MILANO |Cardi Gallery | 26 gennaio – 15 aprile 2016
di KEVIN McMANUS
La riflessione storica sul modernismo internazionale portata avanti dalla Cardi Gallery negli ultimi tempi prosegue con un’altra mostra di grande rilievo, dedicata a Sol LeWitt (1928-2007). Caso particolarissimo, quello dell’artista di Hartford, e per molti versi emblematico dello strapotere degli “ismi” nella rilettura retrospettiva dell’arte degli ultimi cinquant’anni. Se infatti l’oscillare tra Minimal Art e Conceptual Art è di per sé cosa diffusa, e in alcuni casi inevitabile, c’è in LeWitt una sostanziale impermeabilità a queste due categorie, che si individua del resto anche nei suoi scritti, persino quelli dal titolo compromettente come Paragraphs on Conceptual Art.
Nulla di meglio che una mostra come quella da Cardi, dunque, per cogliere un guizzo della sfuggevole natura di quest’arte. Viste di persona, con l’ampio respiro giustamente concesso loro in galleria, opere come le limpidissime structures degli anni Novanta e Duemila rivelano infatti una potenza formidabile, un impatto visivo – e propriamente estetico – che richiama alla mente quell’aura apparentemente abbandonata in tanta arte delle cosiddette neoavanguardie. Non si tratta cioè della presenza netta, sorda e auto-significante del tipico lavoro minimalista, ma di un effetto ipnotico esercitato sullo sguardo, che tenta di sciogliere la logica costruttiva del pezzo, ma che non riesce a limitarsi a questa operazione di deduzione geometrica.
Anche una volta “risolte”, queste strutture attraggono magneticamente chi le guarda, lo portano a perdersi nel ritmo e nella forza combinatoria degli incroci, dei contrasti tra pieno e vuoto, tra chiusura e apertura verso lo spazio. Se insomma gli oggetti minimalisti tendono a sviare lo sguardo del fruitore verso lo spazio circostante, verso la condizione specifica del contesto e dell’installazione, le sculture di LeWitt rivendicano invece gelosamente questo sguardo, lo avviluppano nella loro logica strutturale e nelle sue conseguenze percettive, diventando in definitiva una sorta di architettura da osservare dall’esterno. In questo senso siamo più vicini, in effetti, a una dimensione concettuale, nel senso di un Mel Bochner o di una Hanne Darboven, con la differenza che rispetto alle opere dei due colleghi, quelle di LeWitt, come detto, non richiamano l’attenzione solo sul funzionamento interno, sull’“algoritmo”, ma sulla sua realizzazione in forma, sulla sua bellezza, per usare un termine rischioso ma – lo si capisce visitando la mostra – calzante.
Un discorso simile si può fare anche per gli Incomplete Open Cube del 1974 esposti al piano superiore della galleria, esempio possente ed iconico di quella logica seriale ben descritta qualche anno prima da George Kubler ne La forma del tempo, ma anche per i raffinati lavori su carta esposti insieme alle sculture, e in armonioso dialogo con esse: le linee di Tangle Bands (2002), ad esempio, basate su calcoli matematici assai complessi, praticamente impossibili da ricostruire a ritroso partendo dall’opera, si offrono al nostro sguardo come un reticolo che ci risucchia dentro la cornice, in uno spazio che acquista profondità grazie al prezioso contrasto cromatico tra figura (una figura aperta e inestricabile) e sfondo.
L’allestimento della mostra contribuisce a questo effetto di coinvolgimento, a un’esperienza che – con buona pace della freddezza minimalista – è innanzitutto esperienza estetica.
Sol LeWitt
26 gennaio – 15 aprile 2016
Cardi Gallery
Corso di Porta Nuova 38, Milano
Orari: da lunedì a venerdì 10.00-19.00, sabato su appuntamento; ingresso libero
Info: +39 0245478189
mail@cardigallery.com
www.cardigallery.com