VENEZIA | Palazzo Grassi e Punta della Dogana | 9 aprile – 3 dicembre 2017
di FRANCESCA CAPUTO
Sembrava improbabile che Damien Hirst – ex Young British Artist, star negli anni Novanta, genio del business che ha saputo cavalcare e piegare le regole del mercato e del sistema dell’arte – riuscisse a superare gli eccessi spettacolari cui ci aveva abituato, dagli squali in formaldeide ai teschi umani ricoperti di platino e diamanti.
Eppure l’ha fatto, concependo un evento colossale, grazie al sostegno di François Pinault, con quasi duecento opere tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana a Venezia, per la prima volta affidati ad un unico artista. Un progetto cui ha lavorato per dieci anni, almeno così è stato dichiarato.
All’inizio di questa epopea su verità e finzione, c’è una storia immaginata. Il recupero di un tesoro mitico, scoperto nel 2008. Un’immensa collezione di oggetti e opere d’arte – appartenuta al leggendario schiavo liberto Amotan II – naufragata insieme a un relitto misterioso, duemila anni fa nell’Oceano Indiano.
La narrazione, così come la seduzione dell’inganno, è parte integrante del progetto. Dal lancio della mostra mediante teaser – brevi video utilizzati nelle campagne pubblicitarie per suscitare la curiosità del pubblico – sino ai lightbox e filmati archeologici che “documentano” il recupero e ai testi in catalogo.
Un format inedito in cui ogni elemento riverbera la dialettica delle opere, tra comunicazione, racconto e creazione, illusione e fede, vero e falso, ossessione e virtuosismo, bellezza e kitsch, memoria e follia, collezionismo, potere e mastodontiche proiezioni dell’ego. La statua di Amotan riemersa dagli abissi rivela d’altronde le fattezze di Hirst che tiene per mano Topolino.
Ricrea i suoi Tesori dal Relitto dell’Incredibile addizionando stili e linee temporali in cortocircuito, mescolando materiali antichi e contemporanei, dai led all’acciaio. Ibridando calendari aztechi, divinità egizie, greche, romane, induiste, spesso sature di incrostazioni fittizie, con icone disneyane, citazioni all’arte e alla cultura pop. Creature mitiche con la verosimiglianza di monili, anfore, monete. Un accumulo ipertrofico che oltrepassa il cattivo gusto.
Ma qui non è in gioco la categoria del Bello, i cui parametri oltre a non essere mai stati univoci sono oramai saltati da tempo. L’operazione compiuta da Hirst è di rendere, in maniera neanche troppo velata, vero il falso. Tutto è volutamente artefatto, posticcio, simulato, a cominciare dai materiali utilizzati che, a saper osservare, non sembrano poi tutti così preziosi. Tutto è giocato sull’ambiguità.
Non dimentichiamo che Hirst ha fondato la Science Ltd, società con cui sostanzialmente le sue idee sono legittimate come opere d’arte.
Perché ha voluto competere con mitologia e antichità? Costruire feticci e idoli come reperti dell’antico e del contemporaneo, a metafora della caducità? Creare fake news, invenzioni archeologiche e storiche, per renderli plausibili?
Il decadimento che Hirst asseconda fino all’eccesso e di cui si burla è quello che stiamo vivendo davvero da troppo tempo, l’attitudine di un’epoca fagocitata dalla post-verità.
La verità giace da qualche parte tra le bugie e il vero, ci avverte una scritta all’ingresso della mostra. Dipende dalle singole capacità – di analisi e giudizio critico – se vogliamo ancora concedergli un atto di fede.
*[da Espoarte #97 – Speciale Biennale]
Damien Hirst. Treasures from the Wreck of Unbelievable
a cura di Elena Geuna
Palazzo Grazzi e Punta della Dogana, Venezia
9 aprile – 3 dicembre 2017
Info: www.palazzograssi.it