TERESA GIANNICO | Studio visit
Intervista a TERESA GIANNICO di Matteo Galbiati
A Milano da Viasaterna, sua galleria di riferimento, abbiamo avuto modo di apprezzare la ricerca e la sperimentazione fotografia di Teresa Giannico (1985) che, proprio in occasione di Kaleidos, sua prima personale, ha proposto Lay out e Ricerca8, due progetti esemplificativi del carattere forte della visione e dell’attitudine della sua peculiare ricerca. Abbiamo voluto approfondire con l’artista stessa il processo di “costruzione” della sua fotografia, che passa per tecniche diverse – che si sommano a quella fotografica – come la pittura, la scultura, l’installazione e il disegno, passando anche per la catalogazione e l’archiviazione delle immagini.
Costruzione e manipolazione della realtà la portano a definire contesti e luoghi fortemente ambigui, sospesi tra le possibilità di una verità immaginata e quelle di un’immaginazione vera, soluzioni queste che lasciano lo spettatore sempre incerto, in bilico sul confine tra la lettura di un artificio rappresentativo e la trascrizione di una scenografia della quotidianità. Ecco il riassunto dello scambio avuto durante la conversazione con la giovane artista:
Provieni da una formazione accademica legata alla pittura, poi ti specializzi in fotografia: come si contaminano, nella tua ricerca attuale, questi due linguaggi?
Di sicuro questi codici in me si contaminano e s’intrecciano. Sono arrivata a lavorare con questa mia tecnica particolare proprio perché, ad un certo punto della mia sperimentazione creativa, tutto è ritornato a coesistere in una sola espressione. La fotografia è la mia disciplina, l’ho coltivata soprattutto dopo il mio arrivo a Milano nel 2012, ma subito mi sono resa conto che fosse uno strumento troppo piatto, mentre la mia opera aveva la necessità di verificare un rilievo, di trovare un suo spessore specifico che la foto da sola non era proprio in grado di garantire nel modo che io desideravo. Allora mi sono venute in soccorso altre esperienze: in Accademia avevo studiato pittura e disegno, poi, lavorando molto con la scenografia, ho frequentato a lungo l’ambiente del teatro e sono stati questi a portarmi a strutturare i primi diorami fotografici. Con questi ricostruivo una realtà inedita che, partendo da immagini fotografiche reali poi assemblate in un contesto nuovo, poteva mettere il fruitore nella condizione precisa di percepire un filtro di lettura in più rispetto alla semplice fotografia, facendo leva sulla natura ambivalente di quello che si osserva nell’immagine finale.
Come si aggiorna la missione del fotografo e dell’artista che usa l’immagine fotografica oggi, quando moda e social hanno massificato l’uso delle immagini come mai prima nella storia?
A me mette un po’ a disagio la produzione massiva di immagini, siano quelle relative ai social che quelle impiegate per fini commerciali. Per me oggi l’artista si distingue, in questo panorama, per valori come tempo-intenzione-concetto, che restano (o devono restare) i suoi punti fondamentali di riferimento.
La proliferazione delle immagini mi incuriosisce, è un fenomeno di cui prendo atto e che studio a livello sociale. Con Internet, forse, si potrebbe arrivare addirittura a pensare di non aver più la necessità di doverne produrre altre, perché le immagini sono già lì, tutte pronte in questo enorme, infinito, archivio virtuale. Si produce tanto e ovunque, ecco allora che penso si possa lavorare anche riutilizzando quanto già esiste, di alto livello o di livello amatoriale non conta una volta estrapolato e isolato dal flusso del web.
Il mio obiettivo è quello di spostare l’attenzione dalla foto al concetto che questa esprime: immaginandomi un buco nero in cui in futuro tutti i nostri file andranno a finire, vorrei che le mie immagini si differenziassero dalle altre, perché hanno voluto parlare dell’osservazione, più che del soggetto fotografato.
Tu attingi allora anche da Internet come infinito serbatoio di immagini, poi intervieni con una peculiare rielaborazione con cui tracci nuove storie, nuovi significazioni. Quali esiti vuoi raggiungere? Cosa resta delle vicende originali e cosa esprimi nelle tue nuove?
Prendo tutto da Internet; è già tutto lì. È facile per me arricchire il mio archivio personale, semplice riempirlo con elementi senza nemmeno avere la necessità stringente di dover rielaborare immediatamente questo materiale in costante accumulo. Solo quando attuo un processo di dislocazione allora l’immagine, nella somma di altre diverse, ha lo statuto e la forza di diventare qualcosa d’altro. Poi molto dipende dalle serie su cui lavoro.
A proposito di serie, nella tua recente mostra personale da Viasaterna ne hai proposte due: Lay Out (del 2015) e Ricerca8 (del 2018). Ce ne racconti brevemente i contenuti?
Con Lay Out cercavo le immagini di ambienti reali presentati su annunci caricati online. Queste foto, realizzate da privati che affittavano case, stanze o una parte della loro abitazione, mi appassionavano perché erano senza filtri, lontane, per esempio, da quelle che spesso mi capitava di fotografare per le riviste patinate di architettura e di design. Quelle di questi autori anonimi erano foto “sbadate” nella loro intenzionalità e nello scopo per cui erano realizzate. Cercavo, quindi, di mettere in relazione la testimonianza di un vissuto privato, umano, con la sua diffusione nello spazio virtuale del web finalizzata ad uno scopo preciso.
Con la più recente Ricerca8 mi sono messa, invece, nella condizione di lavorare maggiormente sulla composizione di oggetti che trovavano un’inedita correlazione nella definizione di ambienti completamente inventati. La creazione di diorami, che, come dicevo, mi ha permesso di ritrovare gli spunti derivanti dal disegno, dalla pittura e dalla scultura come pure dai grandi maestri italiani del Novecento, nelle sue esigenze e urgenze compositive trova nella fotografia finale il rumore del silenzio, del mistero, della sospensione in un luogo indefinibile e ambiguo.
In questo lavoro fotografia, scultura, disegno e pittura s’incontrano a portare ad una soluzione ultima in cui, però, del lento processo creativo rimane solo una minima traccia…
Voglio che sia visibile solo in parte e mai del tutto, perché altrimenti perdo quel valore forte impresso dall’ambiguità visiva che, invece, cerco con determinazione. Non ho mai nemmeno esposto i plastici e i modelli originali: sono altri materiali che, da soli, disegnano e conducono ad altre storie. Se li accostassi alla fotografia invaliderebbero quell’enigmaticità percettiva che voglio sia evidente.
Quali sono, allora, gli interessi profondi che il tuo sguardo vuole restituire nell’opera finale?
Cerco di rimanere molto razionale, benché il mio lavoro si traduca poi in un qualcosa di intimo che sa trattenere lo sguardo nella solitudine e lo abbandona poi, all’interiorità silenziosa. Il nostro sguardo, quindi, si alimenta in spazi segreti, reconditi – nuovamente ambigui nella loro natura effimera e surreale – sempre in interni che si staccano dal resto del mondo. Sono luoghi di isolamento, di rifugio, di riparo che definiscono un altro universo. Sono spazi comunque definiti, seguono uno schema quasi rigido, perché non voglio lasciare spazio a chi guarda: all’osservatore non lascio scampo, non fornisco troppe aperture, non concedo vie di fuga.
Che ruolo ha l’uomo e la sua dimensione nella tua ricerca in cui spesso si vedono ambienti umani, ma dove la sua figura è emblematicamente assente?
Paradossalmente l’uomo torna ad essere elemento centrale anche nella sua assenza. Gli ambienti che descrivo sono fatti di “cose” che sono state vissute o che attendono di esserlo. Ci sono oggetti potenzialmente di tutti, disseminati in interni plausibili nella loro dimensione di vita quotidiana. Non c’è l’uomo, ma è come se, in fondo, ci fosse attraverso le sue tracce.
Su cosa stai lavorando? Quali sono interessi e gli impegni per il futuro?
Il mio impegno più grande attuale è l’arrivo di mio figlio! Mi preparo a diventare mamma. Mi sembra, poi, di attendere anche un nuovo percorso: forse potrei contemplare di ritornare al disegno e alla pittura per poi disattenderli e staccarmi da questi ancora una volta. Cerco la costruzione di una nuova sperimentazione che deve essere riflettuta molto prima di essere proposta.
BIO
Teresa Giannico è nata a Bari nel 1985. Si laurea in Arti Figurative all’Accademia di Belle Arti di Bari, si specializza in Disegno e Pittura maturando tuttavia un forte interesse per la scenografia e il teatro e avvicinandosi a poco a poco alla fotografia. Nel 2012 si trasferisce a Milano dove frequenta il Master in Photography and Visual Design presso NABA e lavora come assistente per i fotografi Paolo Ventura e Toni Thorimbert. Dopo avere esposto il proprio lavoro per la prima volta in occasione di Plat(t)form 2015 presso il Fotomuseum di Winterthur (Svizzera), è chiamata ad esporre il suo lavoro in occasione di Fotopub Festival a Novo Mesto (Slovenia) e Circulation(s) a Parigi. Nel 2015 è finalista al Premio Francesco Fabbri con il lavoro Lay Out. Da circa un anno e mezzo si dedica esclusivamente alla ricerca personale, concentrandosi nella realizzazione di nuove serie e progetti. Dal 2016 è rappresentata dalla galleria Viasaterna di Milano. Vive e lavora a Milano.
Info: www.viasaterna.com