Intervista a SVEVA D’ANTONIO TAURISANO di Leonardo Regano
Giovane, internazionale e attenta alla contemporaneità nelle sue espressioni più emergenti: la collezione di Sveva D’Antonio e Francesco Taurisano è riconosciuta come una delle più significative raccolte d’arte presenti in Italia in continuo dialogo con l’estero e le ultime tendenze della ricerca internazionale. L’attenzione all’oggi è scelta come parametro di selezione e atto critico in grado di connettere in maniera coerente artisti abituati a esprimersi con le tecniche più diverse, spaziando indifferentemente tra pittura, installazione, fotografia, video e new media. Ospite di questo nuovo incontro di CloseUp, Sveva d’Antonio racconta questo importante percorso di ricerca intrapreso con il marito Francesco, partendo da una riflessione sullo stato del mercato dell’arte dopo questi mesi di chiusure e appuntamenti rimandati.
A pochi giorni da MiArt e Art Basel, credo che la nostra conversazione non possa che partire chiedendoti quali sono le tue impressioni su questo ritorno in Fiera?
Ho vissuto questi primi momenti di incontro quasi come delle grandi feste, delle occasioni in cui rinsaldare rapporti e relazioni ferme da tempo. MiArt mi ha fatto un’ottima impressione anche se, sappiamo come, in generale il mercato europeo sia ancora lontano dal vivere quell’entusiasmo che si è registrato in America o in Cina. La presenza di tanto moderno ha sottolineato poi come questa crisi, in effetti, non abbia scalfito il settore dell’arte storicizzata, accanendosi sulle piccole e medie gallerie.
Uno dei mezzi per sopravvivere alla chiusura, come sappiamo, è stato per loro il buttarsi nel mercato digitale, l’implementare la fruibilità dei siti internet anche tramite le mostre online e virtual room. Quali sono state le vostre reazioni a questo surplus tecnologico: diffidenza o entusiasmo per l’acquisto “a distanza”?
Come per gli altri aspetti della nostra vita, abbiamo scelto di non mettere in pausa la nostra attività di ricerca e acquisizione anche perché abbiamo sentito forte il desiderio di continuare a comprare per sostenere amici artisti e galleristi. Per essere sincera, non ho amato molto le virtual room. Ho preferito continuare a informarmi tramite i portfolio e i siti degli artisti. E no, non ci siamo pentiti di un acquisto fatto “a distanza”, anzi. Spesso siamo stati stupiti da quanto la qualità dell’opera, una volta ricevuta e vista da vicino, andasse oltre le nostre migliore aspettative.
La vostra collezione si pone nel solco di quella già avviata dal padre di Francesco, Paolo Taurisano, seppur con un naturale e fisiologico cambio di rotta. Secondo la tua esperienza come è cambiato oggi il collezionismo in questo passaggio generazionale?
La nostra generazione ha sicuramente una predisposizione all’essere dinamica, a viaggiare di più, a guardare più cose. Per noi è anche più naturale non rapportarsi solo all’opera finita ma entrare nel suo processo esecutivo, partecipare al making of prima della sua realizzazione finale creando un rapporto con l’artista e seguendolo in molti aspetti del suo percorso creativo. E questo entrare nel processo è un valore aggiunto rispetto al passato che segna un momento di evoluzione dell’atto collezionistico. Non è più una semplice “accumulazione”, come in passato dove c’era più chiusura e meno inclinazione alla condivisione, ai prestiti e alle mostre.
Un esempio concreto di come voi siete riusciti a entrare nel processo e di come volete condividere la vostra ricerca?
Posso citarti come esempio Because of many Suns, il premio che abbiamo attivato con Art O Rama, dedicato all’arte emergente. E posso anche raccontarti in anteprima di un nuovo progetto che lanceremo a breve, Yolk, una exhibition online che presentiamo su Artland, curata da Mollie E Barns, curatrice britannica, molto conosciuta dopo il primo lockdown grazie al suo profilo Instagram, She curates.
Mollie E Barns ha selezionato 21 artiste tra quelle presenti nella nostra collezione, scegliendo un numero simbolico che parte però da un dato reale: su più di tremila opere esposte, alla National Gallery di Londra si conta la presenza di solo 21 donne.
Un dato davvero impressionante. Nel confronto tra queste due cifre si rende così evidente la disparità tra i generi su cui si è retto il sistema dell’arte occidentale.
E se la National Gallery ne conta 21, Palazzo Vecchio e l’Accademia a Firenze ogni anno espongono un’artista donna, mentre le opere in display agli Uffizi nel 2019 – anno a cui risale questa ricerca – erano 15. In fondo, anche il più avveniristico e progressivo programma museale, oggi, si fonda su una disparità simile. E noi, come Collezione Taurisano, volevamo costruire una sorta di statement attorno a questo topic, alla questione femminile. La mostra sarà poi attivata da una serie di talk che Mollie E Barns condurrà con diversi interlocutori sui nostri account Instagram: artiste, collezioniste, e colleghe curatrici che parleranno della loro condizione di donne nel mondo dell’arte e di cosa pensano si possa ora realmente fare per cambiare questa situazione. Nessun proclama dietro le loro dichiarazioni ma solo la nostra scelta di parlare di una tematica cogente di cui è sempre necessario discutere per continuare a creare sensibilità e conoscenza.
Quali artiste sono state selezionate?
Abbiamo ragionato sulle figure femminili presenti nella nostra collezione che forse più rappresentano la contemporaneità, che poi è il vero fil rouge che lega le nostre scelte e le nostre acquisizioni. Sono quasi tutte molto giovani, provenienti da realtà geografiche molto diverse. Tra esse c’è Ann Hirsch, americana, la cui ricerca è legata al video e alla performance; Giuliana Rosso, giovane pittrice italiana; e sempre di pittura si occupano Rusudan Khizanishvili, originaria di Tbilisi, Kamilla Bischof, Zandile Tshabalala, sudafricana, oppure Ellen Gronemeyer, che ha già una carriera più istituzionalizzata; e poi ancora Nazanin Pouyandeh, iraniana; Samantha Rosenwald, giovanissima e di base a Los Angeles, e la tedesca Sophie Gogl.
Mi interessa questa tua affermazione sulla vostra volontà di rappresentare la contemporaneità. Cosa esprime questa scelta?
Sembra quasi una provocazione, ma come collezionisti volevamo toglierci questo velo di “eternità” che sembra essere l’aspirazione di molte raccolte. Noi vogliamo “fermare” l’oggi, lasciare a chi verrà dopo di noi una collezione che testimoni e racconti quello che succede in questi anni, quali sono le grandi tematiche sociali che affrontiamo, le nostre paure ma anche le nostre leggerezze, come si esprime la bellezza, quali sono i nostri colori, come vengono rappresentate le donne. È un progetto di ricerca a cui mi dedico con passione e parlarne mi crea sempre un po’ di emozione.
E parlando di un progetto come Yolk, per esempio, si rende subito evidente come molte delle vostre scommesse su artisti emergenti si sono rivelate nel tempo vincenti. A questo punto ti faccio una domanda precisa: come si riconosce un talento?
Una domanda semplice… Diciamo che è una questione di intuito. Dopo dieci anni, che io e Francesco collezioniamo, il nostro occhio è allenato e pronto a codificare dei linguaggi che ti sembrano più interessanti di altri. È una questione di educazione alla visione alla contemporaneità. E questa non riesci a farla sui libri, anzi. Il nostro sistema scolastico si ferma all’Ottocento e quello universitario spesso non supera le Seconde Avanguardie. L’oggi, quello vero, lo impari solo attraverso il contatto diretto con il sistema dell’arte, le mostre, le fiere e le gallerie. Ed è così che ti rendi conto di ciò ha o non avrà un valore.
A proposito di questa passione per l’arte, nel formare il vostro gusto collezionistico sono state più importanti le visioni condivise o le divergenze tra te e Francesco?
Per me le divergenze sono sempre quelle più interessanti. Mio marito vede un poi più avanti, è quello che rischia di più. Io invece avendo una formazione più accademica cerco di costruire un framework attorno all’artista e all’opera d’arte. Lui invece è molto più istintivo, va di pancia. Però alla fine poi proprio quelle opere su cui ci si scontra e si discute risultano delle opere vincenti. In generale, è quasi sempre più interessante un’opera che ti mette alla prova, che ti sfida, che ti fa paura. Magari all’inizio ti serve solo distanziarti, allontanarti.
Un esempio di opera che vi ha fatto discutere?
Mi viene subito in mente Bunny Angel, un lavoro di Athena Papadopoulos che abbiamo acquistato in una delle ultime edizioni di Artissima. Le sue opere sono un vero e proprio pugno nello stomaco che continuano a farmi riflettere. Bunny Angel è un’opera totemica, una scultura di due metri per tre che parla di una femminilità violata, con un livello di lettura difficile ed emotivo. Tornando a quella contemporaneità che ricerchiamo nell’arte, Athena Papadopoulos la esprime utilizzando materiali quotidiani riproposti da lei come rifiuti e scarti. In questo mix di materiali si ritrova un’allusione a quel mix di livelli, tipico del nostro tempo, in cui non ci sono più nette separazioni tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. E Athena è molto brava in questa sintesi espressiva.
Un altro aspetto che mi colpisce è come la vostra sia una collezione che comprende quasi tutti i media. Ma se proprio dovessimo scegliere, qual è il mezzo espressivo che più vi rappresenta?
Non lo so se posso darti una risposta univoca, perché dipende sempre dallo stato d’animo del momento. Noi abbiamo iniziato concentrandoci sulla fotografia, tagliando nettamente con la precedente collezione che il padre di Francesco, Paolo, aveva iniziato negli anni Settanta e che comprende Transavanguardia, Nouveau Réalisme, il Movimento Nucleare, ovvero pittura e, in particolare, una pittura molto materica e densa. Poi però abbiamo rotto con la bidimensionalità della fotografia orientandoci verso il video, le installazioni, il neon e la performance. La realtà è che se collezioni e se inizi a fare ricerca sulla contemporaneità, il medium è quasi irrilevante. Ti concentri più facilmente sull’artista e su cosa vuole raccontare. Tempo fa, a LoopArt Fair, a Barcellona, ho comprato un’opera di Hayoun Kwon, artista coreana, che nel suo linguaggio usa la realtà aumentata. Quello che mi ha colpito non è il medium scelto ma come per lei esso fosse funzionale alla necessità di raccontare nel suo lavoro il contrasto tra le due Coree, la guerra e questo paesaggio meraviglioso che le unisce: le immagini ti immergevano in una realtà – un bosco meraviglioso – completamente differente da quella che la voce guida ti racconta – ovvero di un luogo di guerra ancora segnato dalla presenza delle mine antiuomo – e questa doppia comunicazione, questo straniamento, lo cogli al meglio proprio grazie alla tecnologia usata.
Quali sono le tue idee sul futuro?
La risposta più cool e al passo con i tempi, mi dovrebbe portare a risponderti gli NFT, la cryptoarte, la digital art. Ma rimango scettica sul valore delle opere che vengono poi veicolate attraverso questa tecnologia. Io credo che il mezzo che prenderà sempre più piede sia proprio la pittura. La mia visione sarà controcorrente ma la pittura ha delle applicazioni infinite. Con questo mezzo c’è sempre un’emotività, una capacità di permeare il contesto sociale, politico, che nessun altro medium dell’arte ha.
CloseUp è un appuntamento mensile con il collezionismo, a cura di Leonardo Regano, realizzato in collaborazione con Art Defender.
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