David Bowie Play Book | 24 ORE Cultura
di FRANCESCA CAPUTO
La multiforme personalità artistica di David Bowie è celebrata nel nuovo libro di Matteo Guarnaccia, in uscita ad aprile per 24 Ore Cultura.
Azione, gioco, divertimento sono le parole d’ordine. Le tavole d’artista, con il suo segno inconfondibile, passano in rassegna canzoni, episodi, luoghi e incontri salienti del periodo d’oro di Bowie.
Una biografia disegnata e insieme un oggetto unico. Contiene paper-dolls da vestire, soggetti da colorare e riassemblare, come in una scatola magica, un libro delle meraviglie.
Il volume, attraverso il gioco, introduce alla scoperta di Bowie, una vita spesa come un’opera d’arte, in perenne metamorfosi, alla ricerca dell’essenza di tutto ciò che lo interessava.
Da pioniere, ha attraversato estetiche e generi musicali, connettendo la musica con il teatro, l’avanguardia, le arti visive, la danza, rimandi letterari e cinematografici fino all’arte di strada, dei mimi e dei clown.
Cosa ti ha spinto a dedicare un libro alla figura di David Bowie?
Dopo il lavoro su Bob Dylan, volevo continuare ad approfondire e illustrare la vita di personaggi che hanno avuto un grosso impatto sulla cultura attraverso il costume, l’atteggiamento, le scelte stilistiche, i testi.
Bowie ha forgiato canzoni e personaggi memorabili, lasciando un’impronta indelebile nell’immaginario collettivo.
Stavo inchiostrando il suo viso su una tavola quando ho appreso la notizia della sua scomparsa. All’inizio ho pensato fosse una bufala, perché era appena uscito il suo ultimo album. E invece… Allora mi sono sentito ancora più spronato ad andare avanti con il progetto.
Quali anni della vita di Bowie copre il volume?
Racconta la sua traiettoria fino agli anni Ottanta: adolescente nei sobborghi di Londra, poi rocker, mod, hippie, freak, alieno, nazi. Mi sono soffermato sugli anni della sua creatività che ritengo fondamentali: dal ’65, quando cominciava a formarsi, sino al ‘75-’76, da Ziggy Stardust al Duca Bianco. Con una grande attenzione a tutte le componenti della sua modalità espressiva, alle fonti di ispirazione, alle sue infinite trasformazioni.
È stato uno dei pochi artisti capaci di mettere dietro ad ogni scelta stilistica una base profonda di conoscenza: dal teatro Kabuki, alle letture di Mishima, passando per il Bauhaus. Un mondo vastissimo.
Cosa ti affascina della formula del play book?
È un modo, ironico e sottile, per entrare nel mondo di un artista con un mix straordinario di leggerezza e profondità. Mi interessa l’idea che il libro possa espandersi in un vero e proprio gioco, con una serie di tavole da colorare, ritagliare e assemblare, rese uniche dalla creatività di ciascuno.
David Bowie Play Book è un multiplo d’arte a tutti gli effetti, con un’attenzione maniacale per i particolari, la scelta dei materiali.
Quali aspetti apprezzi di più della sua ricerca?
Il coraggio anche di rischiare la salute mentale. Attraverso i suoi personaggi, affrontava la diversità, la personalità, l’attacco al proprio ego, in maniera molto profonda, estrema. Un atteggiamento surrealista, quel famoso andare oltre i limiti, muovendosi sul labile confine arte-vita prefigurato da Artaud.
L’aver moltiplicato in maniera esponenziale, con le sue abilità camaleontiche, la capacità di trasmettere nuovi punti di vista, che poi è il compito fondamentale di un’artista.
Un altro aspetto che me lo ha reso simpatico è l’aver sfruttato l’enorme possibilità economica, derivata dall’essere una star, per assecondare la sua forte passione per l’arte, arrivando a formare una raffinata collezione.
Lavorando al libro, cosa hai scoperto che non conoscevi?
Tutta la sua ricerca occulta, esoterica e il mondo dell’Arts Lab, una specie di Factory londinese in cui ospitava mostre, performance, reading, concerti, teatro. È stato da sempre un agit prop.
Non pensava solo a diventare una star, aveva molto forte il senso che l’arte dovesse avere un peso sociale. Questa è la cosa che più mi ha colpito.
E poi, una tenacia caratteriale veramente straordinaria. La volontà di essere in continua evoluzione, legandosi al movimento controculturale di quegli anni, di cui l’Inghilterra era uno dei centri nodali. Non è un caso che tutti i suoi primi interessi, dalle culture orientali all’esoterismo, dall’uso delle droghe alle avanguardie, erano fondamentali nel movimento.
Quale tavola ti è piaciuto di più disegnare?
Quella finale, legata al suo percorso come studioso di occultismo. Racchiude due momenti chiave della sua evoluzione artistica. A destra, c’è il riferimento alla copertina di Diamond Dogs dell’artista iperrealista Guy Peellaert, che aveva disegnato Bowie come un personaggio da circo, metà cane e metà uomo.
A sinistra, c’è l’omaggio a Major Tom, il protagonista di Space Oddity e al video del suo ultimo lavoro, Blackstar, che considero una delle più grosse performance degli ultimi anni. Un progetto artistico in cui racconta cosa vuol dire il passaggio, abbandonare la vita.
Ho inserito molti elementi esoterici che ritornano nella sua carriera e nelle canzoni, dal teschio allo gnomo che ride, sino agli occhi bendati con cui appare nell’ultimo video.
Ho impostato l’impianto grafico del suo nome attraverso la scomposizione della Stella Nera che allude al simbolismo della Blackstar, con cui ha chiuso il suo percorso. Ma volevo anche richiamare il suo essere stato un pioniere del glam.
Qual è il Bowie che preferisci? E quale non ti entusiasma?
Mi ha particolarmente colpito, anche per questioni anagrafiche, il periodo Ziggy, questo personaggio alieno e androgino che ho visto per la prima volta sulle pagine di Oz, rivista underground che amavo molto. Ne sono rimasto folgorato, scoprendo un approccio a un mondo che ignoravo, l’idea che la vita potesse anche essere un set cinematografico. Pensa che recuperai un paio di stivaletti da pugile, li dipinsi d’argento e mi truccai con il mascara. L’aspetto che mi piace meno è tutto il periodo dance, legato alla pop music.
Hai mai avuto occasione di conoscerlo?
No. Ho avuto giusto un grado di separazione da lui, perché ho conosciuto e frequentato Lindsay Kemp, il mimo-ballerino che è stato fondamentale per la sua crescita artistica, oltre ad essere stato il suo amante. Da lui, ha imparato come tenere il palcoscenico, il linguaggio del corpo, a caricare di intensità drammatica ogni movimento. Kemp ha progettato anche molti dei suoi show fondamentali.
Progetti futuri?
A maggio, sarò in collettiva al MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino. La mostra, curata da Luca Beatrice, si intitola Nothing is Real, come la canzone dei Beatles, ed è dedicata all’incontro tra Oriente e Occidente nella generazione di artisti degli anni Sessanta.
Lo stesso mese sarò sulle rive del Lago d’Orta, con la mostra I colori del rock, insieme a numerosi artisti, tra cui Andy dei Bluvertigo e Marco Lodola, che si sono occupati dei legami tra arti visive e musica rock.
Infine, sto lavorando a Fashion Sabotage, un nuovo libro sulle subculture sempre 24 Ore Cultura.
Info: www.24orecultura.com