l’opera ci sono diversi percorsi: disegno, progetto, descrizione. Questo aggiunge una qualche ricchezza che sembra quasi svelata ora, ma che sarà nascosta ad opera ultimata.
Infatti secondo me la presunzione tipica dei musei di non mettere la didascalia accanto all’opera non le fa funzionare. Invece incuriosisce l’idea che la parola, un’entità verbale che pone in condizione di godere un’opera, funziona.
Per l’ultimo spazio della Startup, la quarta agenzia, si vive il gap tra la realtà dello spettatore e l’estraneità dell’immagine mostrata.
L’idea è voluta. Si scende in cantina. La poltrona e il video creano una situazione fastidiosa. Non è un elemento didattico né provocatorio, ma accessorio della visibilità al buio, di una cosa che è poi elettronica. È un po’ ingannevole, nel senso che è stata girata al momento del tramonto, altrimenti non si vedeva nulla. È stata girata quando il cielo era ancora bianco. In qualche maniera è un artifizio per far vedere un crepuscolo fasullo. Era nato così: la finalità di questa operazione era scrivi una parola. Il progetto consiste nella ricerca della qualità della parola detta.
È questa una Startup economica o umanistica?
Il discorso economico è tremendamente serio e tremendamente anche impeditivo, perché si pensa subito al soldo, al prezzo, alla tassa, alla ricchezza, al guadagno, tutte terminologie in qualche maniera volgari. Mentre l’altra parola è un termine che dà sul poetico. Esiste un fascino tra le parole, una gerarchia, un confronto.
Tratta da Espoarte #95.
Start up. Quattro Agenzie per la produzione del possibile
Fondazione Baruchello
Via del Vascello 35, Roma
9 novembre 2016 – 28 aprile 2017