critiCALL | #criticall
All’inizio di una nuova fase di emergenza sanitaria, torniamo ad affilare le armi del dialogo intessuto dai fitti scambi della scorsa primavera/estate con #acasatuttibene e #volver.
Dopo artisti e galleristi, senza attribuire gerarchie o classifiche, la chiamata è rivolta ora ad una selezione di critici e curatori/curatrici che, in questo preciso momento storico, si trovano a dover rispondere con maggiore consapevolezza sul loro ruolo all’interno di quello che è da tutti percepito come un sistema ma che di fatto fa parte di una struttura ancora più complessa e articolata: il mondo della cultura in perenne moto e rivoluzione.
critiCALL è la nostra chiamata a chi vuole stare dentro a quel mondo sapendo che “chi affronta qualcosa di enigmatico come l’arte non può permettersi di essere modesto. Ma neanche può permettersi di non essere umile” (Lea Vergine, L’arte non è faccenda di persone perbene, Rizzoli, 2016).
Intervista a IRENE BIOLCHINI di Livia Savorelli
Dedichiamo questo episodio di critiCALL a Irene Biolchini, che dopo anni di vita tra Malta e Faenza per portare avanti con impegno e costanza l’anima del suo modo di concepire la critica – comprendente in senso ampio ricerca, impegno curatoriale e scrittura – vive ora a Milano.
A partire dalla sua formazione a Siena, dove entra in contatto con il grande Enrico Crispolti, ciò che caratterizza il suo pensiero critico è l’importanza della visione periferica, per “portare al centro tutta la consapevolezza del margine“. Quella stessa perifericità rispetto ai canoni che ritrova nella ceramica, un medium con cui si confronta abitualmente in un percorso che include sia le nuove generazioni sia gli artisti storicizzati.
Abbiamo già avuto modo di confrontarci sulla difficile situazione dei critici e curatori italiani, soprattutto della tua generazione, che dopo anni di importanti esperienze formative anche all’estero, ritornano in Italia e devono fare i conti con una difficile quanto stagnante prospettiva… Il Covid-19 ha soltanto reso più urgente la necessità di una rapida formulazione di un modello alternativo…
La retorica dei cervelli in fuga – mentre se proprio si volesse trovare una sineddoche allora bisognerebbe parlare di pance in fuga – è stata imposta alla mia generazione dalla crisi del 2007. Siamo stati invitati, consigliati, spinti ad andare all’estero. Molti lo hanno fatto.
Per me il rientro in Italia è stata una scelta necessaria: sentivo che l’isola che mi aveva accolto, Malta, stava cambiando e non mi ritrovavo più in lei.
Devo moltissimo a quegli anni: mi hanno insegnato a guardare il centro da un angolo appartato, mostrandomi il valore della libertà, il senso di sposare progetti che sentivo veramente miei. Oltre a questo c’è una dimensione fisica nel vivere isolati, qualcosa che ti obbliga a cercare un orizzonte oltre il confine del mare. Il lockdown mi ha riportato alla mente molte di quelle giornate, passate in solitaria dentro le mura in sasso di un mulino a vento, l’incredibile casa in cui vivevo all’epoca. Quindi, forse complice la memoria alla Don Chisciotte, credo che ci siano ancora alcune battaglie che la mia generazione deve intraprendere. La prima, e la più urgente, è quella di non commettere l’errore di quelle che ci hanno preceduto: cerchiamo di non vampirizzare le limitate risorse che si prospetteranno nell’immediato futuro, ma lavoriamo includendo chi ha una decina d’anni in meno di noi. Credo che in Italia sia necessaria una rivoluzione, guidata da una semplice domanda: «Cosa voglio lasciare, oltre al debito pubblico, a chi verrà dopo?». Sembra banale e provocatorio, invece è solo pensando all’Altro che questo Paese potrebbe invertire una politica culturale segnata dal progressivo avvitamento su stessa e dalla difesa di pochi e limitatissimi privilegi.
Negli anni hai consolidato il tuo percorso di ricerca e la tua linea curatoriale intorno a un particolare medium: la Ceramica. Da dove nasce questo tuo interesse e come esso si radica nel tuo processo formativo e di ricerca?
Quando sono andata a Siena avevo diciotto anni e avevo giurato a me stessa due cose: che non avrei più messo piede nella città dove ero nata (Faenza) e che mi sarei lasciata alle spalle per sempre le bomboniere in ceramica che avevano segnato la mia infanzia. A Siena ho incontrato Enrico Crispolti che mi ha insegnato una cosa fondamentale: essendo cresciuta a Faenza sapevo riconoscere una maiolica da una porcellana, senza sapere il perché, semplicemente avevo quell’esperienza nelle mani. Lui mi ha mostrato come ottimizzare questo tesoro, indicandomi i grandi artisti che con la ceramica avevano lavorato. È stato qualcosa di progressivo e naturale. La ceramica e la sua perifericità, rispetto ad un certo canone, sono diventati il controcanto di certe scelte di vita: Siena, Malta, Faenza (a cui alla fine ritorno sempre, anche se da ospite) sono tutti luoghi non centrali, non urbani, non dominanti. Ho notato che molti artisti trovano in questo linguaggio spazi di libertà, zone libere per la sperimentazione. Ho quindi cercato di accompagnare questa loro libertà alla mia, esponendomi all’incerto, alla possibile rovina o all’inaspettato successo. Adesso che vivo a Milano cerco di mantenere viva quella voglia di inaspettato. Per portare al centro tutta la consapevolezza del margine.
Fai un bilancio di questo 2020, quanti progetti hai dovuto posticipare o addirittura rimandare a data da destinarsi?
Elencarli tutti mi intristisce troppo e quindi mi limito a indicarne due, che hanno avuto sorte opposta. La prima è la mostra Chang’e-4 (parte del ciclo di mostre Pocket Pair ideato da Marta Cereda per Casa Testori) che ha aperto il 21 giugno del 2020. Il sostegno di Davide Dall’Ombra e Giuseppe Frangi – e di tutto il personale di Casa Testori – è stato fondamentale durante il primo lockdown: io e gli artisti (Alessandro Roma e Eemyun Kang) abbiamo avuto un dialogo continuo, sapendo che la mostra sarebbe diventata reale non appena possibile. Il fatto di aprire durante il solstizio è stata una scelta condivisa, un modo per evidenziare ulteriormente l’esigenza di ripartire dall’opera, dall’incontro e dalla testimonianza diretta.
La seconda storia ha un finale meno a lieto fine: nel 2020 si doveva tenere il Premio Faenza, istituito nel 1938 e mai interrotto (se non per la parentesi bellica). Il Premio è stato prima posticipato al 2021 e infine cancellato. Non ci sarà Premio né mostra, ma una programmazione online ed un catalogo che racconterà le ricerche degli artisti che erano stati selezionati per la fase finale del concorso (ben 58). Siamo sicuramente davanti a un precedente doloroso, ma potremmo usarlo per ripensare diverse cose. Forse l’era dei premi, grandi collettive in cui molti dei costi sono sostenuti direttamente dagli artisti, deve finire. Forse si potrà usare questo tempo per rivalutare le scelte, per capire come poter dare voce a un numero più limitato di artisti con un progetto curatoriale di respiro.
Parliamo di Arte&Impresa e dei recenti progetti a tua cura che si basano su questo dialogo. A partire da quello avviato nel 2019 con SCIC, per portare i migliori artisti italiani a dialogare con l’eccellenza dell’arredo italiano, ed entrando nel pieno della proposta di quest’anno con Alessio de Girolamo. In Atlantis entra inoltre sempre la ceramica, con la collaborazione di Stylnove, azienda specializzata nella lavorazione della ceramica artistica…
La prima edizione del progetto – che ha visto protagonisti Paolo Gonzato, Alessandro Roma e Silvia Camporesi – si è chiusa con un catalogo, che speriamo di poter presentare presto, con la preziosa introduzione di Silvana Annichiarico. Il secondo anno si è invece aperto con l’installazione di Alessio de Girolamo, un progetto ambizioso che coinvolge tutto lo spazio del flagship store con un’installazione sonora, un disegno a parete (di 5 metri per 5) e una grande scritta in ceramica (otto elementi che formano la parola LANGUAGE). Ciascuna delle lettere appese a parete è un segno, ma anche un oggetto: un piatto in ceramica prodotto con Stylnove, un’azienda unica in termini di qualità e costante ricerca artistica. La collaborazione con le aziende è uno degli elementi più interessanti: in diversi casi SCIC ha saputo e voluto sostenere realtà professionali che hanno lavorato al servizio dei progetti degli artisti. Questa lungimiranza si riflette anche nella decisione di acquisire un’opera alla fine del periodo di mostra: un modo per creare una collezione che parli dell’incontro, che abbia memoria di una progettualità. Il fatto che Lorenzo Marconi, direttore generale di SCIC, e Emanuele Sassi Zanichelli, anima del flagship store di Milano, abbiano deciso di sostenere questa iniziativa anche nel 2020 dimostra la volontà di supportare gli artisti in maniera concreta. Il flagship store di Via Durini sorge negli spazi storici di Franco Maria Ricci, che negli anni ha realizzato anche alcune pubblicità iconiche per l’azienda. Gli artisti tornano a popolare uno spazio che ha sempre avuto una grande familiarità con l’arte e lo fanno nella maniera più naturale possibile: divenendo parte di una collezione, creando una storia dalla contemporaneità più stringente.
Per quanto riguarda la tua attività sul fronte editoriale, ricordiamo in particolar modo, Le faenze di Lucio Fontana, pubblicato dalle Edizioni del Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, in collaborazione con l’University of Malta, dove da anni sei docente; e un tuo saggio su Miquel Barceló contenuto nel volume Science and Art, pubblicato dalla Royal Society of Chemistry… Ci racconti brevemente del contenuto di questo tuo intervento, oggetto anche di un webinar tenutosi nell’ottobre scorso?
Entrambi i progetti hanno a che fare con la “doppia vita” che ho tentato di portare avanti per molti anni, unendo ricerca, lavoro curatoriale e scrittura. Le faenze di Lucio Fontana è un testo dedicato al grande artista italo-argentino. Partendo dal caso della tomba Melandri (realizzata nel 1960), ho tentato di ricostruire alcuni anni chiave della storia della ceramica italiana mettendo anche in luce il contributo fondamentale di molte delle figure coinvolte nella realizzazione di quest’opera (Fontana, Valentini, Spagnulo).
Il contributo su Miquel Barceló arriva invece dopo alcuni anni spesi a studiare l’artista, a cui ho dedicato: la mia tesi di dottorato; il volume Autoréférence infinie. Individual, community and history in Miquel Barceló’s works (pubblicato da Mimesis International nel 2019) e la mostra antologica Miquel Barceló. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume (giugno-ottobre 2019, catalogo Silvana Editoriale). Mentre lavoravo alla mostra, che aveva una serie di complessità date dalla fragilità delle opere, Antonio Sgamellotti mi ha chiesto un contributo per questo meraviglioso volume sul restauro contemporaneo e mi è sembrato più che naturale approfondire anche questo ultimo aspetto verso la materia e l’opera. A dire il vero, la ricerca per me passa sempre attraverso il contatto con l’opera e il desiderio di condivisione: scrittura e curatela sono due mezzi per restituire agli altri il piacere della scoperta. Spero che gli spettatori siano usciti frastornati dalla forza e dalla violenza con cui Barceló tratta la ceramica, che possano avere intravisto qualcosa di nuovo, di sporco, di immediato. Magari a qualcuno è anche venuta voglia di leggere e saperne di più.
Mi hai inoltre raccontato che stai lavorando ad un nuovo progetto editoriale per i tipi de Gli Ori in cui è sempre protagonista la Ceramica? Ci puoi dare qualche anticipazione sulla tematica e sulle tempistiche di uscita del volume?
Il volume uscirà a giugno 2021. Ho coccolato questo progetto per così tanto tempo che l’idea di lanciarlo là fuori nel mondo mi fa quasi paura. Per mia fortuna il libro non sarà solo, ma uscirà appunto con un editore che da sempre ama il linguaggio ceramico e la contemporaneità. Mi rende quindi felice saperlo in ottime mani.
Detto questo, direi che può essere riassunto in un concetto piuttosto semplice: la scena contemporanea può essere letta da prospettive considerate solitamente laterali. Facendolo ci accorgiamo che il centro non è poi così centrale e che molte delle opposizioni raccontate dalla vulgata storico-critica (transavanguardia VS arte povera ad esempio) sono di base delle semplificazioni di un quadro molto più variegato: ripartendo da “una terza via” si possono individuare degli elementi che segnano anche la nostra contemporaneità. Una contemporaneità che si racconta anche attraverso le parole degli artisti, cercando di mettere in luce qualcosa che troppo spesso abbiamo lasciato per strada. Ritornare a dare voce agli artisti e alle opere significa per me riposizionare nel dibattito due elementi chiave, troppo spesso sottratti all’equazione. Se ripartissimo da qui la strada sarebbe per tutti in discesa.
Irene Biolchini (1984). Insegna corsi d’Arte Contemporanea al Department of Digital Arts, University of Malta ed è Guest Curator per il Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, per il quale dal 2012 cura progetti in dialogo con la storia e gli spazi dell’istituzione. È curatrice della collezione d’arte contemporanea di SCIC cucine, per cui segue anche un progetto di installazioni site-specific all’interno del flagship store in Via Durini a Milano. Scrive per Espoarte e cura la rubrica Gli artisti e la ceramica per Artribune. Tra i suoi progetti curatoriali si ricordano: Miquel Barceló (prima antologica della produzione ceramica dell’artista, co-curator con Cécile Pocheau Lesteven, MIC, Faenza); White Memory. Art, Memory and Identity in Malta and Poland (co-curator con Marinella Paderni, St James Kavalier, Malta), official event di Valletta2018, Capitale della Cultura Europea; Italian Guest Pavilion alla Korean International Ceramic Biennale (2017, Icheon, Corea del Sud ). Ha pubblicato Autoréférence Infinie: Individual, Community and History in Miquel Barceló’s works (Mimesis International, 2019) e Le faenze di Lucio Fontana (Edizioni MIC, 2015). A giugno del 2021 pubblicherà con Gli Ori un volume dedicato alla ceramica d’arte italiana del XXI secolo.
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