EDITORIA | Johan & Levi
Intervista a VINCENZO TRIONE di Gabriele Cordì
È ormai noto che la figura del critico sia stata sostituita da quella del curatore. La critica d’arte è infatti destinata a una lenta eutanasia. Questo destino – scrive Trione – era stato intuito da Giorgio de Chirico in alcuni profetici scritti nell’immediato dopoguerra. Ma già nel 1913, nel manifesto dell’Antitradizione futurista, Apollinaire lanciava una provocazione con la frase “Mer…de critiques”. A più di cento anni di distanza, quel jeu des mots conserva intatta la sua vivacità. Affinché la critica d’arte possa ancora avere un senso, è necessario che torni alle sue ragioni originarie. Occorre abbandonare divagazioni e semplificazioni per recuperare l’artificio astratto dell’ekphrasis, ovvero raccontare come un’opera è nata e cosa rappresenta.
In questo spirito si inserisce il libro Armi improprie, edito da Johan & Levi nel 2024. Un volume che esplora la funzione, il ruolo e lo stato della critica d’arte in Italia attraverso un ampio corpus di saggi. Questi contributi, redatti da alcune delle voci più significative della critica italiana di diverse generazioni, esplorano momenti chiave del secolo scorso e testi divenuti classici della disciplina, la cui lezione resta tuttavia ancora attuale: da Roberto Longhi a Giulio Carlo Argan, da Carlo Ludovico Ragghianti a Germano Celant, da Renato Barilli ad Achille Bonito Oliva, da Gillo Dorfles a Lea Vergine.
Ogni saggio è il risultato di un approfondito lavoro di ricerca: l’insieme di questi testi offre numerosi spunti per futuri studi e approfondimenti, oltre a rappresentare un valido strumento didattico per chi si avvicina per la prima volta alla critica d’arte. Il libro è suddiviso in cinque parti, ciascuna introdotta da Anna Luigia De Simone. La prima parte, Per una biblioteca possibile, si propone di individuare le pietre miliari per una biblioteca ideale della critica d’arte. La seconda, Critica e storia dell’arte, esplora i rapporti e gli scambi tra le due discipline nel panorama intellettuale italiano del secondo dopoguerra. Particolarmente interessanti sono la terza e la quarta sezione, La critica sulle riviste e La critica sui giornali, che approfondiscono le esperienze di alcuni critici sulle principali riviste specializzate d’arte e sui quotidiani nazionali. Si pensi – ad esempio – a Gillo Dorfles sulle pagine di aut aut, Pierre Restany su Domus, Germano Celant su Casabella, Lea Vergine su il manifesto e Giovanni Testori sul Corriere della Sera. La quinta sezione, La critica degli artisti, è dedicata infine agli artisti che si sono cimentati nell’arte di leggere l’arte, talvolta anticipando la figura dell’artista-curatore. In un’epoca in cui la figura del critico viene costantemente messa in discussione, Armi improprie rivolge lo sguardo al passato per riaffermare il valore della critica d’arte nel panorama attuale, invitando a riflettere sul suo ruolo e sulla sua funzione. Parola al Professor Vincenzo Trione, curatore del volume.
Crede che sia possibile un futuro in cui la critica d’arte ritrovi la propria centralità? E quali condizioni o trasformazioni ritiene necessarie per favorire un tale ritorno?
Ritengo di sì. In Italia si è assistito a una sorta di lenta e progressiva eutanasia della critica d’arte, che dapprima è diventata un linguaggio eccessivamente concettoso, tautologico. Come diceva Umberto Eco, la critica è stata troppo al gioco di un’arte sempre più ermetica. Ciò ha determinato una sua progressiva marginalizzazione ed è stata sostituita da esperienze come quella della curatela, non molto lontane dalle ragioni originarie illuministe della critica stessa. È un declino evidente sotto gli occhi di tutti, che va avanti da circa vent’anni. Le grandi mostre sono affidate esclusivamente a curatori, i critici nel panorama italiano praticamente non ci sono più. Ritengo, tuttavia, che sia assolutamente indispensabile la funzione sia di mediazione della critica col pubblico, di lettura, di interpretazione delle opere, ma anche di giudizio. La critica resta una disciplina decisiva per capire, per distinguere – come sosteneva Robert Hughes – “le aquile dai tacchini” e non limitarsi a operazioni di mera manutenzione del presente.
In un contesto in cui l’intelligenza artificiale sta trasformando molti ambiti, crede che anche la critica d’arte possa essere in parte sostituita o influenzata da algoritmi e analisi automatizzate?
Assolutamente no. Credo che l’intelligenza artificiale possa sostituire tutto ciò che in qualche modo è seriale e prevedibile. La critica d’arte non è prevedibile, è affidata anche all’acume dell’ingegno, è affidata all’intuizione, alla capacità di scegliere. Spesso la critica d’arte deve anche porre in risonanza quello che sta succedendo adesso con le radici storiche, con le esperienze storiche. Diceva un grande e importante studioso del secolo scorso, Francesco Arcangeli, che tra critica d’arte e storia bisogna assolutamente immaginare che ci sia un legame indissolubile e che queste due esperienze si rafforzino a vicenda. L’intelligenza artificiale non può in alcun modo supplire, sostituire un atto che è profondamente “troppo umano”.
Ha più volte dichiarato che il suo modello di ispirazione è Giulio Carlo Argan. Quali altre figure occupano un posto rilevante nel suo personale pantheon della critica d’arte?
Sicuramente Argan resta un mio punto di riferimento, sia per la sua dimensione di teorico dell’arte sia per la sua capacità di costruire grandi racconti – e l’opus magnum della storia dell’arte in quattro volumi ne è testimonianza – ma anche per la sua vocazione istituzionale e politica: l’idea di declinare la storia dell’arte all’interno dell’impegno quotidiano, della pratica quotidiana, che ha portato Argan a diventare sindaco di Roma, il primo sindaco laico di una delle città più importanti del mondo. Sono arrivato ad Argan anche perché vengo dalla stessa scuola, che è la scuola dapprima di Lionello Venturi, poi di Argan, infine di Filiberto Menna, che ha rappresentato un punto di riferimento nel panorama italiano. Da questo punto di vista il mio maestro, che è Angelo Trimarco – morto da poco – è stato il primo allievo di Filiberto Menna; quindi è questa la mia tradizione. È un po’ la storia da cui provengo, che ho cercato tuttavia di arricchire con altri punti di riferimento. Ci sono diversi storici dell’arte, critici d’arte ai quali ho guardato con grande attenzione e che continuo a leggere. Sicuramente tra i maestri della storia dell’arte Panofsky è un autore che continuo a interrogare in maniera costante; Michael Baxandall è un altro autore che mi capita di rileggere frequentemente insieme a Joseph Rykwert, col quale ho avuto anche un rapporto di una certa consuetudine. Queste sono alcune delle figure con le quali ho avuto un rapporto più stretto. In verità, molto frequentemente mi capita di trovare interpretazioni più acute dell’arte in grandi scrittori o in grandi poeti o in filosofi che talvolta offrono delle chiavi ermeneutiche anche più originali: uno degli autori – sembrerà paradossale – che continuo a leggere e a rileggere sull’arte della modernità, è Milan Kundera, che per me è una sorta di grande stella polare. Ma sto parlando appunto di un autore che è fuori dal mondo della critica d’arte in senso tradizionale.
Il libro è dedicato a Lea Vergine e include numerose voci femminili. Qual è stato il ruolo delle donne nella storia della critica d’arte italiana?
Ho avuto un rapporto affettivo con Lea Vergine, di grande frequentazione. Entrambi siamo napoletani, entrambi ci siamo trasferiti a Milano. Lei era una donna che riuniva assoluta severità, talvolta con piccole punte di “cattiveria”, ma con una generosità intellettuale che raramente ho incontrato nella mia esistenza. Lea Vergine ha fatto un lavoro pionieristico. Si è interessata a temi che, devo ammettere, personalmente attraggono meno il mio interesse, ma il suo studio sulla body art, Il corpo come linguaggio, rappresenta un testo fondamentale. Parimenti, il suo libro L’altra metà dell’avanguardia, insieme alla mostra omonima, è veramente un lavoro che ha aperto un mondo, ha rivelato un continente. Ma ciò che più mi colpiva di Lea Vergine erano soprattutto due aspetti: il suo sguardo autonomo, ossia la capacità di assumere e prendere posizione rispetto al presente, e la sua capacità di usare la scrittura per parlare dell’arte. Credo che la pratica della scrittura sia una delle grandi eredità che ha lasciato Lea Vergine. È stata davvero una formidabile scrittrice sull’arte, anche se spesso ha rinunciato al grande affresco, alla grande narrazione, al grande libro. Aveva la capacità, in poche pagine, di condensare ritratti e idee. Nella critica d’arte, le donne hanno certamente occupato un posto di rilievo: Carla Lonzi, ad esempio, è un nome che sta tornando ampiamente in auge. Confesso, però, di non avere il mito di Carla Lonzi. Ne riconosco l’importanza, l’intelligenza, l’originalità e l’influenza della matrice longhiana, ma non arriverei a collocarla nel mio personale Pantheon.
Esiste ancora oggi, secondo lei, una critica militante? E se sì, dove può essere trovata e come si manifesta rispetto al passato?
In Italia non c’è più una critica militante. Ci sono pochissime voci isolate. Spesso per trovare chi fa critica d’arte nel nostro paese occorre guardare fuori dal mondo della critica d’arte tradizionale. Può capitare di incontrare letterati, filosofi, scrittori che esercitano questo lavoro nella maniera più raffinata, acuta, indipendente. Penso a filosofi come Emanuele Coccia, a scrittori come Melania Mazzucco ed Emanuele Trevi, penso a letterati come Andrea Cortellessa. Probabilmente sono quelle le figure che spesso hanno ancora la capacità di misurarsi con l’opera d’arte. Il vero bersaglio mancato della critica d’arte contemporanea è proprio il confronto con l’opera stessa: si parla d’altro e non si parla dell’opera.
Che consigli darebbe a un giovane che desidera intraprendere questo percorso?
Due consigli. Il primo: non basarsi su quello che trova in rete e andare a vedere direttamente le opere. L’arte, per essere capita, va studiata con calma. Bisogna tornare sempre sugli stessi dettagli, guardare e riguardare, approfondire, avere un confronto visivo con la scrittura dell’opera, che si dà sempre come un congegno linguistico, semiotico, capace di aprire sempre spazi sull’alterità. Il secondo consiglio, assolutamente decisivo: leggere tutto quello che è “intorno” all’arte. Questa è sempre stata una mia prerogativa, paradossalmente: leggere meno libri di storia dell’arte e leggere più libri che riguardassero la letteratura in primis, la filosofia, la teoria dell’arte. Spesso sono le cose in qualche modo esterne che arricchiscono, offrono chiavi interpretative molto decisive per capire un’opera. Era il consiglio che dava spesso Cesare Brandi: lui diceva che bisogna dedicare metà giornata alle letture utili, l’altra metà giornata alle letture “inutili”, nella consapevolezza che quelle letture inutili ti consentiranno davvero di capire l’opera d’arte. Poi ci sono altri due elementi per me fondamentali: il primo, saper guardare. Saper guardare un’opera d’arte è un esercizio che richiede tempo, attenzione. L’altro aspetto fondamentale è la cura della scrittura, che non è elemento accessorio: non penso alla pura prosa d’arte, che ha pure una tradizione importante in Italia da Emilio Cecchi a Roberto Longhi a Francesco Arcangeli. Penso proprio alla capacità di trovare la parola giusta, l’aggettivo esatto, per far rivedere – a chi sta leggendo un testo – l’opera che noi abbiamo osservato. Ecco, la cura della scrittura mi sembra un elemento fondamentale. È quella grande tradizione dell’ekphrasis che ritengo assolutamente dimenticata, rimossa, ma dalla quale è fondamentale ripartire per leggere un quadro, una scultura, ma anche una performance, un happening, un’installazione o un film. Credo che la pratica dell’ekphrasis, che è una pratica difficile, destinata sempre a essere fallimentare e deviata, sia davvero uno degli esercizi che suggerirei.
Info: www.johanandlevi.com