Intervista a VINICIO E MARIANGELA CAPOSSELA di Tommaso Evangelista
Le Ombre nell’inverno del nuovo tour di Vinicio, l’ultima performance a Lione Tes mains mes mains di Mariangela e in mezzo la follia creativa dello SponzFest in Alta Irpinia. Per la prima volta fratello (V. C.) e sorella (M. C.) Capossela, entrambi artisti ma con linguaggi diversi, dialogano in un’intervista densa come le loro opere e, per la prima volta, descrivono ognuno un’opera dell’altro alla quale sono particolarmente legati. Ma scriverà Vinicio in conclusione «Posso assicurarvi che la vera artista in famiglia è Mariangela, che sa realizzare con l’arte un pensiero chiaro, forte, una necessità».
Per iniziare questa intervista a tre, più una conversazione che un gioco di risposte, vorrei cominciare dal territorio, l’alta Irpinia, ovvero dai luoghi della vostra infanzia e che ora accolgono quella lucida follia collettiva che è lo Sponz. Proprio recentemente penso all’appello per salvare le casette post-sisma del 1930 di Aquilonia, segni preziosi di un passato complesso e “tremante”. Sono luoghi che smarriscono la memoria, che si dissanguano delle tracce della storia subendo distruzioni, delocalizzazioni e ricostruzioni. A tutto ciò cercate di porre una toppa con l’arte e con la musica, spesse volte fondendo i linguaggi e lavorando su proposte al limite tra performance, teatro di strada, installazione. Come nasce questa dichiarazione di amore e qual è il vostro legame col territorio e la sua gente?
V. C. In quelle terre non sono cresciuto io, ma la mia parte rovescia. Quella che non si vede. Non la realtà, ma una verità più inconoscibile. Il luogo dell’illo tempore. Una specie di infanzia del mondo dove le bestie parlano, e la saggezza millenaria sta nelle bocche più improbabili. Dove Tiresia lo trovi su un tre ruote Piaggio, ti lascia una sentenza apparentemente incomprensibile e ti abbandona. Dove nessuno ti parla chiaramente e la terza domanda che segue il “chi siete, da dove venite, a chi appartenete”, è sempre – quando ve ne andate? – Un luogo selvatico dove ci si nomina per l’animale guida e le danze hanno un grido di battaglia. Magari non c’è più niente, ma l’Eco è vivo e produce effetti a fermarsi e ascoltare. Bisogna agire con cautela, come rabdomanti. C’è il male, e c’è il bene, ma l’arcangelo Michele non li ha mai divisi con la sua spada. Il luogo epico in cui urlare epicamente, inascoltati.
M. C. L’immagine del rattoppare con l’arte credo che calzi bene per evocare il gesto di sutura di un trauma. Perché forse di questo si tratta nello Sponzfest. L’Irpinia è un territorio strappato, lacerato socialmente, economicamente e culturalmente. Quello che si è smarrito, ancor prima della memoria, è la componente umana: quanti sono partiti da dopo l’unità d’Italia? Con cosa è rimasto chi è restato? Le macerie dei vecchi borghi distrutti dal terremoto sono una traccia da preservare, sono l’immagine intatta delle macerie delle origini, un’eco delle macerie di un’intera cultura, quella contadina, andata in frantumi. Se ne dovrebbe forse fare un’istallazione formato gigante sulla falsa riga di Lygia Pape. Ma un monumento non è quello che serve. Serve agire vitalmente, serve esserci. L’lrpinia si fonde alla larga “questione meridionale” che ha tanti tratti in comune con le questioni postcoloniali che non per niente tanto si sono ispirate a Gramsci. È una terra che fa questione! Prima del festival pensavo spesso ad una matassa, cercavo il modo di approcciarla per capire. Ma è da così tanto tempo che se ne fa “una questione” che la matassa è diventata indistricabile. Così ho smesso di voler trovare il filo che spiegherebbe tutto. Non c’è da capire, c’è da viverla, di questo ha bisogno una terra. E questo è il “miracolo” che lo Sponzfest è riuscito finora a compiere attraverso la festa. La musica per fare festa ha molto da insegnare alle arti visive in quel suo porsi nell’immediatezza e nel coinvolgimento fisico positivo. L’arte contemporanea ha tendenza a chiedere sempre un passaggio mentale in più, è esigente. Dal confronto benefico con la musica credo possa venire un atteggiamento più teso verso la comprensività. Un non fare “a prescindere”. Per fare con gli altri e creare un legame non si può prescindere dal rimettersi in questione e gestire l’esigenza in un arduo esercizio di equilibrismo.
Il progetto di Vinicio per Calitri ricorda molto la Ricostruzione futurista dell’universo per quella volontà di dare carne all’invisibile, all’impalpabile, introducendo l’arte nello spazio urbano. Ricostruire e rivoluzionare, allargare la dimensione dell’opera da quella di un concerto a quella di un ambiente con un’idea sottile di tradizione che aleggia come una condizione sospesa e fluttuante. Entrambi avete contribuito a questo progetto visionario. Guardando allo sviluppo futuro immaginate la cosa più assurda o il progetto più impossibile che vorreste (utopicamente) realizzare.
V. C. L’opera ha perso definizione e forma. Wilde diceva che la vita più che la letteratura, avrebbe dovuto essere l’opera d’arte. Opera è il paesaggio, il basso continuo che ci sottende. Opera è il poema che si spande in una conversazione. Opera è il momento fugace e non il monumento destinato a celebrarlo. Soprattutto in Alta Irpinia, dove il cielo non è mai fermo e nemmeno la terra, che selvaticamente si scuote di dosso le opere dell’uomo. Come opera impossibile mi immagino una polifonia di voci, che parlano, che recitano la storia della loro vita, come facevano le prefiche attorno al cadavere. Una lamentazione collettiva potente, sciamanica, che riassuma le proprie vite e le esponga al vento. Una lamentazione che cauterizzi, esorcizzi e spazzi via la lamentela, che l’ha sostituita nella vita quotidiana. Una deposizione al cielo e al vento dell’opera della propria vita, inascoltata, inutile, e per questo sacra.
M. C. Più che di ricostruzione penso si tratti di “ricreazione” e di “riscoperta”. Come hanno scritto e detto tanti prima di me, lo Sponzfest può essere considerato come un esempio per un ritorno alla terra. Ritornare alla terra è riavvicinarsi alla terra da dove si viene tutti indistintamente, è riavvicinarsi alla terra come relazione con quello che si chiama a volte paesaggio e che al catechismo chiamavano il “creato”, ritornare alla terra è riscoprirsi creature nel creato, ovvero bambini che si divertono (crjature e ricreo in dialetto). Riscoprire è riuscire a vedere la terra in altro modo per ricrearsi, divertirsi ma anche reinventarsi. Quello che questo evento culturale ha prodotto attiene dunque ad un ritorno alle origini inteso in senso largo. Ritorno come fine dell’assenza (si parla sempre dell’Irpinia come terre dimenticate), e origini come una domanda senza risposta che spinge a reiterare la festa per ritmare un ritorno collettivo che è anzitutto ritorno verso sé stessi, sia per gli abitanti che per gli “accappanti”, altrimenti detti “ospiti”. Un ritorno che non è mai definito né definitivo, ma che va cercato nella ripetizione. Inserita in quest’orizzonte di Festa, l’arte è messa alle strette dalla festa, è obbligata a ricrearsi, a reinventarsi un modo per essere efficace. In questo contesto i monumenti saranno solo monumenti di vissuto e il palcoscenico il paesaggio intero. I contenuti saranno quelli di un orizzonte in cui liberare lo sguardo e racchiuderlo al tempo stesso. Per questo c’è largo spazio per l’utopia, perché in quel contenimento ci sono i limiti che a volte ho avuto voglia di strappare. Il velo per esempio l’ho immaginato a lungo coperto di sangue…ho desiderato organizzare un corteo con il fedelissimo gruppo di donne tutte nude. Ma sono felice di non averlo fatto. L’utopia sarebbe esportare il velo dal campanile di Andretta alla torre del Municipio di Lione (dove vivo) e unirvi veli di donne musulmane per sospenderli dal santuario della laicità. Ma credo che dovrò aspettare ancora una cinquantina d’anni.
La civiltà rurale con la quale ultimamente vi confrontate è feroce ma toglie il senso della colpa, non consente di scegliere quasi mai. La dimensione magica nasconde a volte situazioni liminari, borderline, di confine, per l’individuo e per la collettività, un aspetto perturbante o di perturbabilità che si percepisce vagamente nelle vostre ricerche. In cosa consiste questo vostro guardare oltre la soglia?
V. C. La dimensione magica era probabilmente la sola via di fuga dalla costrizione sociale. Hai detto bene, la civiltà rurale, la piccola comunità in cui non ci si può nascondere, è feroce. Antropofaga come la famiglia, che si nutre dei suoi stessi componenti. Non c’è niente di idilliaco o rassicurante o salvifico da trovare, soprattutto ora. Ora che resta la claustrofobia sociale ma alienata dal linguaggio, dalla tecnologia e dalla separazione contemporanea. Nuove miserie hanno sostituito le vecchie. Cristo ha passato Eboli, ma ci è arrivato con la telespazzatura e le slot machine nei bar deserti. Dunque resta vitale e necessaria la necessità di oltrepassare quella soglia. Molti sono i modi, una volta c’erano le pratiche magiche, il tarantismo, la possessione estatica, ora ci sono le droghe, la rete, i farmaci, il suicidio, la fuga. Passare la soglia da soli si può sempre, il problema è come assicurarsi un ritorno fra gli uomini. A questo anche può essere utile l’arte, come pratica e strumento di attraversamento. L’arte è ogni cosa, l’arte della vita, l’arte della gioia, l’arte della cura.
M. C. Della cultura contadina rimangono macerie, tracce sparse a terra e in cielo, con braci appena rilucenti che col giusto alito prendono vigore e cercano nuovi modi per coltivare. E sicuramente con margini di scelta più elastici rispetto al passato. Il destino della dimensione magica invece mi pare molto più fragile e credo che proprio in questa zona l’arte possa soffiare sulle braci. Il territorio nel quale mi sento di poter interagire ha più attinenza con un aspetto collaterale al mondo magico, che non ho avuto modo di frequentare molto, mi parrebbe di dover fare una vera archeologia per riconoscerlo. A margine del magico mi accontento dell’incanto, di quella sospensione dalla funzionalità della realtà manuale o virtuale che sia (valido per il contadino e per i nuovi schiavi delle ICT). La mia tensione è rivolta verso una sorta di tregua dall’utile, per incantarsi che vuol dire anche bloccarsi in una sospensione. Questo vorrei essere in grado di creare. Allo stesso modo, credo che per me avvenga qualcosa di simile nella concezione di un’opera. Oltre la soglia come tu dici, ci sono immagini completamente incontrollabili, irrazionali, che vengono da lontano e che bisogna afferrare velocemente e mettere al sicuro, nutrirle, cercare per loro un habitat adeguato affinché non muoiano. E ognuna di loro cerca qualcosa di diverso, che obbliga a trovare nuove soluzioni. Volendo, queste immagini somiglierebbero a creature della cupa, come le chiama Vinicio riprendendo le leggende locali. Un po’ si somigliano, perché queste scintille dell’immaginario vengono forse tutte dalle zone d’ombra, dalle grotte preistoriche dove i primi artisti quasi certamente non disegnavano con uno scopo utilitario. Quindi sì, preferisco pensare il mondo magico più come una zona della creatività che come un contenuto delle opere, che per l’appunto si generano da schegge incontrollabili.
Le ombre dell’inverno, i cerini di Sante Nicola, santi improbabili e patronati assurdi si scorgono tra le pieghe del nuovo tour di Vinicio. È un richiamo alla presenza verso un pubblico che ha smarrito il fascino dell’attesa. Scriveva Kundera “C’è un legame stretto tra lentezza e memoria, tra velocità e oblio”. Cos’è per voi la memoria e cosa, oggi, dobbiamo salvare dall’oblio?
V. C. Memoria, Mnemosine, è la madre delle muse. Quasi a significare che il ricordare, il meditare sia il principio del creare attraverso la fantasia. Nell’episodio omerico, i morti riacquistano memoria e parola bevendo il sangue offerto loro in sacrificio. È un’immagine molto forte questa che la parola, la memoria ci venga data a prezzo di un sacrificio. Memoria e sacrificio sono collegate nel sangue. Ma cosa si può dire memoria oggi, che le informazioni che incameriamo hanno subito una vertiginosa accelerazione? C’è un nuovo tipo di memoria istantanea e allo stesso tempo la necessità di cancellare continuamente il superfluo. Quindi ognuno impara da sé, in maniera più o meno cosciente cosa va eliminato. È come se la memoria abbia preso un’elasticità differente nel quotidiano, e però si sia perso il contatto con una memoria più antica, più oscura, immemore appunto, che è la memoria della nostra anima, il territorio in cui avvengono i grandi ri- conoscimenti.
M. C. Mi fai venire subito in mente una frase della straordinaria cantante messicana Chavela Vargas, che bisognerebbe ascoltare detta da lei con quella voce roca e la cadenza della sua lingua: “el amor dura un rato, el olvido es laaaaaaaarguísimo” (l’amore dura un attimo, l’oblio è vastissimo). Direi dunque che vorrei salvare l’amore, ma è una parola consunta, esangue, che non ce la fa più a contenere tutto quel che si vorrebbe farle dire. Sono andata troppo veloce e sono già arrivata alla fine della risposta! Avevo paura di dimenticare la frase di Chavela! Forse l’oblio non è solo una conseguenza della velocità ma anche della paura. Si può vivere nella lentezza e dimenticarsi di tutto, di questo posso testimoniare in prima persona! No, credo che la memoria vada salvata dalla voracità del tempo che, come canta sempre Chavela, è divoratore delle cose preziose, per definizione sempre troppo brevi. È la capacità di prendersi cura che va salvata e che ci salva dall’oblio. Ed è la stessa capacità che sta alla base dell’arte, in modi certo diversi per ognuno e per ogni arte ma che per tutti dovrebbe andare verso una condivisione. Come la memoria che è un piatto da condividere, che diventa fertile solo se messa in comune generando ramificazioni arricchite da ogni variante personale. L’attesa è ancora un altro vasto capitolo…che ho cercato di esplorare in alcuni lavori collettivi. Il mio “Monumento all’attesa” resta per me il grande incompiuto, con un gran senso di frustrazione dovuto proprio alla mancanza di tempo. Ma forse, come dice Vinicio, preferisco aspettare piuttosto che finire un’opera che non corrisponde alle attese!
L’attesa,
È un inganno l’attesa
Ma, preferisco l’attesa
È più dolce che non vederti tornare
“Impara l’arte e mettila da parte”: sporcare e contaminare, velare, come il Cristo di Sammartino, e stupire, non perdendo mai la sincerità del fingere. Mi pare che la vostra arte celi spesso la struttura e la forma per cercare una strada alternativa che possa arrivare più velocemente al cuore. La felicità consiste nell’immaginazione?
V. C. Il velo, antico complice della lontananza, il mago Wonder che ti fa sempre vedere che il trucco c’è e si vede, la lingua sporcata col dialetto, la musica mischiata nei generi…sono stati tutti ottimi compagni, al servigio dell’unica cosa che dovrebbe contare: la meraviglia. Non so l’immaginazione, ma di sicuro la meraviglia, se non la felicità ci dà lo stimolo per aprire una porta, per svelare, per riconoscere. Tutto nasce dallo stupore, dal meravigliarsi, per questo che trovo ancora attuale e vitale nell’arte il proponimento di realizzare la sospensione dell’incredulità.
M. C. L’arte non può far altro che giocare con le cose serie, ma come per i bambini, quei giochi sono questione di vita o di morte.
Vorrei proporvi, per terminare, una domanda “crossover”. Provate a descrivere ognuno un’opera dell’altro alla quale siete maggiormente legati per affinità stilistiche, poetiche o personali.
V. C. Posso assicurarvi che la vera artista in famiglia è Mariangela, che sa realizzare con l’arte un pensiero chiaro, forte, una necessità. Personalmente brancolo a tentoni, e non saprei spiegare che la superfice delle cose, Mariangela sa da dove nasce una esigenza, conosce il trauma, e prova a evidenziarlo e anche a curarlo in maniera catartica e collettiva. Sentirla parlare, sentirla coinvolgere persone completamente lontane dall’arte studiata nelle accademie, tirare fuori da loro la Grazia, la naturalezza e fare insieme opere come “L’esposizione del lenzuolo” o ‘Il velo della sposa”, o “Il monumento all’attesa” è stata una esperienza davvero toccante. È la forza del pensiero che sorregge l’azione, e quella azione che sa diventare opera grazie a una straordinaria vocazione all’uomo, a una limpida umanità.
Provo però a parlare di un’opera più personale: “”, questo cucire con estrema pazienza strappi e luoghi mi tocca particolarmente. Mi pare che l’uomo per procedere nella conoscenza, nel fare esperienza della vita debba continuamente sottoporsi a strappi, a lacerazioni, a separazioni. E in questo consiste la sua cacciata dal giardino. Quelle cuciture, quelle suture, come il lavare ai piedi ai migranti, sono un atto di grande compassione umana. Quel tingere le lenzuola di colori a smacchiare via così il rosso del marchio di Caino, è un atto di com-passione. Portarsi addosso e farsi carico di una pena precedente e collettiva. Un modo di riscrivere il mondo che non può fare a meno di portarsi sulla pelle la cicatrice dei propri errori, e dell’errare che ne è conseguenza. Ecco, l’arte di Mariangela in ogni sua opera lava i panni di una pena originaria, gli fa togliere pesantezza e a volte, oltre la sutura, gli fa prendere anche il volo. È arte ri-creativa. Crea le cose una seconda volta, quando al creatore la prima volta è andata male.
E dona così il Ricreo, che in dialetto calitrano è come il dio Pan, (appetito, fornicazione, riproduzione, divertimento, danza) …tutto quello fa andare la vita oltre sé stessa.
M. C. Per descrivere un’opera bisogna sceglierne una, e per scegliere va trovata una definizione d’opera adatta a Vinicio. Non è semplice, perché è opera un progetto discografico, è opera uno spettacolo, è opera una canzone, un video clip, un libro, un film, lo Sponzfest poi è un’opera “totale”. Dovendo proprio scegliere nel suo mondo polimorfo e variegatissimo, mi azzardo ad evocarne una, minore e proprio per questo interessantissima per osservare il genio tutto suo di riportare alla luce le cose in ombra ed incarnarle cristicamente. Si tratta di Fuggite amanti amori, quel sonetto di Michelangelo trasformato in una canzone. Quando la ascoltai la prima volta, come per tante altre sue opere restai sconcertata per la bellezza e l’intensità. E la fruizione dal vivo fu ancora più stupefacente perché aggiungeva l’elemento performativo con quel dibattersi nella camicia di forza. Credo oggi che ciò che rende particolarmente potente il Fuggite di Vinicio siano diversi elementi riuniti. Dapprima la sintesi che la forma della canzone permette: concentrata in pochi minuti una canzone ha il potere di ricomporre un mondo e metterne in scena la sua fine. Quindi potremmo dire che parte avvantaggiato! Ma la forma sola non è che un modulo teorico vuoto…Qui si fa carne, presente ma anche fantasma che viene a rivisitarti con la melodia che resta in mente. Il fulcro che ne fa opera è il riportare nel presente, nella contemporaneità qualcosa di dimenticato nel passato. Ma dimenticato in modo particolare …I sonetti sono ombre nell’opera di Michelangelo, rispetto alla monumentalità della sua scultura e pittura ma anche rispetto a ciò che la Storia ha scelto di ricordare di lui, maestro dell’indefinito, del velato, della lotta tra luce ed ombra, lotta tra realtà e intangibilità. La scrittura di Michelangelo è al margine e fragilissima per ragioni che hanno a che fare col genere, genere inteso come genere letterario e quindi artistico e genere come identità sessuale che qui si intersecano e ne enfatizzano la portata. Vinicio scegliendo di riportare alla luce i Sonetti, compie un gesto artistico a più livelli. Sceglie di mettere in primo piano il vissuto che è e deve restare sempre in ombra nell’arte, poiché l’opera è d’arte se c’è trasformazione, rivoluzione cambiamento di stato di quel vissuto. Ma scegliendolo, raccogliendolo da terra, togliendolo dall’ombra, si decide di metterlo in primo piano. Fuggite amanti non è un esercizio poetico per Michelangelo, almeno non lo è più definitivamente quando lo ascoltiamo cantato da Vinicio. Il tormento d’amore ci restituisce Michelangelo uomo, ci fa re-immaginare la sua esistenza, non per banalizzarla bensì per universalizzare un vissuto che l’arte riesce a trasformare. Il modo poi che Vinicio sceglie per fare rivivere questo sonetto è altresì rappresentativo di questa sua arte di fare convivere le epoche, di metterle insieme e creare polifonie temporali ed esistenziali: strumenti antichi, una base tecno ipnotica e la sua voce.
Cose simili succedono anche in altre canzoni-opera, come Le pleiadi o La bestia nel grano, per citarne solo alcune. Mondi lontani riportati alla luce per vivere una nuova e diversissima vita.