LA TOP LIST DELLE PARTECIPAZIONI NAZIONALI ALLA 58. BIENNALE DI VENEZIA A CURA DELLA NOSTRA REDAZIONE: PARTE #2
Ghana
Alla sua prima partecipazione in Biennale il Padiglione del Ghana centra l’obiettivo di rimanere impresso tra i padiglioni meglio allestiti della 58. Biennale con un progetto seguito dall’architetto David Adjaye e che affida ad una forma ellittica il compito di far intersecare le idee che collegano tra loro le opere. La forza del concept si basa sulla narratività che fa parte della cultura africana ed è vicina alla pratica del curatore Nana Oforiatta Ayim fondatrice dell’ANO Institute of Arts & Knowledge, attraverso la quale ha aperto la strada ad un’enciclopedia culturale pan-africana, reimmaginando le narrazioni di tutto il continente. L’oralità resta per l’Africa punto di riferimento imprescindibile per raccontare storie, una su tutte quella della raggiunta indipendenza del Paese nel 1957. Ghana Freedom cita, infatti, una canzone composta da E.T. Mensah alla vigilia della nascita della nuova nazione nel 1957, appunto, senza intenti marcatamente celebrativi.
Padiglione narrativo, dicevamo, post-coloniale e affatto didascalico.
Sei artisti di tre diverse generazioni, tra i quali alcuni molto conosciuti al pubblico internazionale, mettono a confronto “eredità e traiettorie” di quella libertà raggiunta.
Ad El Anatsui e Ibrahim Mahama sono affidati i due ingressi al Padiglione, risolti come due facciate monumentali. El Anatsui, Leone d’Oro alla Carriera alla Biennale del 2015, presenta il grande arazzo Earth Shedding Its Skin (2019), composta da numerosi tappi gialli appiattiti assemblati con fili di rame: la terra, per citare il titolo, ha bisogno di cambiare pelle, si può cambiare il mondo in cui viviamo con singoli atti di auto-rinnovamento come un serpente durante la muta.
Ibrahim Mahama – tra i protagonisti di Documenta 14 a Kassel, nel 2017 e che, per Fondazione Trussardi, ha coperto, durante l’ultimo Salone del Mobile i caselli daziari di Porta Venezia a Milano con tremila metri di sacchi di iuta logorati dall’usura – si concentra sulla raccolta di oggetti e sul tema dell’archivio in un’installazione monumentale. In A Straight Line Through the Carcass of History 1649 (2016-19) Mahama si serve di odori e oggetti – tra cui reti di pesce affumicato, legno, tessuto e materiale d’archivio – per esplorare il rapporto tra tradizione e modernità.
I ritratti, dipinti ad olio, di Lynette Yiadom-Boakye, Just Amongst Ourselves, con il loro estremo realismo – qualcuno li ha accostati ad opere di Lucien Freud – sembrano instaurare un silenzioso dialogo con le fotografie in bianco e nero e gli autoritratti, degli Anni ‘60 e ‘70, di Felica Abban, prima fotografa professionista ghanese.
La video-installazione a tre canali di John Akomfrah, The Elephant in the Room – Four Nocturnes (2019) – la natura rigogliosa si alterna ai volti (spesso coperti con maschere di elefanti) e ai passi faticosi di coloro che partono, con un borsone soltanto, lasciando per sempre il proprio villaggio – e la catasta di bottiglie di vetro di Glass Factory II (2019) di Selasi Awusi Sosu sono ancora una volta racconti, commoventi e frammentari di storie postcoloniali. Visioni poetiche ma che esaminano il paesaggio culturale africano in tutta la sua complessità.
Ghana Freedom fortemente voluto dal consulente strategico Okwui Enwezor, recentemente scomparso, dopo Venezia sarà in viaggio, verso Accra capitale del Ghana.
[Francesca Di Giorgio]
Padiglione Ghana
Ghana Freedom
Felicia Abban, John Akomfrah, El Anatsui, Lynette Yiadom Boakye Ibrahim Mahama, Selasi Awusi Sosu
Curatore: Nana Oforiatta Ayim
Commissario: Ministry of Tourism, Arts and Culture
Sede: Arsenale
Info: https://ghanainvenice.org
Iraq
Per la prima volta nella storia delle partecipazioni dell’Iraq all’Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, la Fondazione Ruya presenta un unico artista. Si tratta del curdo-iracheno Serwan Baran, nato a Bagdad nel 1968, appartenente alla nuova generazione di pittori iracheni. Avendo vissuto oltre 40 anni di guerra del suo Paese e essendo stato arruolato durante i conflitti degli Anni ‘80 e ‘90, Baran ha vissuto in duplice maniera la guerra – da soldato e da artista di guerra – assistendo in maniera diretta alle derive della propaganda nazionalista e religiosa.
La mostra Fatherland (Terra Natia) pone l’accento sull’altra faccia della medaglia, ovvero la nozione abusata o stravolta di patria o nazione da parte dei regimi autoritari, finalizzata a giustificare gli orrori della guerra. In mostra, un momentale dipinto ad acrilico, The Last Meal (L’ultimo pasto) rappresentante una strage di soldati uccisi durante il loro ultimo pasto, un’immagine straziante ripresa a volo d’uccello. Sul quadro sono inoltre inseriti oggetti e parti di uniformi appartenute ai soldati iracheni deceduti nelle guerre tra Iran e Iraq, Guerra del Golfo e nella guerra con l’ISIS, donate all’artista dalle famiglie. Completa l’esposizione, una scultura in argilla inserita in un calco di vetroresina dal titolo The Last General (L’ultimo generale): il corpo del generale che ricorda quello di una mummia in un sarcofago, conservando intatto solo l’uniforme con le medaglie, rappresenta un tributo a tutti gli uomini morti a seguito della brutalità delle figure di comando.
[Livia Savorelli]
Padiglione Iraq
Serwan Baran. Fatherland
Curatori: Tamara Chalabi e Paolo Colombo
Promotore: Ruya Foundation
Sede: Ca’ del Duca, Corte del Duca Sforza, San Marco 3052
Info: www.ruyafoundation.org
Iran
Ancora una volta la fonte di ispirazione per un padiglione nazionale è affidato ad un testo. In questo caso, per il Padiglione Iran si tratta un poema del poeta contemporaneo persiano Mohammadreza Shafiei Kadkani.
Sono tre gli artisti invitati a partecipare a questa edizione della Biennale con l’intento, pur nella multiformità dei linguaggi, di restituire un’immagine unitaria e allo stesso tempo non convenzionale dell’arte iraniana contemporanea, una percezione lontana da visioni stereotipate. Il titolo scelto per il Padiglione Of Being and Singing rappresenta quindi quella necessità “di essere e di cantare”, di esprimere la propria verità attraverso l’arte.
L’ingresso al Padiglione è affidato al lavoro dell’artista più giovane, Ali Mir Azimi, classe 1984. Dopo aver attraversato e esperimentato diversi mezzi espressivi, quali il cinema, la filosofia, le arti visive, Mir Azimi presenta un’installazione che lavora sull’idea di “campo” e “controcampo” e sul “reversal dept” ed estendendole verso l’incompletezza della lingua e del sogno, ha creato una installazione attiva. L’idea principale del suo lavoro è il confronto tra il talento di apprendimento della lingua tra un bambino (essere umano), e un fringuello non ancora maturo.
Vita di Reza Lavasani (1962), è un’installazione iniziata dall’artista nel 2012. Un lavoro che lo ha portato a lavorare per tre anni a tutti i diversi particolari e dettagli dell’opera realizzata in carta pesta che gli permette di evidenziare il concetto di riciclo a livello oggettivo e simbolico. Siamo di fronte ad una tavola finemente imbandita che parla della bellezza della vita attraverso oggetti semplici che, evocando lo scorrere del tempo, ne riflettono una immagine poetica.
Anche Samira Alikhanzadeh (1967) invita a riflettere sul tempo futuro ricordando il passato… Le foto di famiglia sono al centro della sua ricerca e materia prima delle sue installazioni. Nella serie Hanger (appendiabiti) Alikhanzadeh stacca i ritratti dallo sfondo di vecchie foto e le monta su una rete metallica che simula la sagoma di un abito femminile. L’obiettivo è condurre lo spettatore a cercare una narrazione visiva e di andare oltre la semplice osservazione della foto. La manomissione delle immagini per l’artista rappresenta un modo per analizzare i concetti di identità e memoria.
[Francesca Di Giorgio]
Padiglione della Repubblica Islamica dell’Iran
Of Being and Singing
Reza Lavassani, Samira Alikhanzadeh, Ali Meer Azimi
Curatore: Ali Bakhtiari
Commissario: Hadi Mozafari, General Manager of Visual Arts Administration of Islamic Republic of Iran.
Sede: Fondaco Marcello, San Marco 3415
Filippine
Un sistema di isole a specchio, in numero infinito, metafora geografico-culturale abile nel mettere in dialogo emozioni intime e contrastanti; terre alla deriva capaci come l’arte di tenere a galla l’immaginario sia privato sia comune. Mark O. Justiniani – filippino classe 1966, noto soprattutto a partire dagli Anni ‘80 e ‘90 insieme ad artisti-attivisti come Abay (Artista ng Bayan) e Sanggawa (1994), e parte del Salingpusa Art Group – pone l’attenzione sulla percezione del reale, configurando lo spazio in maniera vacillante, in relazione al tempo e soprattutto al viaggio, concreto ma anche interiore, modificando la visione in costruzione della realtà. Egli ha scelto di rappresentare le Filippine con un’opera interattiva semplice e al contempo complessa; una scultura calpestabile che pone in essere un’ulteriore dimensione, quella interiore, che diviene via via parte integrante dell’opera rendendo tangibili – seppur non codificabili – le sensazioni private messe in circolo dagli svariati fruitori. Le sue isole sono luoghi infiniti nel tempo, la cui realtà non nega il loro essere impossibili ed in cui l’illusione evidente non è sufficiente a placare le reazioni sensibili di chi accetta di praticare il viaggio, alla volta della percezione dello spazio e del tempo, che proietta il sé al centro della terra e contemporaneamente all’inizio dei tempi. Justiniani, con maestria ed una mescola di delicatezza e violenza, crea luoghi immaginari e nuovi, capaci di riscrivere la loro storia grazie ad un riflesso infinito che porta lo spettatore ad un conflitto fra ragione e sentimento.
[Viviana Siviero]
Padiglione delle Filippine
Mark O. Justiniani. Island Weather
Curatore: Tessa Maria T. Guazon
Commissario: NCCA National Commission for Culture and the arts / Virgilio S. Almario
Sede: Artiglierie, Arsenale
Info: www.philartsvenicebiennale.com