RIVOLI (TO) | Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea | 22 aprile – 1 settembre 2013
Intervista a MARCO SCOTINI di Francesca Di Giorgio
In una lunga intervista Marco Scotini racconta il progetto in progress che segue da ormai dieci anni, che ha girato il mondo e che da aprile è approdato al Castello di Rivoli per restarci fino al 1 settembre…. Disobedience Archive (The Republic) è, quindi, un ulteriore display che permette di dare forma (e contenuto) ad un progetto sulla disobbedienza come pratica artistica a metà strada tra l’estetico e il politico. Ma non lasciatevi distrarre dalla parola “archivio”, coltivata da Scotini in tempi non sospetti, il punto è un altro e ce lo spiega il curatore…
In un progetto dove i contenuti sono realmente al centro del discorso, e spesso fanno parte di una realtà vissuta molto prossima, che valore assume la forma con cui presentarli? In quest’ultimo caso… Perché proprio l’immagine del Parlamento “disegnato” da Céline Condorelli per dare voce alla Disobbedienza? Perché proprio ora a Torino dopo un lungo tour internazionale iniziato a Berlino nel 2005?
Diciamo che, nel caso della mostra Disobedience, il “che cosa” delle opere e dei materiali esposti non è indipendente dal “come” della loro messa in scena. Ne parlavamo recentemente con Céline Condorelli, che non solo ha disegnato per Rivoli il display di Disobedience ma è anche ritenuta un esperto di allestimento espositivo a livello internazionale, grazie al suo libro ben noto Support Structure. Proprio Céline diceva che in assoluto Disobedience è l’unico caso di mostra che non può esistere senza display. Per questo, negli anni, il progetto ha presentato gli stessi materiali, ogni volta accresciuti, in modi differenti che si adattavano a contesti e narrazioni che non erano mai le stesse. In un caso la forma era una chiara citazione del padiglione sovietico di El Lissitzky per la mostra di Stoccarda su Film e Foto del 1928. In un altro caso si presentava come un orto comunitario che attraversava in lunghezza l’intero edificio del MIT di Fumihiko Maki a Boston. In un altro ancora, aveva la struttura cellulare di un panopticon che si insediava in un edificio di Zagabria, che dal ’38 ha cambiato continuamente funzione: da museo della resistenza a moschea, a padiglione per l’arte contemporanea. Ma se ci chiediamo perché Disobedience non tratta il display come un semplice accessorio, la risposta è immediata: Disobedience cerca di dare una forma a qualcosa che non ce l’ha per statuto e che, per di più, rifiuta i modi della rappresentazione e della rappresentanza. Dunque come dare forma a qualcosa che recalcitra ad essere condensato in un’unica formula, che è inarchiviabile, che sta dentro l’estetica e la politica ma non aderisce completamente a nessuna delle due? La mia idea curatoriale è stata quella di offrire ogni volta una possibile configurazione temporanea dell’esposizione che fosse negata la volta successiva. Ecco perché con Condorelli abbiamo scelto, nel caso di Rivoli, un podio parlamentare con due anticamere e l’abbiamo denominato “Repubblica”. Siamo andati a toccare una struttura che sta al cuore stesso dell’idea di rappresentazione in occidente: prima con il teatro greco, poi con il parlamento. Naturalmente si è trattato di giocare con uno dei simboli della modernità, cercando di rovesciarlo: in arte si può fare. Certo qualcuno potrebbe pensare che l’arrivo a Torino (dopo circa dieci anni dalla presentazione della mostra a Berlino) può ricordarci il primo parlamento italiano e l’unità d’Italia, ma non è così. Abbiamo assunto Torino come il luogo di nascita di Autonomia, delle rivolte operaie contro la Fiat, ben schematizzate nel film di Godard che apre l’esposizione.
Disobedience Archive nasce dieci anni fa. L’hai inteso da subito come un archivio in progress o la sua natura è cresciuta seguendo canali sempre diversi?
Fin da subito il progetto intendeva essere aperto, itinerante e in progress. Diciamo che l’obiettivo era quello di creare ricomposizioni temporanee in cui al centro c’è l’idea stessa di movimento. All’inizio il progetto si chiamava “ongoing videolibrary” e già a Berlino si annunciava come qualcosa che avrebbe viaggiato trasformandosi. Non sospettavo allora che solo dopo qualche mese Disobedience sarebbe stata invitata alla Sala de Arte Público Siqueiros a Città del Messico e poi al Van Abbemuseum di Eindhoven. Senza aver mai cercato di esportarlo l’archivio è sempre stato ospitato in tantissimi luoghi e, anche nel caso di Rivoli, è stato possibile realizzare la mostra grazie a Beatrice Merz che aveva visto Disobedience al Bildmuseet di Umeå.
Come vedi il tuo progetto inserito nella “tendenza” archivistico-tassonomica che, in parte, percorre il Novecento (penso alle avanguardie e non solo) e che sembra rispondere, ancora oggi, ad un desiderio di controllo, raccolta e compendio delle immagini del mondo (vedi il Palazzo Enciclopedico di Gioni)?
Disobedience nasce dieci anni fa quando ancora questa tendenza tassonomica in arte non aveva assunto l’aspetto preminente che riveste oggi. Mostre importanti incentrate sull’archivio come Interrupted Histories (curata da Zdenka Badovinac alla Moderna Galerija di Ljubljana) e Ground Lost (del collettivo WHW al Forum Stadtpark di Graz) sono del 2007, successive a Disobedience, ma è a partire da Archive Fever di Okwui Enwezor, nel 2008, che questo fenomeno si è incrementato a dismisura fino al Palazzo Encliclopedico come ultima manifestazione e glamour, all’interno della pratica contemporanea, di una superficiale proliferazione visuale dell’archivio e dell’accumulo che viene semplicemente messo in scena come qualcosa di cristallizzato, di fossilizzato. Ma c’è anche un’altra differenza radicale tra l’idea della sistematizzazione enciclopedica e quella dell’archivio: quest’ultimo ha un carattere empirico, pratico e la sua esistenza è sempre temporanea. Non si tratta solo di contare, quindi, ma di raccontare, ogni volta in modo differente e discontinuo, relazioni di potere, di sapere e di soggettività. L’archivio Disobedience è uno strumento comune per la pratica artistica e la mobilitazione antagonista che mostra molte più affinità con i progetti di archivio di Brian Wallis e Julie Ault o con le timelines di Group Material. Oppure con il Mezbau di Schwitters. Ma, detto questo, dietro Disobedience c’è una volontà nuova di de-archiviare e re-archiviare continuamente, secondo modalità precarie, contingenti e mai definitive.
Disobbedire è una forma di potere?
Se vuoi, potremmo definirla una forma di contro-potere. Disobbedire non è una pratica politica, neppure lungo tutta la modernità lo è stata e la disobbedienza civile è stata una proposta teorica recente ma che rimane tutta dentro le coordinate legislative. Quando oggi usiamo il verbo “disobbedire” abbiamo più a che fare con una pratica affermativa, con un’idea alternativa di negazione che è fondamentalmente propositiva, costruttiva, creatrice di possibilità inedite, non ancora codificate, non ancora catturate. Se gli artisti avessero potuto costruire nella realtà quello che esponevano nei musei, la nostra idea di disobbedienza sarebbe più chiara e familiare.
La disobbedienza come pratica artistica. Ci sono artisti, teorici, che hanno “fatto scuola” in questo senso?
Diciamo pure che la non-obbedienza ai canoni è stata la prima condizione dell’estetica secessionista dall’Ottocento in poi. Ma la disobbedienza sociale è una forma di empowerment rispetto a come l’uomo può progettare le condizioni della propria esistenza: non più agire esclusivamente sul piano dell’immaginario ma su quello dell’azione concreta. La disobbedienza, la defezione e la protesta hanno rappresentato, sia nei processi culturali a vocazione antagonista che nelle pratiche di lotta, uno spazio d’azione comune, un nuovo terreno di confronto politico, rintracciabile nella genealogia della modernità, attraverso forme di dissenso. Artisti e attivisti come Marcélo Exposito hanno addirittura parlato della disobbedienza come una delle Belle Arti e, insieme a Oliver Ressler, il collettivo americano Critical Art Ensemble, il gruppo Chto Delat, Nomeda e Gediminas Urbonas, Park Fiction e altri (presenti nell’archivio sin dalla prima esposizione) sono tra coloro che hanno maggiormente insistito, anche da un punto di vista teorico, su questo rapporto tra pratica estetica e politica. Tra i teorici puri inserirei Brian Holmes e Gerald Raunig, che hanno dato un contributo fondamentale.
Uno degli aspetti più interessanti, dal punto di vista della fruizione, è la scelta curatoriale di porre i fatti sullo stesso piano, per una lettura più consapevole e libera dei “documenti” proposti… In che modo credi che la mostra, in corso al Castello di Rivoli, sia più “innovativo-produttiva” che “rappresentativa”?
La concezione della mostra è totalmente orizzontale. Tutto è posto sullo stesso piano: opere d’arte come il film di Farocki o quello di Black Audio Film Collective, così come il neon di Mario Merz, la bottiglia di Beuys e le tele di Balestrini, assieme alle documentazioni video di piazza Tahrir, alle lettere di Carla Lonzi, ai poster del Living Theatre, etc. Ma forse ci possiamo porre una domanda: qual’è la differenza tra il documento e quella che chiamiamo opera d’arte? In esposizione c’è un lavoro molto bello del ‘77 del Laboratorio di Comunicazione Militante in cui si vede come dietro la foto di un arsenale criminale sia forte la matrice della natura morta pittorica. Certo, come in una biblioteca o in un archivio in Disobedience i materiali sono molti ed è impossibile poterli visionare tutti. In questo senso la mostra non pretende che i lavori siano visti in successione, uno dopo l’altro secondo un copione già scritto, ma invita lo spettatore a fare il proprio editing, quindi presuppone un ruolo attivo e produttivo.
In Disobedience archive (The Republic) c’è più idealismo o concretezza?
Direi che Disobedience mostra eventi concreti e, allo stesso tempo, mondi possibili.
Se c’è ancora dell’idealismo questo sta proprio nel rimanere ancorati a forme istituzionali del museo o della democrazia rappresentativa mentre, di fatto, siamo sotto un colpo di stato permanente. Ben vengano allora le pratiche disobbedienti: mai in passato, rispesso ad ora, c’è stato più bisogno di arte.
Disobedience Archive (The Republic)
a cura di Marco Scotini
22 aprile – 1 settembre 2013
Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea
Piazza Mafalda di Savoia, Rivoli (TO)
Orari: da martedì a venerdì: 10.00 – 17.00
sabato e domenica: 10.00 – 19.00
24 e 31 dicembre: 10.00 – 17.00
lunedì chiuso
Info: +39 011 9565222
www.castellodirivoli.org