intervista a SILVIA CAMPORESI di Livia Savorelli
Nei giorni concitati di Arte Fiera – intenti, tutti noi, a “non perdere nulla” – non sempre si verificano le condizioni per cogliere al pieno la profondità e poetica di alcune opere. Lo sguardo viene colpito da mille stimoli ma la mente necessita di tempo per riflettere, per elaborare.
Andando controcorrente rispetto alla corsa mediatica che impone la pubblicazione istantanea dell’immagine, anche se a scapito del contenuto, mi sono presa il tempo per elaborare e per approfondire con gli autori la loro più recente ricerca presentata all’interno della kermesse bolognese. Iniziamo questa ricognizione con Silvia Camporesi (1973) e il suo nuovo progetto Il paese sommerso (2019), presentato nella sezione Fotografia e Immagini in Movimento (a cura del collettivo Fantom) di Arte Fiera 2020 da z2o Sara Zanin Gallery di Roma.
Già a partire dalla serie Atlas Italiae, hai dato nuova vita ad un immenso album di luoghi che riportano alla luce scorci dimenticati della nostra Italia, luoghi del “non più”, frammenti di una memoria passata che escono dal buio della dimenticanza per mostrarsi di nuovo al mondo. Con Il paese sommerso hai fatto un ulteriore sforzo, simulando la ricostruzione subacquea, in scala 1:50, di Fabbriche di Careggine, un paese fantasma nella provincia di Lucca, che si trova a 80 metri sott’acqua dopo essere stato sommerso dalle acque del lago artificiale di Vagli, originato dalla costruzione di una diga elettrica.
Come nasce la suggestione per questo luogo e come hai costruito la narrazione intorno alla sua storia?
Nella tua premessa hai messo in relazione i due lavori e in effetti Il paese sommerso si sviluppa come costola di Atlas Italiae: l’idea che mi ha portato a realizzare Atlas Italiae è nata molti anni fa vedendo su un giornale una fotografia di Fabbriche di Careggine datata 1994, anno dell’ultimo svuotamento del lago di Vagli. Sembrava un paese di cartone, un modellino, un luogo che mi ha immediatamente attratto. Così sono andata a cercarlo, ma ovviamente non l’ho trovato. Il lago non è mai più stato svuotato e tutta la storia del paese si ferma alle immagini del ’94. A partire da quell’immagine ho deciso di intraprendere il viaggio che per due anni mi ha portato in giro per le regioni italiane a scattare fotografie di paesi e luoghi abbandonati. Dopo aver concluso il lavoro mi è rimasta una sorta di sottile insoddisfazione legata al fatto di non aver potuto raggiungere quel luogo e, pian piano, è maturata in me l’idea di ricostruirlo pezzo per pezzo, casa per casa, di superare idealmente il limite dell’acqua e raggiungerlo attraverso altre forme di rappresentazione.
In questa serie, pur basandoti su una documentazione reale, dai pieno sfogo al potere illusorio della fotografia, creando mondi altri cui viene data una possibilità di emersione nello scarto tra immaginazione e realtà.
La magia della fotografia risiede proprio in questo aspetto: è vero tutto ciò che appare vero. La regola alla base della produzione del modellino è stata la verosimiglianza, pertanto l’estate scorsa sono ritornata a Vagli, ho raccolto tutto il materiale sul paese (fotografie dei vari svuotamenti, il piano catastale e la mappa del paese) e ho lavorato assieme ad uno scultore per diversi mesi alla sua costruzione, trovando la giusta scala di rappresentazione. Molte persone mi fanno domande sulle immagini dando per scontato che il luogo fotografato sia il paese reale, non mettono in dubbio la veridicità del luogo e a nessuno viene in mente che si possa trattare di un modellino. Per me questa è una grande soddisfazione.
Quali saranno le successive evoluzioni della serie?
Nella seconda fase del lavoro immergerò il paese in un piccolo lago creato artificialmente per simulare un nuovo svuotamento, attraverso fotografie e video; infine lavorerò sui dettagli del paese fuori dall’acqua, sempre mantenendo alta la tensione fra realtà e finzione.
Sei inoltre presente a Bologna, allo Spazio Carbonesi di Palazzo Zambeccari (fino al 24 febbraio), con Circular View, a cura di Carlo Sala. La mostra nasce dal progetto fotografico che ti è stato commissionato nel 2018 dal Gruppo Hera per raccontare la genesi del nuovissimo impianto per la produzione di biometano dalla frazione organica dei rifiuti. Ci racconti come hai vissuto il rapporto con l’azienda e come hai concepito lo sviluppo del progetto?
Nel 2018, a partire da gennaio, sono andata una volta al mese a fotografare l’impianto in costruzione. Era un lavoro difficilissimo perché ogni volta dovevo indossare tutte le protezioni di sicurezza, avevo solo un’ora per fotografare ed ero sempre accompagnata da due persone che non si allontanavano mai. C’erano tanti operai al lavoro e gru che spostavano carichi di varie tonnellate. Quindi, oltre alla problematiche dell’affrontare fotograficamente un tema per me totalmente sconosciuto, c’erano altre difficoltà legate alla situazione. I committenti mi hanno dato totale fiducia e libertà sul lavoro, così ho deciso di fare quello che sapevo fare: individuare i dettagli, isolarli dal resto, trovando un contenuto poetico anche in soggetti freddi, nella meccanica. C’è l’immagine di una serie di chiodi dalla capocchia rossa che sembrano fiori; una montagna di rifiuti organici che, come scrive Carlo Sala nel libro di Skira che accompagna la mostra, ricorda una natura morta fiamminga. Sono molto felice del lavoro installato che abbiamo fatto assieme al curatore e ad un architetto: 11 grandi lighbox che emergono dallo spazio completamente buio.
Sempre a Bologna, non dimentichiamo che sei tra gli artisti di Traces, mostra a cura di Marina Dacci che riunisce, nel Museo Civico Medievale (fino al 22 marzo), sette artisti la cui ricerca si confronta con il tema della traccia. Come, attraverso la tua opera, hai declinato la tematica e come essa è entrata in dialogo con gli ambienti, fortemente connotati, del Museo?
Stimo molto il lavoro curatoriale di Marina Dacci, in questa mostra è riuscita in maniera intelligente e sottile a creare un dialogo immaginario fra arte medievale e arte contemporanea. Dopo aver studiato a fondo le opere presenti nel museo e le loro collocazioni, ha scelto accuratamente le opere di ogni artista. Il risultato è una sorta di caccia al tesoro del contemporaneo, perché molte opere si confondono nelle teche con i pezzi del museo, tanto è forte l’attinenza delle une con le altre nonostante le estreme differenze temporali. Il mio lavoro, trattandosi di fotografia, è più facilmente individuabile. Ci sono due immagini da ciascuna delle mie ultime serie: Almanacco sentimentale (2017-in corso); Mirabilia (2017-in corso); Il paese sommerso (2019-in corso).
Cambiamo la prospettiva… da artista a fruitore di Arte Fiera. Quale lavoro ti ha maggiormente colpito e ti è rimasto nel cuore?
L’incredibile lavoro di origami, tutto fatto a mano con grandissima cura e pazienza, di Amanda Chiarucci, esposto alla Galleria Lara e Rino Costa.
Info: www.silviacamporesi.it
www.z2ogalleria.it