PALERMO | Sala Almeyda – Archivio Storico Comunale di Palermo | Fino al 4 novembre 2018
Intervista ad EVA FRAPICCINI di Elena Inchingolo
Eva Frapiccini, classe 1978, è un’artista visiva che vive e lavora tra l’Inghilterra e l’Italia. La sua pratica artistica si muove liberamente tra l’installazione audio e video, la fotografia, le progettualità partecipative e la performance, indagando la realtà e i suoi significati. A Palermo, in occasione di Manifesta 12, Biennale d’Arte itinerante, visitabile fino al 4 novembre 2018, Eva Frapiccini ha inaugurato la mostra personale Il Pensiero che non diventa Azione avvelena l’Anima, esito finale di una complessa ricerca sulle vittime e i protagonisti delle guerre di mafia. Attraverso la documentazione fotografica di appunti, agende, indagini, rinvenuti presso archivi pubblici e privati, l’artista ha sottolineato il valore di testimonianza intima e intellettuale dei documenti quotidiani, quale traccia del pensiero e dell’azione che sostanziano i singoli percorsi di lotta. L’intera ricerca è condivisa, attraverso un complesso lavoro sul campo, con le associazioni promotrici del progetto, in un percorso comune di indagine e riflessione sul senso della testimonianza e della memoria. Abbiamo incontrato l’artista per meglio comprendere i percorsi della sua ricerca…
Il Pensiero che non diventa Azione avvelena l’Anima, è il progetto vincitore del bando Italian Council 2017. Si tratta del concorso ideato e sostenuto dalla Direzione Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane (DGAAP) del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, per promuovere l’arte contemporanea italiana nel mondo. Il lavoro, ideato nel 2014, per un progetto espositivo sul tema della legalità, a cura di Connecting Cultures, Isole e Caterina Niccolai, presso il Tribunale di Palermo, confluisce oggi in una mostra. Questa si inserisce nell’ambito di due eventi culturali di calibro internazionale: il programma di Palermo Capitale della Cultura 2018 e Manifesta 12. Ci racconti, qual è stata la gestazione dell’intero progetto?
Quattro anni fa, la direttrice dell’associazione Connecting Cultures, Anna Detheridge, mi ha invitato a concepire un progetto inedito per una mostra collettiva sul tema della legalità che si doveva svolgere al Tribunale di Palermo. In un primo viaggio di ricerca, a maggio, del 2014, ho consultato il fondo Pio La Torre all’archivio Gramsci Siciliano. Ho potuto, così sfogliare alcuni taccuini ingialliti di inizio anni ’80 con i pensieri del deputato PCI, componente della Commissione Antimafia. Pensieri liberi, calligrafia lunga e, a volte, poco chiara: “Perché l’omertà? perché chi non sa non parla? Collusione? Paura?” e altri che mi hanno dato una vertigine di tempo: “È passato un anno dalla strage di Bologna e ancora non si sanno i nomi degli attentatori e i mandanti”. Un anno… E ancora oggi non si sa nulla dopo quasi sessant’anni!
La Torre era un uomo politico che non si faceva scrivere i discorsi, ex sindacalista, figlio di contadini. Nel latifondo siciliano aveva fatto esperienza del caporalato, dello strapotere dei ricchi proprietari terrieri e boss mafiosi. Egli era convinto di poter diventare deputato con le proprie forze e, allo stesso modo, di poter cancellare il fenomeno mafia facilmente. Dagli scritti di La Torre ho appreso che in quel periodo uscì la legge sul sequestro dei beni per reato di associazione mafiosa, uno strumento prezioso per i magistrati italiani, che verrà approvato solo qualche mese dopo il suo assassinio.
Da una prima indagine mi sono accorta che le inchieste e il lavoro di uomini di stato e giornalisti fermati da Cosa Nostra, veniva poi raccolto e proseguito da altri, fino al Maxi-Processo.
Quindi ho pensato che da questi appunti fosse possibile andare a fondo. Di fatto la mafia non ha ucciso per vendetta uomini dello Stato, ma solo calcolando il danno che questi avrebbero provocato alla propria attività criminale, altrimenti avrebbe colpito loro attraverso i familiari. Invece, l’obiettivo dell’organizzazione era proprio l’eliminazione dell’ostacolo, come un metabolismo parassita che si autodifende per continuare il suo stare.
Tuttavia si traccia facilmente il passaggio di testimone tra un magistrato e l’altro, tra un attivista e un giornalista e così il pensiero diviene poi “azione”, e quando non riesce per paura, inerzia, o collusione avvelena l’anima di un Paese intero.
Nel 2014, ho organizzato i primi incontri con coloro che oggi conservano i documenti, i taccuini, le agende dei protagonisti della lotta alla mafia. Tra gli altri ricordo l’appuntamento a Cinisi, presso la Casa della Memoria Felicia e Peppino Impastato, che in origine era la sua casa, dove ho ritrovato, tra i vari documenti, l’agenda che proprio Peppino Impastato usava per appuntarsi la scaletta radiofonica per Radio AUT.
A quel punto però, il progetto non sarebbe potuto proseguire senza un sostegno economico e grazie al supporto dell’Italian Council ho potuto realizzare 8 viaggi a Palermo, incontrando decine di persone, tra parenti delle vittime, storici, studenti, archivisti. All’inizio ho cercato di muovermi con contatti istituzionali, in procure, prefetture, e questure, ma poi ho capito che le mie domande non avrebbero mai avuto risposte, e così è iniziato il passa-parola. Incontri, numerose telefonate, negoziazione, produzione, allestimento dell’opera e produzione delle foto per la pubblicazione, laboratori didattici con studenti dell’Accademia di Belle Arti di Palermo, incontri con agenti di polizia… Tutto questo processo è durato numerosi mesi… L’inaugurazione è stata solo una festa finale.
L’opera, esposta presso la sede dell’Archivio Storico Comunale di Palermo è un’installazione concepita come un archivio mobile, d’intima fruizione da parte dello spettatore. In che modo i temi della memoria e della ricerca hanno caratterizzato la tua indagine?
Il lavoro presentato a Palermo durante Manifesta 12 e nell’ambito del programma di Palermo Capitale della Cultura, è molto cambiato nella sua presentazione rispetto alle prime idee del 2014.
Mi interessa la relazione della struttura de “Il Pensiero” rispetto all’altezza dello spettatore. Colui che guarda deve poter girare intorno all’opera, scegliere, aprire, chiudere, perché il vedere e il movimento siano un tutt’uno, per una fruizione attiva.
Ho trattato le agende, fogli A4, gli schizzi, le buste come se fossero degli “objets trouvés”, li ho isolati fotografandoli e li ho riportati in grandezza 1:1, prendendo il fronte e il retro di ciascuno. La struttura è un contenitore che dà il senso di assoluto, la vertigine di quanti siano stati i contributi. Volevo che lo spettatore li potesse leggere e toccare come me, godendo dello stesso privilegio che avevo avuto io.
L’aprire e chiudere è frutto del mio desiderio di coinvolgere il rapporto fisico oltre che lo sguardo dello spettatore, perché ci sia un dialogo con l’opera. Sin da bambini, il percorso di conoscenza di qualcosa passa attraverso la sua esperienza, la sua scoperta. Questa struttura rimanda a quella voglia di riscoprire, senza pregiudizi.
Con Costanza Meli di Isole, abbiamo constatato che molti archivi non sono tutelati o classificati, altri, invece, sono andati definitivamente perduti. Molti documenti non sono mai stati riconsegnati alle famiglie: le carte di Mauro De Mauro, il giornalista scomparso nel 1964, quelli di Mauro Rostagno, ucciso nel 1988, solo per citarne alcuni.
In generale, è davvero un peccato che la conservazione della memoria di persone che hanno agito per il bene comune sia solo responsabilità di un parente, figlio o figlia, fratello o sorella. Molti familiari mi hanno confessato di non avere spazio, di non sapere come risolvere la questione dell’archiviazione dei documenti cartacei. Senza contare il problema che ciò che non si classifica rischia di essere dimenticato. Quindi, quali sono i mezzi e i modi per tutelare la memoria e la diffusione di queste eredità? Non si può lasciare che sia una pagina Wikipedia, o una foto della strage a spiegare il contributo di queste persone. Gli scritti di Borsellino, Libero Grassi, Falcone, Boris Giuliano sono a volte custoditi dalle famiglie, altre volte in quei pochi fondi di archivi privi di elenco, impilati in semplici cartelline di carta. Purtroppo, quando non sarà più presente l’archivista che conosce la sua perfetta collocazione, la documentazione andrà dimenticata, perduta. Credo che la diffusione del patrimonio storico debba seguire la specificità della Storia del Paese.
L’intero progetto è stato, inoltre, raccontato, in una pubblicazione edita da Silvana Editoriale, di cui sono particolarmente contenta. Essa possiede infatti una struttura ibrida tra catalogo e libro d’artista, che mantiene viva la corrispondenza tra documento e sua fisicità, una caratteristica essenziale dell’opera. Ad ogni immagine corrisponde il suo movimento, e ancora girare la pagina emula l’atto di girare il documento. Anche i testi in appendice sono descrizioni dei documenti che tracciano la figura del personaggio e in qualche modo in essi sono confluite le lunghe conversazioni con familiari e storici, giornalisti che hanno conosciuto i protagonisti del progetto.
Questo lavoro è frutto di un’indagine partecipativa, che ha coinvolto archivi storici e centri studi sulle mafie, familiari delle vittime, scuole e biblioteche di Palermo e del resto d’Italia, in un percorso di studio e approfondimento su coloro che hanno caratterizzato la stagione di lotta alla mafia tra gli anni ’70 e ’90 del XX secolo. Qual è stata la figura che ha colpito maggiormente la tua sensibilità? In che modo hanno risposto le persone che hanno preso parte al progetto?
L’indagine non è stata partecipativa, anzi, guardavo il mio documento excel con nomi, contatti, numeri ed email, sperando che il colore giallo assegnato ai casi realizzati si diffondesse un po’ più velocemente; invece è stato un percorso lento, faticoso, a tratti emozionante, ma abbastanza solitario. Ho avuto il supporto di Connecting Cultures e Isole per le relazioni con fondazioni e istituzioni. L’apparato biografico è stato realizzato in collaborazione con gli studenti del Liceo Catalano e Ragusa-Kyiohara, l’allestimento curato da Costanza Meli ed Anna Detheridge con il supporto tecnico degli studenti di Allestimento e Didattica dell’Arte dell’Accademia di Belle Arti di Palermo.
La partecipazione degli studenti e professori delle scuole secondarie e dell’Accademia è andata crescendo con l’avvicinarsi dell’opening. E devo dire che i ragazzi sono stati davvero professionali. Palermo si preparava per Manifesta, e c’è stata una grande voglia di fare, di lasciarsi contaminare.
Sono state molte le figure che mi hanno colpito per la loro biografia, sicuramente Pio La Torre, Rocco Chinnici, Boris Giuliano, ma ciò che più mi ha impressionato è stata la loro eredità, oggi ancora molto forte, nelle persone che vivono Palermo, addirittura più radicata nella sensibilità dei giovani che sentendone parlare in maniera analitica, neutra, cercano di contestualizzare quegli anni e quella Sicilia. Antonello Marini, assistente capo della Polizia ed ex agente di scorta negli anni del Maxi Processo, quel giorno dell’attentato a Falcone venne sostituito da Rocco Di Cillo.
Antonello è un sardo, trapiantato a Palermo, lo abbiamo incontrato su passa-parola e abbiamo deciso di portarlo nelle scuole, anche per i suoi modi modesti e diretti, adatti per interloquire con i giovani. Secondo Antonello si deve parlare di una Palermo pre-Falcone e una post-Falcone. Prima della morte di Giovanni Falcone la gente tirava la spazzatura dalla finestra ad una certa ora, ogni crimine rimaneva impunito, ma la sua morte ha cambiato la città. Forse il desiderio dei cittadini che i criminali fossero puniti, ha reso Palermo una città più sicura e libera.
Certo, è ancora presente l’inerzia, il malaffare, il malcostume, ma c’è un alto numero di menti fresche, sveglie e critiche, che si attiva più che ad altre latitudini.
Come si colloca questa progettualità nel percorso più ampio della tua ricerca artistica?
Negli ultimi anni ho sviluppato un interesse sulla relazione fisica tra opera e fruitore. Per esempio, nella struttura di Dreams’ Time Capsule, ho voluto che lo spettatore facesse l’atto di entrare di lato nella struttura, e l’ho disegnata perché fosse esattamente quello il movimento, perché nel movimento “scegliesse” di entrare in un altro spazio.
Nella mia pratica, come ricercatrice, indago il rapporto tra l’immagine e la sua forma tridimensionale, perché penso che sia importante nell’epoca della quarta rivoluzione industriale: la smaterializzazione della realtà data dal tempo speso su internet ha tolto il senso persino all’arte come esperienza, se non si lavora sul rapporto spettatore-spazio-opera, si perde il valore della fruizione fisica e reale di una mostra. In questo tipo di ricerca non bastano le installation views.
C’è poi un discorso più sottile, direi anche politico sull’essere attivi o passivi di fronte a ciò che si vede. Come dicevo cerco di invitare lo spettatore a prendere una posizione, a fare una scelta.
Nuove idee per il prossimo futuro?
Le idee non mancano. Ho in programma una mostra personale a Roma, e un progetto tra Europa ed Asia, ma è ancora presto per parlarne.
Per quanto riguarda questo progetto, i prossimi appuntamenti sono a Bruxelles, dove la mostra verrà ospitata durante il week end di International presso l’Istituto Italiano di Cultura, l’8 novembre 2018. A Senigallia, presso il Musinf – Museo comunale d’arte moderna, dell’informazione e della fotografia. Mi sto occupando della relazione tra ricerca artistica e universitaria, sia per i miei futuri lavori – sto infatti organizzando un gruppo di ricerca internazionale composto da antropologi, psicologi e neuroscienziati di varie provenienze, dal Giappone agli Stati Unti d’America – sia perché conosco bene la realtà italiana e inglese, come docente a contratto da 7 anni all’Accademia di Bologna, e PhD practice-based in Inghilterra da più di 3 anni. Il campo della ricerca artistica, e delle sue potenzialità interdisciplinari anche all’interno delle Università è il tema del tavolo che coordinerò insieme a Cesare Pietroiusti al prossimo Forum dell’Arte Contemporanea, che si terrà a Bologna il 10 novembre 2018. Oggi è reale il problema di saper sostenere le pratiche di ricerca a lungo termine in vari settori artistici e su questo è davvero necessario aprire il dibattito.
Il Pensiero che non diventa Azione avvelena l’Anima
un progetto di Eva Frapiccini
a cura di Connecting Cultures e Isole
progetto vincitore della I edizione del bando Italian Council
Direzione Generale Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane (DG AAP) – Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
16 giugno – 4 novembre 2018
Sala Almeyda – Archivio Storico Comunale di Palermo