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MILANO | progettoarte elm | Fino al 20 aprile 2018

Intervista a ELENA MODORATI di Matteo Galbiati

Elena Modorati (1969), con la mostra Paia, in corso da progettoarte elm a Milano, dà una nuova prova della maturità profonda del suo lavoro che, qui, ritrova anche il modo per narrarsi in una consapevole, quasi toccante, intensità intima. Il suo pronunciamento, in questa personale, non si limita a seguire la coerenza filosofica che affiora (o affonda) nelle sue diafane opere in cera, questo progetto ha una coerenza complessiva che somma, in ciascun singolo lavoro, una logica di legame e interazione che rendono tutto l’insieme come sequenze di una storia che procede per capitoli. L’interezza delle opere rendono esplicito il loro silenzioso narrare che, nella peculiare sollecitazione mossa agli occhi di chi guarda, riesce a rinnovare il suo contenuto in ogni istante. Un’opera calda, intensa, forte e delicata quanto fragile e personale, in questa ampia intervista approfondiamo con l’artista i contenuti della mostra:

Elena Modorati. Paia, veduta della mostra, progettoarte elm, Milano Foto Bruno Bani, Milano

Elena Modorati. Paia, veduta della mostra, progettoarte elm, Milano Foto Bruno Bani, Milano

Questa mostra non è una semplice selezione di lavori recenti, ma è concepita come un unico progetto complessivo, dove tutto è coerentemente e intimamente legato. Su cosa hai lavorato? Cosa racconta Paia?
In generale, se ne ho l’opportunità, il mio approccio è sempre nei termini di un progetto unitario. Una mostra personale è una narrazione per immagini e un momento per tirare le somme, stabilire la propria posizione; niente di definitivo, ma un qui e ora che si dichiara con la maggiore lucidità possibile… Paia accosta la questione della relazione da un nuovo punto di vista, più legato al vissuto e, in qualche modo, all’etica. È in effetti un tema a cui lavoro da tempo, che mi si è presentato inizialmente  come implicazione fra lo sguardo e il mondo, successivamente, attraverso l’esigenza installativa, nei termini della relazione fra lo spazio e gli elementi in gioco, in seguito studiando l’opera di Giorgio Morandi, la specificità del legame fra luce, atmosfera o “polvere” e ruolo del singolo oggetto, conducendomi a produrre una serie di nature morte.

Del resto qui le opere sembrano spostarsi da una tensione meramente filosofica ad una più sensibilmente emotiva…
Sicuramente il sottotraccia di tutto il mio lavoro è il concetto di ambiguità, o la messa in forse della dimensione dell’identità così come comunemente la si presume. Restringendo il campo alla così detta “costituzione estatica” del soggetto, ci si imbatte in una presenza sempre dislocata che si istituisce, seguendo il filosofo Carlo Sini, nella simbiosi madre-feto: il battito cardiaco materno sancisce l’origine del ritmo – dove il primo tocco è da ascriversi a una perdita – e quella attitudine alla danza che è il primo sporgersi dell’umanità verso l’arte. D’altra parte, recentemente ho letto il fisico Carlo Rovelli: la scoperta, per me, folgorante è che la fisica quantistica indica che la materia non esiste al di fuori della relazione, ossia si realizza solo nel momento del salto in cui i quanti entrano in contatto… Dunque ad ogni livello del reale si riscontra una dinamica analoga, e questa è un’ulteriore questione…
Gli ultimi lavori, in effetti, provano a mettere in scena una dimensione più personale, di sentimenti e emozioni: proprio perché giocati dai medesimi meccanismi e, probabilmente, per la specificità del “campo”, questi lavori incarnano, mi pare, in maniera più plateale le stridenze, i contrasti dialettici, ma anche la difficoltà, per l’essere umano, di e nel percepire la propria condizione…

Elena Modorati, Traiettorie di lacrime, 2018, carta e pastello, 50x30 cm Foto Bruno Bani, Milano

Elena Modorati, Traiettorie di lacrime, 2018, carta e pastello, 50×30 cm Foto Bruno Bani, Milano

Ci racconti brevemente le opere che hai esposto?
Al centro della galleria, subito di fronte all’ingresso, un grande paravento bianco blocca la visione di chi entra; di fatto, girandoci intorno, rivela un ambiente raccolto in cui è collocato il profilo di un letto doppio, realizzato con anelli d’ottone che, fissati alla parete, scivolano sul pavimento in un inesorabile franare, punteggiato da rose cerate. Il titolo è Tenderness ring e nella mia idea si tratta dell’assunzione di un valore, nonostante non se ne celi la labilità. In qualche modo è lo sviluppo di una ricerca recente sull’etimologia del termine “sacro”, sul gesto che distingue, il recinto che include e esclude…
Il “recinto” della tenerezza è contenuto a sua volta dal paravento: un velo pudico e secco, razionale, scherma il profondo dell’intimità, la sua sembianza intensa, per me quasi barocca…
Un altro lavoro installativo è Prossimità e distanza, richiamo a un lavoro del 2011: composto da due cannocchiali che si fronteggiano vanamente, in cui si cerca di guardare l’Altro, l’Altro cerca di guardare a sua volta, ma i cannocchiali sono in realtà caleidoscopi e quel che ognuno vede, tappo, filtro, è se stesso, o la propria proiezione… È pur vero che sul terreno di questa “svista”, miopia o addirittura cecità, proprio perché condivisibile, può ancora nascere una possibilità d’incontro…
Parlerei poi di I’ll be your mirror, titolo musicale amato e preso in prestito: due sottili garze cerate rosa pendono dal soffitto sopra uno specchio che ne replica l’ingombro minimo. Marco Meneguzzo le ha intese come lacrime, di cui ognuno, sporgendosi sulla superficie specchiante e vedendoci i propri occhi, si appropria. Mi piace questa lettura, anche se io non ci avevo pensato. Per me sono due corpi, o lacerti o idee di corpi, e la sospensione,  come caduta e ascesa insieme, istantanee, mi sembra già un punto, che parla di instabilità e di effimero. Due corpi affiancati, paralleli, sono l’uno specchio per l’altro? O solo uno dei due svolge questa funzione? Che grado di reciprocità riusciamo a costruire in una relazione? Su cosa si fonda questa reciprocità? È empatia?… Qualcuno mi ha detto che questa scultura è inquietante, o drammatica. A me sembra, se mai, un po’ struggente.

Cere, acetati, naturalmente, ma anche ottone, rose, specchi, ferro verniciato, carte incise… Qui anche l’uso dei materiali sembra trovare una libertà differente, come se un’urgenza comunicativa avesse spinto verso scelte più spregiudicate…
In qualche modo è vero, non perché non mi sia già servita di materiali diversi, ma perché mi sono resa più permeabile, vulnerabile anche, allontanandomi da istanze formali che avevano smesso di corrispondermi.

Elena Modorati. Paia, veduta della mostra, progettoarte elm, Milano Foto Bruno Bani, Milano

Elena Modorati. Paia, veduta della mostra, progettoarte elm, Milano Foto Bruno Bani, Milano

Trovo affascinati, nella loro delicatezza effimera, ma potenti nella forza espressiva, le carte del ciclo Traiettorie di lacrime. Sono lavori “nuovi” per il tuo repertorio formale eppure non lo disattendono, restano coerentemente legati alla tua visione?
Il mio rapporto con la carta è di tipo scultoreo. La carta è un materiale che presenta una sua terza dimensione, per quanto minima. E anche in questo caso, nonostante non sovrapponga, come ho fatto in precedenza, carta a carta, ma mi limiti ad agire sul supporto, graffiandolo con una punta, in qualche modo lo scolpisco, determinando appunto un rilievo. Il fatto che mi ha convinta, dopo avere realizzato i primi pezzi, è stato riscontrare lo stesso doppio movimento – un po’ cortocircuitante – fra “figura e sfondo”, o immagine e supporto o primo piano e profondità, che si rileva nelle singole tavolette di cera. Una traccia, le lacrime appunto, non si deposita sul supporto ma ne emerge, sta quasi per staccarsene, o al contrario lo sfondo sta riassorbendola, riaccorpandola al suo indistinto brulicare…

Dolore o gioia, resta impossibile comprendere il motivo di questo lacrimare; sembri trattenere, quasi, la parte più personale di quest’opera: come ti rapporti con lo spettatore, quanto concedi di te e quanto vuoi che si attivi qualcosa dell’altro, di chi guarda?
Qualsiasi artista concede completamente se stesso, forse non tanto a un presunto fruitore, quanto all’opera stessa. Ma ciò non significa svelarsi in senso biografico, quanto esprimere una visione del mondo complessiva, che personalmente ha anche una forte connotazione astratta. Sono stata affascinata dalle lacrime come trasparente, diafano scambio fra interno e esterno, farsi letteralmente corpo, delicatissimo e potente, inarrestabile, delle emozioni, e mi ha incuriosita come le inclinazioni di una testa, i movimenti di un volto piangente, condizionassero la fisionomia delle lacrime, i percorsi del loro fluire… Il fatto che queste opere siano visibili solo a distanza ravvicinata mi sembra in ogni caso sintomatico dell’attenzione che un soggetto sensibile reclama e di quello che credo sia essenziale attivare.

Elena Modorati, I'll be your mirror, 2018, garza cerata, specchio, 200x170x10 cm (dettaglio) Foto Bruno Bani, Milano

Elena Modorati, I’ll be your mirror, 2018, garza cerata, specchio, 200x170x10 cm (dettaglio) Foto Bruno Bani, Milano

Hai anche introdotto un dialogo a due voci che attraversa i due ambienti della galleria. Cosa ci racconta questa opera? Come si lega al resto del progetto in cui c’è un’alternanza a due?
Due voci, una femminile, l’altra maschile, recitano in loop due frasi sul tema delle lacrime. Sono le voci dei filosofi Laura Odello e Georges Didi-Hubermann, che si occupano, e si sono direttamente confrontati, dell’argomento lacrime, avendo due differenti approcci alla questione. Laura Odello parla infatti della lacrima come eccedenza che si disperde scartando la logica economica della riappropriazione dell’esperienza, mentre Didi-Hubermann sottolinea l’apertura a un dolore universale della lacrima. L’inserimento di questo lavoro nella mostra funziona come eco di fondo, una specie di risacca, paradossale perché elemento eminentemente significativo, speculativo, appunto.

Parola chiave della mostra è “intimità”. Cosa significa per te? Come la racconti nei tuoi lavori?
Direi che l’intimità è il nucleo, il cuore irradiante di qualunque prospettiva, e credo si debba dichiararlo. Nel senso che ogni presa di posizione, pubblica e politica, o genericamente relazionale, è legata a doppio filo alla nostra interiorità, alla consapevolezza che ne abbiamo, all’onestà con cui la frequentiamo e, non ultimo, alla semplice capacità di viverla, di sintonizzarci sulle sue frequenze. Non smetto di pensare che fare arte sia in primo luogo un’interrogazione della questione del senso, che passa per innumerevoli percorsi: la riflessione teorica, l’esercizio estetico, la pratica manuale, la sperimentazione più ludica, la conoscenza e l’esperienza più varia della vita. L’intimità è un deposito mai inerte, che incessantemente filtra e trasforma, connette e soprattutto inclina, accenta, impone lo specifico tono che siamo e che è, per un lavoro artistico, la specificità del suo stile di linguaggio. L’intimità è la zona più autentica e sensibile di ognuno, il luogo delle riserve energetiche di matrice affettiva, di un mistero mai esauribile, il ventre fragile che custodisce il coraggio di scegliere.

Elena Modorati. Paia
testo critico di Marco Meneguzzo

1 marzo – 20 aprile 2018

progettoarte elm
Via Fusetti 14, Milano

Orari: da martedì a venerdì 16.00-19.30; sabato su appuntamento

Info: +39 02 83390437
info@progettoart-elm.com
www.progettoart-elm.com

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