#CROSSINGOVER
Torna l’appuntamento mensile online, a cura di Alessandra Frosini. Un viaggio attorno all’idea di Museo nella sua forma ideale e concreta, per molti (troppi) ancora oggi considerato il luogo statico di conservazione della memoria mentre stiamo sempre di più imparando a riconoscerlo come luogo di produzione e ad accoglierne i suoi lati sempre più cangianti e necessariamente mutevoli.
di ALESSANDRA FROSINI
Un’esperienza alternativa a quella dei musei e delle gallerie tradizionali è il Mouse Museum creato da Claes Oldenburg, artista svedese naturalizzato americano, tra i pionieri della Pop Art americana.
Collezionare gli oggetti che ci circondano, oggetti quotidiani trovati per caso o regalati: l’attenzione di Oldenburg è tutta su quegli oggetti familiari che normalmente passano inosservati, ma che salvati dal mare magnum della vita di tutti i giorni e defunzionalizzati, iniziano una nuova vita e si modificano. Si attiva dunque una poetica dello scarto, attraverso un diario feticistico dei detriti della modernità che passa attraverso il fondamentale rito del “mostrare”.
Circa 400 oggetti, tra cui giocattoli, mozziconi di sigarette, souvenirs, cibo di plastica, etc…, raccolti nel corso di diversi anni e collocati in vetrine bianche senza alcun vincolo gerarchico, ma anzi secondo una modalità di accumulo che non fa pensare ad alcun principio allestitivo, se non fosse che gli oggetti sono divisi in sezioni tematiche. Ci sono tre tipologie di oggetti (tutti contenuti negli 87 cm): oggetti-modello o scarto del processo creativo (oggetti residui degli happening); oggetti trovati o comprati e poi modificati dall’artista; oggetti non modificati, ritrovati per strada o comprati nei negozi.
Quello che colpisce è il flusso di coscienza costruito visivamente attraverso questo sistema, la giustapposizione permette infatti la fusione dei registri, ogni oggetto è contemporaneamente separato e collegato agli altri, enfatizzato nelle sue caratteristiche peculiari, divenendo elemento necessario di un microcosmo perfetto.
Se da un lato questa modalità è certo – come afferma anche la seconda moglie e collaboratrice dell’artista, Coosje van Bruggen -, una rappresentazione del processo artistico di Oldenburg, una sintesi delle sue esperienze degli anni Sessanta e, allo stesso tempo, un’idea della sua percezione della società americana, il risultato è una fusione tra arti visive ed estetica urbana che si configura come una sorta di museo etnografico della società contemporanea.
La collezione in una primissima versione era collocata nell’appartamento dell’artista nell’East Village e chiamato museum of popular art n.y.c, con un programma di nuove acquisizioni e la pubblicazione di un bollettino. Il contenitore si concretizza poi in una struttura ben definita, basata sul Geometric Mouse di Oldenburg, un ibrido costruito unendo la forma di una vecchia cinepresa a quella della testa di Mickey Mouse, realizzato la prima volta nel 1972 per Documenta 5 a Kassel (ed esposto nella Neue Galerie). “Mouse – Mouseum – Mouseoleum”, come si legge in Notes on the Geometric Mouse Subject (1971), ha una forma che unisce uno degli oggetti di studio dell’artista fin dagli anni ’60 ad una suggestione basata sulla similitudine in svedese tra la parola mus e museet (museo).
La struttura viene poi ospitata in diverse istituzioni, a partire dal Museum of Contemporary Art di Chicago nel 1976-’77, fino, in tempi più recenti (2013), al Guggenheim di Bilbao e al MoMA di New York, sottendendo anche un’altra questione: come si espone un museo all’interno di un altro museo?
Ciò che prevale è l’idea dell’opera, che racchiude allo stesso tempo in sé il concetto di contenuto e contenitore e da questo suo particolare status e per il particolare tipo di oggetti di “city nature” che mostra in una messa in scena di eccedenza barocca, ci invita ad instaurare un nuovo rapporto con i nostri detriti, con gli oggetti effimeri che sempre più ci identificano. E se anche il museo è mostrato nella sua presenza effimera, tutto ci ricorda l’importanza della semantizzazione e del desiderio, vitali per ogni istituzione museale. Così riecheggiano i versi di Paul Valery, incisi sulla facciata del Palais de Chaillot a Parigi, dove sono ospitati alcuni musei: “Dipende da colui che passa che io sia tomba o tesoro. Che io parli o taccia. Questo non dipende che da te, amico. Non entrare senza desiderare”.