Intervista a ELIZABETH ARO di Kevin McManus*
Abbiamo incontrato Elizabeth Aro lo scorso marzo in occasione della sua personale presso la Nuova Galleria Morone a Milano (20 marzo – 4 maggio 2018). È stata un’occasione per scambiare alcune opinioni con questa artista raffinata e profonda al tempo stesso, le cui opere spaziano da un disegno figurativo di grande abilità tecnica e un lavoro installativo concentrato sull’interazione e la specificità dei materiali, spesso di natura tessile. Dati i tempi che corrono, sia dentro che fuori l’ambito artistico, parlare con un’artista donna, straniera e pienamente consapevole della stratificazione culturale alla base del suo operare è stato estremamente interessante.
Ci puoi illustrare la mostra presso la Nuova Galleria Morone, in rapporto con il tuo percorso come artista?
Il titolo Brumas descrive uno dei due elementi di unità delle opere esposte, entrambi elementi che ricorrono molto spesso nel mio lavoro. Si tratta della “nebbia” intesa come quell’indistinzione originaria dalla quale può nascere qualsiasi cosa, e che si manifesta come una velatura che non lascia vedere le cose. L’opera che dà il titolo alla mostra ebbe origine durante un viaggio in Costa Rica, in una mattinata in barca durante la quale mi sentii immersa in questa atmosfera da primordio, nella quale sembrava che tutto il mondo potesse rinascere di nuovo.
L’altro elemento ricorrente, e messo in evidenza dalle opere qui esposte, è la mancanza di gravità, la sospensione: la nebbia appunto, le nuvole, la grande rete sospesa… Per me è una condizione che rappresenta l’arte, il mostrare un sospiro profondo che continua e si riecheggia. È una metafora della speranza e del piacere. Mi piace pensare al mio lavoro come ad un qualcosa di emozionante, ho ancora questa idea di arte che mi guida costantemente; l’idea, insomma, che l’arte abbia a che fare con la bellezza e con gli affetti. È proprio su queste basi che si articola il mio rapporto con artisti di altri ambiti, come Borges e Antonioni: dei dialoghi aperti che hanno a che vedere con l’uomo.
A questo proposito, si nota nella tua produzione l’intento di trattare temi universali e complessi (la memoria, il tempo, la migrazione, il viaggio, etc.) esclusivamente attraverso le forme, i materiali e gli oggetti, per così dire, evocativi…
Sì, certamente. Il tema del tempo e della memoria è reso nei disegni di Estudio de Nubes, una griglia di immagini di nuvole, nella quale ciascuna colonna segue l’evoluzione di una singola porzione di cielo, dal basso verso l’alto. Il tempo e la memoria sono questioni per me fondamentali, e sono strettamente associate al tema che mi è forse più caro, quello appunto del migrare. La grande Red Net, a questo proposito, vuol proprio evocare la condizione del migrante, di chi si ritrova a vivere lontano da casa. Io stessa ho vissuto per molti anni in questa condizione: è come camminare in equilibrio su una fune senza avere una rete di protezione sotto di te. Ecco, la mia rete rossa vuole essere questa rete, quasi che fossi io a cucirla non solo per me, ma idealmente per tutti coloro che si trovano nella stessa situazione, e provano gli stessi sentimenti. È un modo di prendersi cura, ma lo intendo soprattutto in senso psicologico e nostalgico, più che sociale.
Su lavori come Red Net, le posizioni della critica sono diverse; c’è chi ci vede un lavoro specificamente e dichiaratamente femminile, ad esempio. È un’idea che ti trova d’accordo?
Solo fino ad un certo punto: negli anni Sessanta, con il diffondersi del femminismo, il tessile è stato recuperato all’interno dell’ambito specifico dell’arte; dagli anni Ottanta, addirittura, hanno iniziato a servirsene come mezzo espressivo anche gli artisti uomini. Ma non ho mai inteso rendere omaggio a questa vicenda. Intendiamoci: sono femminista nei fatti, in molte scelte di vita, ma non è questo discorso simbolico a ispirare i miei lavori. Mi interessa di più mettere in evidenza la manualità, la pazienza e la ritualità del fare e del mettersi in ascolto dei materiali, della loro specificità. Per questo credo che funzioni il parallelismo tra la grande rete rossa e i disegni con le nuvole: in entrambi i casi il tempo e l’azione della mano sono messi a confronto con le proprietà dei materiali, ma anche con la loro simbolicità propria. La rete, ad esempio, può essere vista come una rete da pescatore, ma la scelta del materiale, un velluto pregiato, la nobilita e la rende universale. Cerco insomma, se così si può dire, un’eleganza “forte”.
Se ti guardi attorno, cosa osservi nel mondo dell’arte che ti circonda? Trovi risposte agli stimoli prodotti dal tuo lavoro?
Qui sì che la questione del femminile diventa importante. Mi hanno sempre ispirato le grandi artiste capaci di far sentire la loro voce, da figure storiche come Kiki Smith, Martha Rosler o Louise Bourgeois, fino ad alcune mie coetanee. Per loro essere donne è stato un ostacolo, ma hanno saputo vedere oltre e buttarcisi. Credo che la crescente importanza delle donne, in questo senso, costituisca un vero momento di unità, un vero “movimento” in una situazione che definirei “fin de siècle”, frammentaria e individualista. Spero solo, naturalmente, che non sia una moda passeggera, e che non venga sostituita da altre tendenze più deboli.
Per il resto, vedo un mondo dell’arte fatto di uomini eternamente adolescenti, nel quale si cresce poco perché, quando si è giovani, ci si vede perdonare tutto, anche la mancanza di studio della storia dell’arte e la sua principale conseguenza, ossia la tendenza a rifare il già visto, magari in buona fede. Ci vorrebbe una critica forte che si occupasse veramente di questo problema.
*Intervista tratta da Espoarte #101.
Info: www.elizabetharo.com