ROMA | GALLERIA SIMONE ALEANDRI ARTE MODERNA | 9 GIUGNO – 16 LUGLIO 2022
di MARIA VITTORIA PINOTTI
Nei colloqui che Arturo Martini ebbe con il giornalista Gino Scarpa v’è un piccolo paragrafo, intitolato Il sorriso degli etruschi, in cui lo scultore sostiene che gli Etruschi «hanno un sorriso, che è la quarta dimensione, ovvero, l’eternità».[1] Tale peculiarità è una caratteristica inusitata nell’attuale panorama dell’arte contemporanea, giacché è raro trovare scultori che sappiano inserirsi con spontaneità – senza mai abbandonare il proprio linguaggio personale – nella quarta dimensione di cui parlava Arturo Martini. Siffatta tendenza cifrano, con naturalezza, le produzioni scultoree di Massimo Luccioli (Tarquinia, 1952), tutte ribaltanti la consueta dimensione storica della lavorazione del bucchero etrusco ora vivificata da una prospettiva sperimentale, capace com’è di donare appagamento di eternità.
Proprio in questo spirito di ricerca si inserisce la mostra dedicata al Luccioli intitolata Depositi piovani, a cura di Mario Finazzi, in programmazione dal 9 giugno al 16 luglio 2022, presso la galleria romana Simone Aleandri Arte Moderna. La personale è il risultato di un felice e riuscito progetto, sia in quanto epilogo di una inedita e recente produzione del Luccioli sia per essere accompagnata da una accurata ed elegante pubblicazione, ricca di contributi dall’approccio fortemente scientifico, utili alla ricostruzione della produzione scultorea dell’artista ed al circolo tarquiniese Etruscu Ludens. Si da il caso che tale esposizione si inserisca come coerente esito di tutte le proposte dello spazio romano, il cui gallerista Simone Aleandri è solito presentare al pubblico idee espositive curate in modo perspicace ed innovativo, volte a scandagliare aspetti inediti dell’arte moderna e contemporanea. Tornando alla mostra in questione, l’allestimento caldo ed avvolgente, si sviluppa in un ambiente caratterizzato da strutture lignee permanenti su cui sono esposte le opere, tutte giocate sul binomio fragilità e resistenza della materia. In aggiunta, la mostra, oltre all’interesse che suscita, si connota per la fedele ricostruzione delle vicende artistiche del citato Etruscu Ludens, fondato nei primi anni Settanta dall’artista Sebastian Matta dopo un incontro nella bottega del ceramista Giovanni Calandrini, anche lui figura di spicco del circolo tarquiniese. Proprio da tale propizio connubio d’intenti il Luccioli distilla la lavorazione etrusca del bucchero, sapendo, nel contempo, abilmente gestire le antiche tecniche che riesamina, considerando proprio come egli stesso costruisce un forno per la cottura a riduzione di ossigeno. Una posizione di attenta analisi, in altri termini, non poi così dissimile da quella del già cennato Martini, che nel menzionato dialogo con Gino Scarpa afferma come «gli etruschi mi hanno dato il linguaggio, e io li ho fatti parlare».[2]
Le opere in mostra, intitolate Geografie immaginali, rappresentano degli ovali di diverse dimensioni, da cui emergono delle forme selvatiche composte da infiniti particolari, conservando contemporaneamente una salda unità. Sculture che paiono la somma di movimenti contrastanti che non ubbidiscono a nessun ritmo facile, poiché le superfici, scalfite da cracklé, rivelano un travaglio tecnico del Luccioli, subito risolto nell’immediatezza con un lavoro d’intuito manuale. Ne emerge uno straordinario effetto vibratorio, caratterizzato da una casualità dei segni tutti racchiusi nella parte superiore da dei cartigli, quasi ad essere un invito a riflettersi sulla scura superficie della scultura. Così, la trasfigurazione surreale raggiunge una compiuta pienezza espressiva, e la materia, caratterizzata da una colorazione scura tipica del bucchero, avvalora l’idea di quanto il Luccioli reinterpreti oggi le virtù e gli intramontabili valori di una tecnica antica. Ne consegue una pratica scultorea animata da forze contrarie, plasticità anatomiche ma pur sempre vagamente informi. Un approccio scultoreo totale e viscerale che ricorda quello di Leoncillo, il quale, a tal proposito, afferma come «la scultura è materia di atti che nascono da una reazione del nostro essere, che crescono dalla furia, dalla dolcezza, dalla disperazione, motivati dal nostro essere vivi, da quello che sentiamo e vediamo».[3]
Altrettanto degni di nota sono gli acquarelli, realizzati con colorazioni pacate a cui si alternano toni più squillanti; qui compare la presenza della testa umana, di cui v’è traccia anche nelle altre sculture in rassegna, sempre cifrabili per il carattere d’abbozzo. Tale forma non è immediatamente riconoscibile, siccome sommariamente abbozzata e proprio come nelle altre opere esposte si percepisce con nitore il retaggio surrealista della produzione del Luccioli, motivato dai contatti con Sebastian Matta, che verosimilmente l’ha influenzato a lavorare utilizzando il gesto automatico.[4] A tal proposito è utile far cenno all’importanza della presenza del volto umano, che in Luccioli altro non è che un viso non rappresentabile; soggetto artistico trattato in maniera diffusa anche da Alberto Giacometti, di cui Luccioli ne risente fortemente il retaggio valoriale. In tale contesto è d’interesse ricordare quando André Breton chiese a Giacometti che cosa fosse una testa e questi gli rispose con una ulteriore domanda chiedendo «cosa è un viso, se non ciò che meno conosco?».[5] Risulta quindi facile ipotizzare come il Luccioli, partendo proprio dall’epurazione di matrice surrealista tipica di Giacometti, sviluppi una riflessione sul volto umano in quanto entità-ombra semi astratta, vagamente rappresentabile e misurabile.
Diversamente le sculture intitolate Paesaggi risultano cariche di poeticità in quanto vivono di riflessioni sul rapporto antropico con il luogo naturale: la fattura è caratterizzata da un forte lirismo, poiché il Luccioli lavora su organismi plastici che richiedono verticalità e rapporto con l’orizzonte. In altre parole, i blocchi di materia si sporcano leggermente perdendo la loro originaria politezza, diversificando la disposizione dei piani secondo una articolazione di decisa liberazione spaziale. Tali opere, seppur in scala ridotta, intendono comunicare visivamente il luogo che prosaicamente l’uomo abita, ora mutato in un microcosmo silenzioso che immobilizza la vita ed il divenire di un territorio anonimo. Pertanto, da tutte le opere emerge quanto la precarietà dei materiali, la sua duttilità, siano elementi fondamentali per l’artista utili a non segnare il rigorismo di un metodo di lavorazione, da cui ne affiora invece, una raffinata conoscenza della sensibilità della materia prima. Il Luccioli, volendo concludere, è riuscito a filtrare dall’esperienza dell’Etruscu Ludens l’agire senza preconcetti, in modo tale da mantenersi lontano dalla figuratività e ponendo in primo piano la costante espressività trasmessa attraverso formalismi materici oltre il perimento costrittivo delle forme e dei volumi. Così, l’artista quasi “sorride” agli Etruschi, plasmando di conseguenza la materia scultorea nel suo modo più eletto, ed ideando dunque creazioni derivate dalla quarta dimensione, quella che secondo Arturo Martini era l’eternità, luogo in cui tutto ebbe origine e dove la vita creativa può continuare ad evolversi.
Massimo Luccioli | Depositi piovani
a cura di Mario Finazzi
9 giugno – 16 luglio 2022
Galleria Simone Aleandri Arte Moderna
Piazza Costaguti 12, Roma
Orari di apertura: dal lunedì al sabato dalle 11.00 alle 18.00
Info: 06 6931 4424 | aleandriartemoderna@gmail.com
[1] Gino Scarpa, Colloqui con Arturo Martini, Rizzoli, Milano, p. 118
[2] Ivi
[3] Leoncillo, in Scultura italiana del dopoguerra. Un percorso, a cura di Flaminio Gualdoni e Claudio Beccaria, Silvana Editoriale, catalogo della mostra tenuta al Castello di Vigevano, Pavia, dal 24 giugno al 22 ottobre 2020, pp. 41-42
[4] Mario Finazzi, Massimo Luccioli geografia immaginali: tra cielo e terra, in Massimo Luccioli, Depositi piovani, pubblicazione in occasione della mostra tenuta alla galleria Aleandri Arte Moderna, Roma, dal 9 giugno al 16 luglio 2022, pp. 48-49
[5] Jean Clair, Il naso di Giacometti. Una scultura un simbolo, Donzelli editore, Roma, 2007, p. 30