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Intervista a EVGENY ANTUFIEV di Irene Biolchini*

Già dalla personale del 2013, organizzata dalla Collezione Maramotti, è apparso chiaro come il linguaggio di Evgeny Antufiev rappresentasse una voce del tutto unica all’interno della scena contemporanea. Il suo interesse per i manufatti antichi – senza alcuna distinzione gerarchica tra folklore, oggetto sacro e reperto storico – è rimasto invariato negli anni dal 2013 ad oggi. Ultima tappa di questo percorso è la mostra Evgeny Antufiev. When Art became part of the Landscape. Chapter I, inaugurata al Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas di Palermo, in collaborazione con la Collezione Maramotti di Reggio Emilia. La mostra, inserita negli Eventi Collaterali di Manifesta 12, è a cura di Giusi Diana ed espone una produzione recente in cui lo studio formale della classicità si accompagna a sperimentazioni tecniche, che evocano un’era diversa dalla nostra. Nelle sue forme e patine, l’artista mima un’appartenza al mondo naturale, ad elementi difficilmente associabili ad un tempo ed uno spazio noti. In un processo di continua evoluzione e ripensamento delle proprie forme, le opere presentate a Palermo ripartono dal progetto di Manifesta 11 in cui Antufiev aveva presentato (nella Wasserkirche presso l’Helmhaus e al primo piano del Löwenbräukunst) una complessa installazione dal nome, appunto, Eternal Garden.

Evgeny Antufiev, Art became part of the Landscape. Chapter I, veduta della mostra, Museo Archeologico Salinas, 2018. Untitled, 2017, ceramica

Nel descrivere la tua ceramica fai spesso riferimento ad una tradizionale cottura siberiana. Puoi raccontarci qualcosa di questa tecnica e di come l’hai conosciuta?
In Russia, specialmente al nord, c’è una ricca tradizione della ceramica. Molte lavorazioni e processi, a volte strani, sono stati inventati sulla base della povertà dei mezzi a disposizione e dei materiali.
La tecnica più originale che conosco è la cottura della ceramica nel latte. Nei villaggi non c’era smalto da usare, ma il latte era presente in abbondanza. Quindi lo si è usato per una cottura a bassa temperatura per impermeabilizzare la superficie della ceramica e consentire di trattenere i liquidi senza dispersioni. Non ho mai sentito che si usasse questa procedura da nessun’altra parte; personalmente io l’ho usata più volte nel mio lavoro.
In epoca sovietica c’è stata una forte tradizione di ceramiche moderniste: molti artisti hanno lavorato per decorare teatri, ospedali, hotel. Nella città dove sono nato, nel nostro teatro c’erano vasi enormi ovunque, che guardavo con grande ammirazione: erano più grandi di me, tutti decorati con schemi geometrici. Di recente sono tornato e i vasi erano stati restaurati e non posso dire che fossero meravigliosi come quelli conservati nella mia memoria.

Evgeny Antufiev, Art became part of the Landscape. Chapter I, veduta della mostra, Museo Archeologico Salinas, 2018

La mostra in corso a Palermo al Museo Archeologico Salinas lavora moltissimo sulla persistenza di certe forme, di memorie antiche. Una prassi a te cara, come nelle tue riflessioni sugli oggetti sciamanici siberiani. Come è stato questo passaggio da una memoria personale, quella siberiana appunto, ad una più collettiva, legata al mito e alla classicità?
Ogni ricordo personale cresce come una colonia di funghi su un terreno fertile. Non è dato sapere come avvengono certe connessioni ma esistono. Nella mia mente, i vasi giganti del teatro e il servizio della nonna si sono mescolati ai vasi dei tumuli della Scizia, dove ero andato con mia madre e con gli oggetti del museo dedicati alla tradizione locale: è difficile dividerli. Difficile dire dove sta il classico e dove l’arte contemporanea, dove sta l’arte e dove sta l’artigianalità, i confini sono diventati molto instabili oggi. La cosa più importante è trovare il giusto ritmo e preservare il mito che ancora ci circonda.

Evgeny Antufiev, Untitled, 2017, tessuto, ricamo e ambra, cm 65x50x12. Courtesy: z2o Sara Zanin Gallery, Roma

Due anni fa hai partecipato a Manifesta a Zurigo. E quest’anno torni con una collaterale a Palermo. Come descriveresti le principali differenze tra i due progetti? E quali le continuità per te ineludibili?
Non vedo molta differenza. A Zurigo ho realizzato una mostra nella chiesa e qui nel museo semplicemente. Sia il museo sia la chiesa sono entrambi votati all’eternità, tema a me caro. A Zurigo, si trattava di una delle chiese più antiche della città, a Palermo del più antico museo della Sicilia.
Di fronte a questo, l’idea di progetto “principale” o “parallelo” è così importante?

Evgeny Antufiev, Eternal Garden, 2016, veduta dell’installazione, Wasserkirche, Manifesta11, Zurigo. Courtesy: z2o Sara Zanin Gallery, Roma

A fine giugno inaugura una mostra sulla ceramica contemporanea al Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza e tu sei uno dei cinquanta artisti invitati da tutto il mondo a rappresentare la ceramica d’arte oggi. Cosa significa dunque per te fare ceramica oggi? E cosa è per te Faenza, dato che i lavori che presenterai sono stati realizzati proprio in città, al Museo Carlo Zauli?
Non posso dire cosa sia oggi la ceramica. In generale, non assumo lo spirito del tempo: tutto cambia troppo velocemente, tutto è troppo fugace e mi sembra quindi che non valga la pena “cercare” di essere moderni.
I ritmi più vecchi sono più affidabili. E la ceramica è uno dei materiali più antichi con cui l’uomo ha iniziato a lavorare. Qui l’ordine non funziona, funziona solo il contatto; i vasi germogliano come fiori, a differenza di un albero a cui sottostare.
Lavorare a Faenza è stata un’esperienza straordinaria. È stato lì che mi sono davvero lasciato prendere da questo materiale e sono molto grato al Museo Carlo Zauli per questo.
Tutti quelli che iniziano a lavorare con la ceramica devono recarsi in luoghi ricchi di tradizioni, in modo da essere ispirati dall’aria stessa che lì si respira.
L’estate scorsa è stata molto dura, molto calda. Soprattutto lavorando vicino al forno per la cottura, ma non dimenticherò mai questa esperienza.

Evgeny Antufiev, Twelve, wood, dolphin, knife, bowl, mask, crystal, bones and marble – fusion. Exploring materials, veduta della mostra, Collezione Maramotti, Reggio Emilia, 2013 – ph. Dario Lasagni

*Intervista tratta da Espoarte #102.

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