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VERONA | Studio La Città | 21 febbraio – 30 aprile 2015

Intervista a EUGENIO TIBALDI di Matteo Galbiati

In occasione della sua mostra personale Red Verona presso la galleria Studio La Città nell’omonimo capoluogo veneto – in contemporanea si tiene anche la mostra Herbert Hamak. Point alpha – abbiamo incontrato l’artista Eugenio Tibaldi (1977) che si è generosamente offerto per questa intervista in cui approfondisce i contenuti dell’esposizione e della sua recente ricerca:

Cosa hai scelto di presentare per la tua prima personale a Verona allo Studio La Città?
Questa mostra mi ha offerto la possibilità di parlare di argomenti su cui rifletto da tempo e che ritengo importanti per il momento storico che stiamo vivendo. Tutta la mostra ruota intorno al concetto d’identità e territorio e si sviluppa in tre gruppi di lavori che indagano questo tema in cui la città di Verona si presta come scenografia inconsapevole di tensioni umane. Sono convinto che l’identità non esista come condizione reale, è più un discorso di percezione nel sentirsi parte di un flusso che non ha confini né barriere. Verona è famosa nel mondo per la tragedia di Romeo e Giulietta, ma se pensiamo che Shakespeare non l’ha mai visitata e che tutti i monumenti legati al dramma cinquecentesco sono di fatto un falso storico realizzato in epoca fascista, ci rendiamo conto quanto sia relativo il concetto di realtà e di territorio. L’intera città ha modificato la sua identità, la sua geografia ed anche la sua storia grazie ad uno straniero che nulla conosceva di essa.

Eugenio Tibaldi. Red Verona, veduta della mostra, Studio la Città, Verona Courtesy Studio la Città, Verona Foto Michele Sereni

Su che contenuti vertono questi tre interventi che costituiscono l’espressione più recente del tuo lavoro? Ce li puoi raccontare e riassumere?
Come spesso accade la mia analisi comincia con lo studio satellitare dell’area e con la realizzazione, in questo caso, di tre geografie economiche, che si pongono come filtro prima dell’ingresso, nella parte più intima della mostra dove il primo approccio è a livello sonoro. Per questa ricerca ho deciso di scrivere una canzone e di farla incidere su un vinile, una nuova tragedia ambientata negli Anni Novanta, momento in cui, a mio avviso, ha inizio la crisi che oggi ha invaso buona parte dell’Europa, una crisi che è stata trasversale, economica, ma anche culturale. Tutto ha inizio nel ‘91, anno in cui, al porto di Bari, attracca VLORA, la nave con 20000 fra albanesi e rumeni in fuga dai loro paesi attratti dal sogno italiano visto nelle televisioni private. Nello stesso periodo si diffondevano i CD, salutando definitivamente l’idea di una presenza fisica e di un rispetto per la musica.
La musica si espande nello spazio ed accompagna Verona landscape, una serie di edifici del centro e della periferia veronese collegati fra loro da un ragionamento concettuale legato alle loro funzioni e alla loro identità. Scavati e ridisegnati con la pittura bianca, diventano una sorta di scenografia abbandonata e crudele in cui si ambienta la storia che racconto nella canzone.
Infine due installazioni: la prima è una colonna di quasi 6 metri in altezza di pandori – percepita fin dall’inizio col suo profumo di burro e vaniglia che invade tutto l’ambiente – che si pone come gioco fra vero e falso. Il pandoro è il dolce più importante di Verona e una colonna portante dell’economia e della cultura veronese, ma è anche citazione di Brancusi, connazionale del protagonista della mia storia. La seconda installazione è un insieme di mappe dedicate alle altre 24 città che nel mondo si chiamano Verona, ma che non sono state fondate da ex-veneti, quanto da persone impressionate e influenzate dal mito di Romeo e Giulietta. 

Verona Landscape è un’opera imponente (oltre 30 metri) come si presenta e sviluppa nel suo porsi in bilico tra realtà e irrealtà?
Vero e falso sono da sempre una mia ossessione, sono convinto che tutti noi, gli esseri umani in generale, decidiamo cosa vogliamo vedere e come vederlo, ridefiniamo la realtà in base alla nostra capacità di percezione. Così attraverso la pittura scavo, da un collage di scatti fotografici, le mie architetture, modificando ed inventando, collegando aree distanti fra loro fisicamente ma vicine per destino, isolando porte e finestre o svuotando del volume interi edifici.
La lunghezza dell’intera linea dei Landscape è legata al racconto narrato nella musica ed alla sua durata come una sorta di pellicola cinematografica incollata alla parete.

Eugenio Tibaldi. Red Verona, veduta della mostra, Studio la Città, Verona Courtesy Studio la Città, Verona Foto Michele Sereni

In Untitled 01 hai operato, invece, come un compositore scrivendo una musica che hai fatto interpretare da un cantante lirico veronese che canta in lingua rumena accompagnato da una pianista moldava…
In realtà questa è stata la prima opera che ho realizzato per questa mostra, ho scritto la storia e questa canzone prima di iniziare la mia ricerca su Verona. A parte una gita in età scolastica, non conoscevo proprio la città scaligera per cui mi sono posto nella condizione di ambientare a Verona i temi di cui volevo parlare seguendo il percorso di Shakespeare. Un po’ come ripetere, in modo matematico, una formula. Poi ho contattato il conservatorio di Verona che mi ha segnalato Tommaso Rossato, cantante lirico che a sua volta ha coinvolto nel progetto Natalia Psetina, la pianista. Insieme hanno interpretato e riadattato il testo in Lingua rumena sulle musiche della Lucia di Lammermoor di Doninzetti (raro caso di musica lirica scritta per più lingue). Prima di quest’esperienza la mia conoscenza della musica lirica era praticamente nulla per cui è stato, anche per me, fonte di crescita e di apprendimento e di avvicinamento alla cultura veronese.

Il lavoro di Maps è, nuovamente, un omaggio a Verona: hai “simulato” con materiali il suo celebre marmo rosso per marcare i profili dei confini geografici di tutte quelle città che nel mondo sono omonime del capoluogo veneto. Un modo per abbattere i confini geografici e superarli? Come si supera l’identità locale/personale?
Mentre svolgevo le mie ricerche su Verona ho scoperto che esistono ben 27 luoghi nel mondo che portano il nome Verona. Li ho cercati ed ho trovato 24 città fondate tutte dopo il 1936 – data di uscita del film Romeo and Juliet negli Stati Uniti – e quindi inspirate dal mito shakespeareano. Questo dettaglio è fondamentale in quanto se partiamo dall’assunto storico che Shakespeare non è mai stato a Verona tutto il complesso di valori diventa solo qualcosa di percettivo, una sorta di appartenenza emotiva e il luogo fisico passa in secondo piano. Da qui ho tracciato, attraverso l’uso del satellite, le mappe di ogni singola città e le ho riproposte su materiali che imitano il tipico marmo veronese. Tutti i materiali che ho utilizzato li ho recuperati a Verona chiedendo ai rivenditori di mattonelle, o di linoleum, carta adesiva o libri antichi prodotti che fossero imitazioni del marmo rosso. Mentre lavoravo a questa installazione ho pensato al titolo… Red Verona, che ha un suono vagamente politico.

Eugenio Tibaldi, Landscape of Identity, 2015, collage digitale su tela stampata, 83x83 cm Courtesy Studio la Città, Verona Foto Michele Sereni

Abbiamo visto come in queste opere il “paesaggio” della città di Verona sia elevata a modello. Come si sposta l’attenzione dal particolare, dalla situazione circostanziata, all’universale?
Verona si presta a diventare scenografia di problematiche internazionali. Oggi trattare l’identità significa anche parlare di tutte quelle cose orrende che si compiono in nome della difesa identitaria: i problemi sociali, politici, di integrazione e di decadimento culturale che ho riscontrato in Verona sono uguali a molte altre città del Nord Italia e più in generale dell’Europa e del mondo Occidentale. Posizionarle in un luogo specifico si presenta come un trucco di scena, la necessità di montare una quinta su cui far girare i temi trattati.

Uno dei temi centrali del tuo lavoro è proprio il legame con gli elementi della contemporaneità con le sue problematiche, tensioni, situazioni. Questi vengono “sintetizzati” nelle tue opere con le tracce rilevate dalla storia, dalla letteratura… Come si dichiara questo connubio?
Ogni progetto, ogni occasione di ricerca rappresenta per me la possibilità di crescere culturalmente ed anche stilisticamente, questa crescita è spesso determinata dall’apertura dei miei progetti a forme collaborative che mi spingono a documentarmi e a sforzarmi in direzioni apparentemente distanti dall’arte contemporanea, ma che, quando trovano il punto di unione, creano qualcosa di unico ed allargano il livello comunicativo dell’opera stessa.
Ogni singolo materiale presente nella mie mostre ha un significato ed una motivazione, non appoggiarsi ad uno schema già conosciuto mi mantiene vigile ed aperto al nuovo. In questo caso la forma dei lavori a parete è stata determinata dalla dimensione dei fogli di stampa prodotti da Fedrigoni a Verona, i Pandori che compongono l’installazione sono stati realizzati per me da Paluani, che mi ha anche fornito l’essenza per non far perdere il profumo dopo pochi giorni e così via. Dover ogni volta rimettersi in gioco, con materiali mentali e fisici, è il lato che amo di più del mio lavoro. La mia Verona e un collage dei racconti che mi hanno fatto le persone che ho incontrato ed i materiali con cui mi sono dovuto confrontare.

Eugenio Tibaldi, Geografia Economica, 2015, acrilico bianco e stampa fotografica su carta Fedrigoni, 105x75 cm Courtesy Studio la Città, Verona Foto Michele Sereni

Quanto conta la “teatralizzazione” delle immagini che proponi allo sguardo dello spettatore?
Non so cosa intendi esattamente per teatralizzazione… Io penso che sia importantissimo realizzare un’ “opera d’arte”, alla fine l’opera deve andare oltre alle mie tensioni personali o ad un normale archivio. Deve superarmi e raccogliere altre sensibilità. In fin dei conti io non faccio il giornalista e neppure lo scienziato per cui, per quanto le mie ricerche possano essere precise e le mie formule corrette, non sono tenuto a dire sempre la verità o a scoprire qualcosa di nuovo, ma a fare qualcosa che ambisce ad essere arte.

Come ha risposto – e come risponde solitamente – ai tuoi interventi il pubblico? Che reazioni registri?
Ogni volta sono molto teso, temo sempre che non vengano colte le motivazioni profonde che spingono la mia ricerca, ed invece, spesso, il pubblico mi sorprende scavalcando agilmente l’arido ostacolo della polemica e spostando su un livello di dialogo intimo, quasi sempre a tre, fra ciò che loro colgono, ciò che io racconto e ciò che il lavoro emana. Questo credo sia anche dovuto al fatto che, in molti casi, presento i progetti dei luoghi di cui parlo nei luoghi stessi, in una sorta di prova del fuoco, una riflessione in grado di restituire un’immagine che nel quotidiano diventa difficile vedere.

Rispetto alle tecniche che usi quali sono i mezzi che preferisci? Come li pensi rispetto ai singoli progetti? Hai un linguaggio che senti privilegiato?
Nasco pittore e la pittura è sicuramente un elemento che mi porto dietro in quasi tutte le mie ricerche anche se in forme molto diverse. In questi anni ho elaborato un metodo di pittura che è più simile al procedimento scultoreo, parto da scatti fotografici molto bui, quasi sempre scatto intorno alle 6 del mattino per avere una luce bassa e pochissima presenza umana, e poi con il bianco con un lavoro di velature scavo le mie immagini inventando impalcature architetture collegando aree distanti far loro e isolando le mie geografie economiche. Accanto a questa tecnica, che spesso mi aiuta a sistemare anche i pensieri nella fase iniziale del progetto, ne uso molte altre. È il luogo stesso che mi indica i materiali e le tecniche su cui lavorare, nel caso di Verona la realizzazione di un dramma in 4 atti e di un disco di musica lirica in tiratura di 100 pezzi è stato come scoprire un mondo completamente nuovo.

Eugenio Tibaldi. Red Verona, veduta della mostra, Studio la Città, Verona Courtesy Studio la Città, Verona Foto Michele Sereni

In definitiva cosa ci racconti della contemporaneità? Come la vive la tua espressione artistica?
Non lo so, io so che faccio questo lavoro perché mi fa sentire adeguato, non riesco a spaziare con lo sguardo nel vastissimo mondo della produzione contemporanea e capire dove siamo e dove stiamo andando. So che a volte mi capita di incontrare, dall’altra parte del mondo, artisti che hanno le stesse mie tensioni, questo mi fa sentire parte di qualcosa.
Sono fortemente grato a chi, per ogni progetto, si adopera perché venga realizzato a partire dall’istituzione o dalla galleria che finanzia la ricerca, fino agli operai che pazientemente mi seguono nelle realizzazioni più complesse.

Quali saranno i prossimi capitoli della tua ricerca? A cosa stai lavorando?
In questi giorni si avvia un progetto a cui tengo molto e che completa un’ulteriore tappa della macro ricerca su Napoli che porto avanti dal 2000. Sarà un’esperienza complessa e per me totalmente nuova. Poi ho un nuovo progetto all’estero di cui non ti anticipo nulla per ora… Magari la prossima volta!

Eugenio Tibaldi. Red Verona
a cura di Adele Cappelli 

in contemporanea

Herbert Hamak. Point alpha
a cura di Marco Meneguzzo 

21 febbraio – 30 aprile 2015
Inaugurazione 21 febbraio 2015 ore 11.30 

Studio La Città
Lungadige Galtarossa 21, Verona 

Orari: da martedì a sabato 9.00-13.00 e 15.00-19.00

Info: +39 045 597549
info@studiolacitta.it
www.studiolacitta.it

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