Intervista a FATMA BUCAK di Elena Inchingolo
L’arte contemporanea è oggi spazio di dibattito, confronto politico e strumento di formazione sociale. Gli artisti si presentano come soggetti dalla grande sensibilità intellettiva ed emotiva, che nell’indagare i temi della contemporaneità, attraverso la propria ricerca, attivano nel fruitore dell’opera un processo positivo di consapevolezza e compartecipazione.
Tra loro, Fatma Bucak (Iskenderun, 1984) giovane artista di origine turca, e cittadina del mondo, sottolinea, in maniera esemplare ed esemplificativa, la funzione catartica, divulgativa e critica dell’arte; lo fa concentrando la sua ricerca sui temi dell’identità sociale e politica, della censura all’informazione e della violenza perpetrata sulle libertà intellettuali dell’individuo. Bucak articola il suo lavoro intorno a complessi processi di indagine socio-antropologica e documentale, esplorando e interrogando costantemente le condizioni concettuali e ideologiche dei paesaggi di confine, che vengono restituiti al pubblico attraverso l’azione performativa, la fotografia e l’installazione audio-visiva.
Dopo la pubblicazione sul numero 100 di Espoarte ri-pubblichiamo questo dialogo tra Elena Inchingolo e Fatma Bucak in occasione della mostra monografica Fatma Bucak. So as to find the strength to see in corso alla Fondazione Merz di Torino…
Tra le sue ultime opere ricordiamo 342 names (2016), in cui Bucak ha inciso su una pietra litografica i nomi di 342 persone, scomparse con la forza dopo il colpo di stato militare in Turchia nel 1980, uno sull’altro fino a quando non sono diventati illeggibili: un umile memoriale alla crudele cancellazione della memoria.
In Damascus Rose (2016), l’artista indaga il significato e gli esiti della violenza politica della censura nei viaggi forzati di sfollati di Damasco, in cerca di una nuova casa: in un giardino sono piantate talee di rosa damascena, spedite da Damasco, su rose provenienti da vari paesi “ospitanti” e qui devono coesistere e sopravvivere.
Remains of what has not been said (2016) è una serie di ottantaquattro fotografie. Ogni immagine rappresenta due braccia che porgono un barattolo di vetro, appositamente datato a mano e pieno a metà di un liquido scuro. A partire dal 7 febbraio 2016, che coincide con il giorno chiamato “massacro delle cantine”, quando nella cittadina di Cizre sono state uccise più di cento persone dalle forze dell’ordine, l’artista ha raccolto quotidianamente tutti i giornali pubblicati in Turchia, continuando a farlo per gli 84 giorni successivi. Ha poi lavato i giornali, che non documentavano tali violenze, fino a quando sulle pagine non è rimasta nessuna traccia delle parole, ma solo il liquido della loro rimozione.
In questi lavori ricorrono l’invisibilità e l’archiviazione come tracce di resistenza, a significare l’importanza della memoria.
La parola a Fatma Bucak.
L’uomo è un essere sociale. La cultura è esperienza collettiva. Nelle difficoltà socio-culturali della storia, l’arte è stata consolazione, riscatto, linguaggio attivo delle coscienze ed espressione di resistenza. Sei d’accordo? Come il tuo lavoro risponde a questa argomentazione?
L’idea che l’arte possa e magari debba espandersi in maniera più ampia nella società è stato sempre uno dei motivi dell’arte stessa. Ritengo, però, che pensare a questa visione come missione vera e propria dell’arte sarebbe sbagliato, tanto quanto aspettarsi che l’arte abbia il dovere di rispondere a preesistenti argomenti relativi alla politica e alla violenza, ed essere necessariamente una consolazione per tali argomenti affrontati malamente dai politici. Tuttavia, in un momento storico così sensibile e fragile, dai gravi rivolgimenti politici, in cui “le parole” hanno sempre più significato, ritenere che l’arte abbia una posizione più influente nella società non è affatto insensato. In questi momenti l’arte è necessaria per rendere visibili nuove prospettive, modi e luoghi in cui potersi esprimere.
Oggi penso che si possa solo aderire alla speranza che ci siano “nuovi” modi di pensare, discutere e sfidare le cose anche attraverso l’arte. Non vedo gli artisti come “vettori” per la voce del popolo, ma vivo comunque un profondo disagio a causa delle restrizioni alla libertà di parola. Questo mi porta a scegliere qualsiasi strumento che ho, in quel contesto, per insistere a parlare di ciò che è urgente. Per cui l’arte diventa un territorio per dar voce ad un pensiero, ad una narrazione e, inoltre, una speranza per ottenere anche uno spazio senza censura. Un’opera d’arte non ha necessariamente un messaggio da comunicare; non è quello che fa l’arte. Gli artisti non sono messaggeri. Ciò che l’arte può fare è riaprire le discussioni in altri modi, in altre lingue, e chiedere alle persone di guardare da altri punti di vista: pensare di più e pensare in modo diverso. L’arte può cambiare alcuni elementi fondamentali di una società? In un certo senso sì; può aiutare a trovare uno spazio di argomentazione, non tanto una soluzione, ma una visione alternativa. Ecco quello che io faccio attraverso il mio lavoro.
Nel 2014 esponi al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, I must say a word about fear (2014), in seguito all’assegnazione dell’Illy Art Prize in occasione di Artissima 2013. L’opera, realizzata durante la tua residenza in Egitto, è incentrata sul tema della paura e del dolore e sulla ricerca di una modalità di espressione, in un territorio dove il dialogo è proibito. Ci puoi raccontare la processualità che ti ha portato alla realizzazione di questo progetto?
I must say a word about fear è un’installazione sonora multicanale che si concentra sulla percezione della paura. I suoni che si sentono sono legati a sette persone che ho incontrato a Il Cairo durante la mia artist-in-residence in Townhouse. Il lavoro esplora la relazione tra la paura e un oggetto che la rappresenta, con cui è stato possibile produrre una narrazione sonora.
Il punto di partenza di questo lavoro è stato la mia esperienza a Il Cairo. Il mio arrivo è stato posticipato tre volte perché il Paese non era “abbastanza sicuro” per viaggiare. Quando finalmente sono riuscita a raggiungere la città, ho subito dovuto affrontare la presenza dei poliziotti e i loro sguardi minacciosi: mi avrebbero tenuta sempre sotto controllo!
Il sentimento di paura è stato il primo ad accogliermi nel Paese. Il Cairo era un luogo in cui il trauma collettivo dei recenti disordini politici aveva suscitato una paura allargata all’intera società. Questo mi ha indotto a pormi le seguenti domande: cos’è la paura e quali sono i sensi ad essa correlati? È possibile oggettivare il sentimento di paura?
Incontrai regolarmente i sette partecipanti al progetto per un periodo di quasi tre mesi. Nei nostri incontri chiesi loro di definire la loro paura, attraverso le proprie esperienze di vita quotidiana. La paura era chiaramente riconoscibile, in quanto correlata a esperienze comuni in tutto il mondo: violenza di stato, molestie fisiche e verbali, pressione sociale e incertezze finanziarie. Ma ogni paura, in questo contesto, era quasi impossibile da nominare proprio perché le persone colpite vivevano già con una forte e sconvolgente presenza di paura. Durante i nostri incontri, i partecipanti hanno prima cercato di trovare aggettivi per descrivere la propria paura e, in seguito, hanno trovato un oggetto che si riferisse a questo aggettivo, rappresentando così la propria definizione di paura. Nell’installazione, si sentono i suoni prodotti dagli oggetti che ciascun individuo ha selezionato: cenere, uova, legno, pietre, grandi cubetti di ghiaccio, oggetti metallici appuntiti… Ogni partecipante ha utilizzato il proprio materiale in un modo particolare: qualcuno ha colpito il pavimento con il metallo, qualcun altro ha rotto il ghiaccio in pezzi più piccoli, un altro ancora ha trascinato pietre da un angolo all’altro della stanza. Durante questo processo, ho visto come una descrizione non verbale della paura possa aprire nuove interpretazioni di quel sentimento. L’urgente necessità di descrivere la paura in un modo non verbale, in una terra dove le parole sono limitate, mi ha attratto fin da subito a lavorare su questo argomento. Quanto più tempo trascorrevo con i partecipanti, tanto più chiara diventava l’urgenza di parlare.
In effetti, la ragione per la quale credo che le opere esistano, sia proprio la necessità di dire una “parola”!
Quale ritieni essere nella tua produzione artistica il lavoro che maggiormente esprime il senso di resilienza dell’individuo nella società?
In verità in molte delle mie opere si può individuare un senso di resilienza, soprattutto se essa nasce in una geografia repressa dove la libertà di parola è negata; come succede con Remains of what has not been said, I must say a word about fear, 342 Names…
Tu sei nata tra la Turchia e la Siria. Un territorio di confine difficile, dai molti contrasti socio-politici. Come questa esperienza personale ha influito nella tua ricerca artistica?
Sono nata in una cittadina nel sud della Turchia, molto vicina al confine con la Siria e sono cresciuta a Istanbul. Sono curda. La mia appartenenza a questa minoranza, nel mio Paese, probabilmente mi ha permesso di avere una certa sensibilità, in relazione a tematiche sociali legate all’identità come la repressione, l’espropriazione, la migrazione e la violenza, che hanno trasformato considerevolmente l’esistenza umana. È naturale che ciascuno di noi sia influenzato dal proprio vissuto e dalla propria esperienza nel percorso della vita, mentre in ambito professionale essa diventa uno dei molti spunti da cui il lavoro ha inizio.
La violenza, la censura, le libertà negate portano l’individuo ad una reazione, alla necessità di dar voce alla mancanza d’informazione. Tematica ben espressa nelle 84 fotografie di Remains of what has not been said (2016) e nella video-performance Scouring the press (2016) che documentano l’atto di lavare per 12 settimane tutti i quotidiani turchi su cui veniva occultata la notizia del “massacro delle cantine” di Cizre nel sud-est della Turchia, avvenuta il 7 febbraio 2016. Il progetto è stato esposto alla Biblioteca Graf dell’Università degli Studi di Torino durante la scorsa Art Week torinese, in collaborazione con la Fondazione Sardi per l’Arte che ha sostenuto la realizzazione del lavoro. Quali nuove progettualità hai in mente per il prossimo futuro?
L’ultima ricerca sulla quale sto lavorando si focalizza sulla dualità del pensiero, sulla reversibilità e fragilità della storia e sulla tensione tra realtà e finzione.
Le tue opere, attraverso rituali universali, trasferiscono messaggi molto forti e scomodi con sensibilità ed eleganza impareggiabili. Nel processo costitutivo dell’opera quale valore dedichi alla sua fruibilità?
Le opere d’arte non nascono con un’idea di “messaggio”, ribadisco che vedere l’artista come messaggero significherebbe limitare parecchio il modo di sentire la propria opera. Le mie opere nascono da alcune sensibilità e urgenze che hanno origine da me stessa. Ovviamente il pubblico condividendo l’opera d’arte apporta la propria sensibilità, a partire da ciò che il lavoro contiene. La condivisione dell’opera è parte integrante del suo grande valore.
Qual è il significato che attribuisci al concetto di “memoria”?
Per quanto possa sembrare una risposta semplice, penso sia molto complicato definire oggi il concetto di memoria. Spesso la memoria è costituita dai frammenti di una storia. Può essere la “sostanza” che ci forma come particolari individui, quindi si teme di perderla con l’invecchiamento. Altre volte è un elemento deliziosamente e spaventosamente inaffidabile. Ciò che mi attira è l’ansia di averne cura anche perché diventa fondamentale per la collettività, comprendendone le verità, i fatti, le interpretazioni, anche “le invenzioni”… Inoltre, spesso, la memoria è parte di un meccanismo sociale per cui ci interroghiamo sulla sua affidabilità, dal momento che essa costruisce e forma la nostra storia.
Se dovessi lasciare ai posteri un messaggio per il futuro?
I miei lavori rappresentano anche le mie parole per cui per quanto non siano veri e propri messaggi, sono tracce dei miei pensieri che continuo a coltivare e che rimarranno anche oltre me stessa.
Fatma Bucak. So as to find the strength to see
a cura di Maria Centonze e Lisa Parola
6 marzo – 20 maggio 2018
Fondazione Merz
via limone 24, Torino
Info: +39 011 19719437
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www.fondazionemerz.org