MILANO | GALLERIA BIANCONI | fino al 10 febbraio 2018
di Irene Biolchini
La mostra curata da Lorenzo Madaro, e presentata negli spazi della Galleria Bianconi, lavora su un paradosso: il distacco suggerito dal titolo To keep at bay – ovvero mantenere le distanze è negato dalla pratica espositiva, un percorso immersivo che suggerisce un rapporto di aperta vicinanza (fisica e formale) tra i lavori esposti.
E d’altra parte, la misurazione stessa della distanza non è forse interamente basata su una convenzione condivisa? Ciò che chiamiamo centimetro è altresì connesso al pollice, al piede. È forse ripartendo da questa misurazione ‘a spanne’ che si recupera il senso più autentico dell’idea di distanza proposta da Madaro: una dimensione che ritorna alla fisicità, alla relazione col mondo. Un rapporto che per essere tradotto oltre l’esperienza diretta necessita di un’astrazione fatta di convenzioni e forme.
Ed è proprio la distanza tra la forma e la materia, o tra l’Idea e la Cosa, il nucleo attorno al quale ruota la mostra e la ricerca dei sei artisti proposti (nati in un arco cronologico piuttosto limitato e quindi molto vicini per esperienze ed immaginario). Stefano Canto costruisce la sua idea di scultura come percezione del vuoto, o – come scrive Madaro – ‘una scultura che interroga se stessa […] la costruzione architettonica, il suo rapporto con lo spazio in cui insiste’. Il negativo, la traccia e la trama delle cose è anche alla base dei lavori presentati da Elena El Asmar, Reverie, due arazzi in cui l’artista traduce nella bidimensionalità della superficie i corpi plastici che popolavano una sua installazione precedente.
Il risultato è la sorprendente convivenza di ombre e punti luce, in un ordito in cui il filo bianco su nero tratteggia i chiari-scuri. Ed è proprio in questa distanza tra il bianco e il nero, tra il bidimensionale e lo scultoreo, che si misura l’intervento dell’artista: un operare che reinterpreta anche le convenzioni della pratica del ricamo al fine di focalizzare la concentrazione sul concetto e non sulla pratica manuale del fare (creando per sempre una distinzione tra l’Idea dell’oggetto e la Cosa rappresentata, come si diceva). In questo modo la materia del supporto, l’arazzo, e quella dell’oggetto rappresentato si smaterializzano davanti ai nostri occhi, in un insieme in cui ogni ordito è traccia della percezione del sé rispetto all’esterno, in una dimensione esperienziale prima ancora che spaziale. Una costruzione in cui la consapevolezza dell’operare è traduzione di un sentire percettivo che si sostituisce alla materia in sé, restituita, appunto tramite negazione, o – letteralmente – negativo.
Sono proprio l’anti-materia e la riflessione sulla pratica pittorica gli elementi costitutivi anche della ricerca presentata da Luigi Massari in cui la stratificazione della pittura si associa ad una pratica di conoscenza. La montagna che popola la produzione pittorica dell’artista è, in altri termini, il correlativo oggettivo dell’ascesi, della ricerca, della meditazione del fare. Ed è quindi in questo tentativo di indagine della Creazione che la pittura si traduce plasticamente in corpo scultoreo (come nel caso della montagna bianca che fronteggia la tela) e lo fa non a caso proprio tramite l’argilla, materia creatrice di vita nelle letterature sacre. Ed è sempre sulla stratificazione che lavora Andrea Magaraggia che propone qui in mostra una serie di opere in cui l’espansione del poliuretano viene bloccata dalla resina, donando consistenza e solidità ad oggetti che suggeriscono plasticamente morbidezze, sconfinamenti (abilmente contrapposti alla fissità e freddezza del ferro). Un contrasto, o una distanza per seguire la linea curatoriale di Madaro, suggerita anche dalla serie Regola di Daniele D’Acquisto in cui la pulizia formale della scultura investe lo spazio dello spettatore, suggerendo infinite variazioni nel metodo allestitivo (le opere possono infatti essere esposte tramite un ancoraggio a parete con calamite che permette innumerevoli varianti di sviluppo). Ancora una volta l’indagine dello spazio non avviene tramite la presenza plastica della scultura, ma mediante le pause tra i corpi in legno ed i vuoti: un dialogo in costante mutazione, soggetto a molteplici interpretazioni e stravolgimenti, una costruzione sempre aperta in cui la dimensione spaziale può essere costruita solo attraverso l’esperienza, l’interpretazione dello spazio in cui l’opera viene inserita. A chiudere il percorso meta-linguistico, che accomuna tutti gli artisti in mostra, sopraggiunge il lavoro di Davide Mancini Zanchi che come sottolinea Madaro: ‘si muove con disinvoltura alla ricerca delle dinamiche che costituiscono il concetto di medium, quadro, la scultura, l’installazione. […] un lavoro ironico e al contempo strutturato, capace con la sua energia scanzonata di avanzare proposizioni sul linguaggio e sui generi e di sollecitare riflessioni intrinseche agli stessi’.
Convenzione, linguaggio, codice e distanza: sebbene gli ingredienti della mostra di Madaro attingano ad un immaginario che ha popolato la produzione postmoderna, ciò che emerge con forza una volta terminato il percorso di mostra è però la traccia di una nuova ricerca, comune a questa ultima generazione, che probabilmente essendo nata con il postmoderno ha potuto serenamente abbandonarlo muovendosi, in maniera naturale, verso nuove ricerche. Per tutti e sei gli artisti in mostra, infatti, l’interpretazione rimane un campo aperto, dialogico, non confinabile: ed è questo terreno a poter essere misurato solo tramite l’esperienza e non la conoscenza. Una generazione in cui è la fisicità della materia a sancire la distanza dall’astrazione: un “qui ed ora” in cui la pratica artistica è affermazione di senso, prima ancora che esercizio.
To keep at bay
Artisti: Stefano Canto, Daniele D’Acquisto, Elena El Asmar, Andrea Magaraggia, Luigi Massari, Davide Mancini Zanchi
a cura di Lorenzo Madaro
11 gennaio – 10 febbraio 2018
Galleria Bianconi
via Lecco 20, Milano
Info: +39 02 2222 8336
www.galleriabianconi.com