Intervista a PAOLO CIREGIA di Livia Savorelli
Con l’intervista a Paolo Ciregia (1987), giungiamo al quarto episodio delle ricognizioni che originano da un’attenta e approfondita selezione di alcune opere che hanno colpito particolarmente la mia attenzione ad Arte Fiera e che ho avuto il piacere di approfondire al mio rientro direttamente con gli autori. Dopo i primi tre capitoli – dedicati rispettivamente a Silvia Camporesi, Tiziana Pers e Amanda Chiarucci – ci soffermiamo sul progetto 40 dictators del giovane fotografo presentato dalla galleria milanese mc2gallery, che ha presentato in occasione dell’evento bolognese uno stand dedicato al ritratto in cui tre artisti – oltre a Ciregia, Lamberto Teotino e Justine Tjallinks – “declinano tra fotografia e pittura la tematica del ritratto, fino a giungere alla sua negazione in favore appunto di una simbologia del ritratto”.
Nasci come fotografo di reportage e hai dedicato quattro anni a documentare la rivoluzione in Ucraina. Quando hai sentito l’esigenza di sublimare quelle esperienze, rendendole un progetto artistico?
L’esperienza da fotogiornalista mi ha aperto gli occhi su come sia mutata la fotografia di informazione e sulle dinamiche del mondo dei media (soprattutto editoria e televisione) più di quanto potesse fare qualsiasi scuola o master universitario. L’informazione è un business, plasmata di volta in volta dall’interesse di turno, mentre l’espansione di internet e la diffusione degli smartphone rendono chiunque un potenziale testimone più veloce ed efficiente di qualsiasi inviato di guerra. Per contro, alcuni fotogiornalisti si scontrano con le proprie velleità autoriali, troppo spesso si sentono artisti, con la smania di creare fotografie esteticamente accattivanti e spettacolarizzare così il male. Dall’altra parte le immagini ci investono da ogni lato e così si esaurisce anche la loro capacità comunicativa. È da queste premesse che, nel 2015, è nato il mio primo lavoro, in cui cancellavo, asportavo e bruciavo le parti più patetiche e strazianti delle mie fotografie, per costringere lo spettatore a riflettere e riempire quei vuoti. Se le fotografie sono diventate superfici sempre più sottili e evanescenti, senza peso, io ho cercato di farle tornare fisiche e pesanti. Perestrojka ha segnato l’inizio di quella che oggi è la mia ricerca, ho iniziato con interventi sulle mie fotografie tramite tagli, abrasioni e graffi, fino a forzare il limite della bidimensionalità della fotografia.
La tua ricerca tange spesso storia e politica, come declini la tematica del conflitto nei tuoi lavori?
Penso che si tratti di un qualcosa che precede il pensiero scientifico, piuttosto che di un procedimento razionale. Nei miei lavori rispetto sempre un percorso rigoroso ma mi trovo a inseguire quello che sfugge: penso che nasca proprio da questo, la mia ossessione nel voler provare a decifrare simboli e linguaggi nascosti. Cos’è che spinge gli uomini a compiere certe azioni? Qual è il senso autentico di una guerra, al di là delle ragioni formali? Il motivo ricorrente della mia ricerca è che tutto si ripete da secoli in maniera ciclica e allo stesso tempo differente, come intrappolati in un loop da cui non si vede via d’uscita. Parto sempre da un dato reale, spesso un oggetto a cui mi lego, a cui provo a dare altri significati oltre quelli condivisi. Così i segni della lamiera di uno scudo della polizia ucraina diventano testimonianza non ideologizzata di una violenza, le barriere anticlochard delle città contemporanee il codice visuale dell’architettura ostile, statue di bronzo oggetti alieni o geografie non terrestri. Non so esattamente dove mi sto spostando, so solo che i miei lavori si alimentano grazie al reale e non possono prescindere da esso.
Ad Arte Fiera, nello stand di mc2gallery, hai presentato un corpus di opere facenti parti del progetto 40 dictators, che si compone nella sua completezza di video, scultura, fotografia e neon. Come nasce il progetto e con quali finalità narrative? Come dialogano in esso queste quattro componenti, fino ad arrivare all’atto finale, documentato attraverso il video? Il progetto sigla la definitivo collasso delle ideologie e dei loro simboli?
40 dittatori nasce anch’esso dal lungo periodo trascorso in Ucraina, in cui ho vissuto il violento passaggio dalla “normalità” di un Paese formalmente democratico, alla rivoluzione e subito dopo la guerra. Storicamente, immagini e simboli sono i primi a venire colpiti quando si vuole minare un potere, nel tentativo di cancellare una parte dell’immaginazione collettiva: con la comparsa dei media l’abbattimento della statua del leader diventa il
rituale imprescindibile che dichiara la fine di un regime politico. Anche in Ucraina, dopo la rivoluzione, sono state rimosse le raffigurazioni di Lenin e Stalin. Per questo ho immaginato le rappresentazioni dei leader come degli occhi vivi, ribaltando la visione: da soggetti che guardano a oggetti osservati. È venuto quasi naturale metterle sul vetro dello scanner, per analizzarle da punti di vista inusuali. Metaforicamente era come guardare nel retro di una maschera, per disinnescarle e renderle innocue.
I 3 video sono il vero punto focale della mostra più che una semplice documentazione: mostrano, tra le fiamme, i busti in bronzo di Mussolini e Mao Tse-tung appoggiati su un crogiolo usato per le fusioni. Al primo sguardo si potrebbe pensare di vedere l’inizio dello scioglimento e distruzione dei busti, ma essendo un video in di 5 secondi ripetuto in loop senza fine crea uno spaesamento nello spettatore, ribaltando l’idea iniziale, da distruzione a rinascita, mostrando le fiamme come un fuoco che continua ad alimentare e dar vita a queste ideologie non ancora finite e consumate.
Nelle fotografie che compongono la serie, hai rappresentato le figure dei maggiori dittatori del XX secolo – ricordiamo a tal proposito che lo stand era dedicato alla tematica del ritratto, espressa attraverso il lavoro di tre autori, oltre a te, Lamberto Teotino e Justine Tjallinks – astraendo concettualmente l’immagine ingombrante delle loro figure e giungendo ad un risultato fortemente minimalista ed evocativo. Che cosa vuoi innestare nello spettatore? Come arrivi processualmente a qull’immagine finale che annulla definitivamente il concetto di ritratto, rompendo il meccanismo di esaltazione e reiterazione nel tempo della figura del dittatore ad opera dei suoi seguaci?
Conosciamo Mao Tse-tung, Hitler e Mussolini, ma siamo sicuri di averne realmente assorbito la storia? Per questo sono nate le scansioni da sotto dei busti, per dimostrare quanto un piccolo gesto possa far risaltare la situazione in una maniera completamente diversa. Da sotto diventa qualcos’altro. Una caverna in cui entrare e continuare a cercare.
Quali sono i progetti che ti vedranno impegnato nel corso dell’anno?
In questo momento sto analizzando il passaggio da vittima a carnefice e il suo contrario, nella storia e nella contemporaneità.
Cambiamo la prospettiva… da artista a fruitore di Arte Fiera. Quale lavoro ti ha maggiormente colpito e ti è rimasto nel cuore?
A Bologna ho visto cose più o meno interessanti, ma tra tutti mi è piaciuto particolarmente il lavoro inedito, A long long time ago, in a galaxy far away… (2020) di Ruth Beraha, artista che sento molto vicina come ricerca.
www.paolociregia.eu
www.mc2.gallery
Gli episodi precedenti:
Bologna, dopo Arte Fiera. Suggestioni #1: Silvia Camporesi
Bologna, dopo Arte Fiera. Suggestioni #2: Tiziana Pers
Bologna, dopo Arte Fiera. Suggestioni #3: Amanda Chiarucci