critiCALL | #criticall
All’inizio di una nuova fase di emergenza sanitaria, torniamo ad affilare le armi del dialogo intessuto dai fitti scambi della scorsa primavera/estate con #acasatuttibene e #volver.
Dopo artisti e galleristi, senza attribuire gerarchie o classifiche, la chiamata è rivolta ora ad una selezione di critici e curatori/curatrici che, in questo preciso momento storico, si trovano a dover rispondere con maggiore consapevolezza sul loro ruolo all’interno di quello che è da tutti percepito come un sistema ma che di fatto fa parte di una struttura ancora più complessa e articolata: il mondo della cultura in perenne moto e rivoluzione.
critiCALL è la nostra chiamata a chi vuole stare dentro a quel mondo sapendo che “chi affronta qualcosa di enigmatico come l’arte non può permettersi di essere modesto. Ma neanche può permettersi di non essere umile” (Lea Vergine, L’arte non è faccenda di persone perbene, Rizzoli, 2016).
Intervista a LEONARDO REGANO di Livia Savorelli.
Il secondo appuntamento di critiCALL è dedicato a Leonardo Regano, storico dell’arte, critico e curatore indipendente, con alle spalle diverse collaborazioni istituzionali e curatele che rivelano una riflessione critica che guarda alle urgenze della contemporaneità. Tra gli ultimi progetti curati, Mare Magnum Nostrum di Gea Casolaro, una grande opera d’arte partecipata – la cui potenza è amplificata dal fatto che la pandemia, in pratica, nega qualsiasi progetto relazionale in presenza – in cui il Mar Mediterraneo ritorna ad essere luogo di incontro, scambio e connessione, narrando una nuova storia ben diversa da quella che la cronaca ci riporta ogni giorno…
In un momento come quello attuale, quale a tuo parere deve essere il ruolo della critica? Credi che in un periodo di emergenza e di forte tensione a livello economico e sociale, anche la critica d’arte possa rinascere mossa da un rinnovato sentire?
Oggi c’è la necessità di un impegno militante, di comprendere i fenomeni e i processi culturali nel momento in cui si innescano; in altre parole, bisogna saper “cogliere l’attimo”. Viviamo in un mondo dove tutto scorre, dove tutto è precario e dove il tempo di analisi e di riflessione si è notevolmente ridotto. Per questo credo che il concetto di “critica” a cui spesso ci si riferisce, sia figlio di un tempo che non esiste più. La crisi sociale ed economica che stiamo attraversando si inserisce solo marginalmente in questo cambiamento, che è invece strutturale e avviato da tempo.
Definisci la tua linea curatoriale, quali sono i tuoi maggiori interessi e a quali progettualità/media sei maggiormente legato? Quali caratteristiche comuni o filoni ricerchi negli artisti che individui per le mostre a tua cura?
Ho iniziato questo lavoro interessandomi all’arte pubblica e alla progettazione di interventi site specific sul territorio urbano. Ho indirizzato la mia ricerca curatoriale sullo studio delle relazioni che si instaurano tra l’opera d’arte e il contesto che l’accoglie, allargando lo sguardo alle pratiche partecipate e relazionali. Col tempo ho maturato anche un’attenzione per la pittura, un medium che oggi apprezzo sempre di più e seguo nella complessità delle sue forme espressive. Ho lavorato e lavoro con artisti talmente diversi tra loro che non credo sia possibile individuare delle caratteristiche comuni; ed è proprio questo continuo confronto con diverse sensibilità che è per me fondamentale, perché mi dà modo di arricchire la mia ricerca senza cadere in quell’autoreferenzialità che ne segnerebbe la fine.
Questa pandemia, con le relative restrizioni che ha comportato, ha posticipato qualcuno dei tuoi progetti? Cosa ne pensi delle nuove modalità di fruizione delle mostre, delle fiere e delle varie presentazioni/conferenze stampa attraverso virtual tour, viewing room, conferenze su zoom, dirette in streaming e via dicendo…?
Sì, ci sono stati progetti che ho dovuto rinviare e altri addirittura annullare, ma nell’isolamento è stato possibile trovare la strada per nuovi ragionamenti, nuovi confronti e nuovi stimoli mossi in particolare proprio dalla riflessione su questa intensificazione del nostro rapporto con la tecnologia. Da nemica da vedere sempre con un po’ di diffidenza, questa si è rivelata una preziosa alleata che ci ha permesso di resistere, di sperimentare nuove forme di socialità e di andare avanti in una situazione che è ancora oggi drammatica. Reale e virtuale stanno diventando modi sempre più complementari di fruire l’arte.
Tra i tuoi più recenti progetti, la mostra Chiaroscuro ospitata la scorsa primavera/estate alla Galleria Studio G7 di Bologna, in piena riapertura dopo il lockdown, analizza in effetti il rapporto della fruizione dell’opera d’arte secondo la duplice modalità del viverla in presenza e attraverso la realtà virtuale. Che riflessione hai voluto avviare con questa mostra intorno al tema dell’immagine e del ruolo del curatore?
Tornando alla tua domanda precedente, Chiaroscuro è un progetto che non sarebbe nato se non ci fosse stato il lockdown. Ed è stato un progetto coraggioso, presentato in un clima ancora incerto in cui c’era poca voglia di proporre e di impegnarsi in nuovi progetti curatoriali.
Ho proposto un’analisi sul rapporto con l’immagine perché durante il lockdown ha assunto un ruolo ancora più determinante nel nostro sistema di comunicazione. Quando ormai le categorie dell’ambiente, dell’aptico, dell’espanso avevano segnato un punto importante nella riflessione critica, siamo ricaduti nella bidimensionalità del rapporto con l’immagine, riconfermando quella propensione al visivo che è tipica della nostra cultura occidentale. Un’immagine certo in questo caso “aiutata” o “potenziata”, carica di riferimenti sensoriali e sociali che prima non erano necessari, ma pur sempre limitata nella sua essenza bidimensionale. Chiaroscuro ha messo in evidenza questo processo, applicando alla realtà della fruizione di una mostra d’arte il doppio registro reale/virtuale. In un rigoroso rapporto uno a uno con il visitatore, l’esperienza di visita si è fondata su due livelli di fruizione: uno mediato per mezzo di un visore VR e di un accompagnamento guidato registrato, e uno reale e in presenza, nello spazio espositivo. Le opere in mostra, partendo dai pezzi più storicizzati come le due Spie di Franco Guerzoni (1971), hanno raccontato quasi mezzo secolo di ricerca sull’immagine riunendo punti di vista differenti, quali quelli di Daniela Comani, Eduard Habicher, Maria Teresa Sartori, Gregorio Botta e Bill Beckley, fino alle nuove generazioni, rappresentate da Jacopo Mazzonelli.
Come ultima domanda, vorrei che ci raccontassi la genesi del progetto di Gea Casolaro, Mare Magnum Nostrum, di cui è stata da poco inaugurata la prima tappa a Spalato in Croazia. Si tratta di un’opera collettiva e partecipata, dedicata al Mar Mediterraneo come culla della nostra civiltà e quanto mai protagonista del nostro presente. Quale è stato il tuo contributo a livello curatoriale? Quanto è importante, oggi, ricercare il coinvolgimento del pubblico e, in generale, attivare pratiche relazionali e partecipative come questa?
In un momento difficile come questo, Gea Casolaro è riuscita a trasformare un vero e proprio azzardo – qual è l’idea in piena pandemia di confrontarsi con un progetto relazionale e partecipato – in un’azione vincente. L’interesse per un progetto che avesse come oggetto il Mediterraneo è maturato in Gea qualche anno fa, in realtà. Nel nostro incontro, avvenuto grazie a The Gallery Apart, abbiamo trovato un modo per renderlo concreto candidandolo all’Italian Council grazie all’interesse della Direzione Regionale Musei Emilia-Romagna. Anche in questo progetto torna il dialogo tra virtuale e reale, perché con Mare Magnum Nostrum si sta realizzando un’opera collettiva, un vero e proprio archivio del Mediterraneo, grazie al coinvolgimento diretto di chiunque voglia contribuire al progetto condividendo materiale fotografico che testimoni il proprio rapporto con il “Mare Nostrum”, un archivio che è poi restituito sia attraverso una piattaforma web, sia per mezzo di un’opera ambientale, esposta per la prima volta nella Torre Sud-Est del Palazzo di Diocleziano a Spalato, e che entrerà a far parte delle collezione d’arte contemporanea del Museo Nazionale di Ravenna. Si sta creando una rete di relazioni ogni giorno più fitta che si alimenta dei ricordi, del vissuto, di momenti conviviali ma in cui si denuncia anche l’altro lato della medaglia, l’indifferenza e la mancanza di solidarietà nei confronti di chi questo mare lo solca mosso dalla speranza di una vita migliore. In un momento come il nostro, in cui le tematiche ambientaliste e umanitarie sono finite tragicamente in secondo piano, riportare l’attenzione su questi temi è per me necessario.
Leonardo Regano (Bari, 1980. Vive e lavora a Bologna). Storico dell’arte, critico e curatore indipendente. Ha curato mostre per Istituzioni pubbliche (tra cui Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, Bologna; Mar – Museo d’Arte della Città di Ravenna; Museo di Palazzo Poggi, Bologna; Polo Museale dell’Emilia-Romagna), realtà private e gallerie. È stato tra i coordinatori del progetto Zero… Weak Fist di Patrick Tuttofuoco, vincitore dell’Italian Council 2017. Nel 2018 ha coordinato la residenza bolognese di Helen Cammock, vincitrice della settima edizione del Max Mara Art Prize for Women. Attualmente è curatore del progetto Mare Magnum Nostrum di Gea Casolaro, vincitore dell’VIII Bando dell’Italian Council.
Leggi anche le altre puntate di CritiCALL: www.espoarte.net/tag/criticall/