VENEZIA | 58. Esposizione Internazionale d’Arte – May You Live In Interesting Times | Fino al 24 novembre 2019
a cura di Livia Savorelli*
HITO STEYERL
Monaco, Germania, 1966. Vive e lavora a Berlino.
Tra le artiste che risultano vincenti in questa Biennale, c’è sicuramente la tedesca Hito Steyerl. Grande smascheratrice delle dittature dei poteri economici e dei meccanismi occulti che si celano dietro lo sviluppo delle IA (Intteligenze Artificiali), cui anche l’arte contemporanea inizia ad aprire le porte, la Steyerl sottolinea come grandi aziende stiano sviluppando determinate tecnologie – insieme all’industria bellica e fuori da considerazioni di ordine morale o normative ben definite – essendo solo mosse dalla logica del profitto e lasciando totalmente fuori dal dibattito quella stessa società su cui ricadranno le conseguenze. Attraverso l’installazione Leonardo’s submarine, presentata al Padiglione Centrale, l’artista seguendo il percorso tracciato da autori come Jules Verne o Philip K. Dick si fa portavoce di un futuro su cui ci invita a riflettere.
Di forte impatto l’installazione ideata per l’Arsenale, This is the Future, entro la quale ci si addentra – attraverso delle passerelle sopraelevate che richiamano quelle usate durante l’alta marea a Venezia – in un giardino che una donna cerca di preservare, nascondendolo nel futuro, pieno di fiori digitali dalle cromie e forme sensuali. Ma il giardino è, di fatto, perso nel futuro, perché il futuro stesso deve essere ancora scritto. I fiori gemmano, sbocciano, sfioriscono, senza mai esistere davvero, protagonisti di un loop vitale che non troverà mai un reale svolgimento. Il messaggio è chiaro: l’intelligenza artificiale non è in grado di predirre il futuro ma solo di individuare esiti probabili di ciò che è prevedibile. Un chiaro invito a riporre le speranze per un futuro migliore nell’automazione.
TAVARES STRACHAN
Nassau, Bahamas, 1979. Vive e lavora a New York e Nassau.
Tra le tematiche predilette nell’opera di Tavares Strachan, ci sono i viaggi spaziali. Ricorrenti infatti, nei suoi collage, i riferimenti allo spazio, con astronauti e razzi fiammeggianti.
Dopo aver ottenuto una borsa di studio dall’Art Technlogy Lab del Los Angeles County Museum of Art nel 2014, Strachan inizia a lavorare per un’azienda privata che si occupa di tecnologia spaziale, la SpaceX. Inizia così a documentarsi su Robert Henry Lawrence Jr., il primo astronauta afroamericano morto in un incidente avvenuto nel 1967 durante un’esercitazione, rimasto praticamente invisibile nella storia dei viaggi aerospaziali americani. Delle tre opere presenti in Arsenale, vogliamo porre la nostra attenzione sull’opera Robert Henry Lawrence Jr, un murale al neon che rappresenta un breve necrologio svelante il razzismo di cui l’astronauta è stato vittima.
SUN YUAN E PENG YU
Repubblica Popolare Cinese, 1972 e 1974. Vivono e lavorano a Pechino.
Il duo di artisti cinesi, che lavora insieme dal 2000, crea installazioni che evocano meraviglia e tensione nel pubblico, considerando l’interazione dello stesso come l’elemento costitutivo delle loro opere.
Nel Padiglione Centrale ai Giardini, il duo presenta Can’t Help Myself, la prima opera robotica commissionata dal Guggenheim di New York che inpiega un robot industriale, sensori di riconoscimento visivo e sistemi software: esso ha un ruolo specifico, quello di contenere entro certi spazi la fuoriscita di un liquido vischioso e rossastro che sembra essere sangue. In un mondo in cui il rapporto uomo-macchina evolve rapidamente, gli artisti riproducono territori in cui la realtà è sempre più automatizzata e gestita dalle macchine. La domanda che evocano può essere così riassunta: chi è più vulnerabile, l’umano che ha costruito la macchina o la macchina controllata da un essere umano?
KEMANG WA LEHULERE
Città del Capo, Repubblica del Sud Africa, 1984. Vive e lavora a Città del Capo.
Il lavoro dell’artista sudafricano Kemang Wa Lehulere si basa sul concetto di collettività, attraverso un lavoro socialmente impegnato che richiede una contemplazione condivisa. Così è anche per la monumentale installazione all’Arsenale Dead Eye. Al centro, una struttura ascensionale, illuminata dal basso e composta da una moltitudine di piccoli dischi di legno pendenti dal soffitto, le cui ombre si proiettano sulle pareti circostanti. Questi dischi – realizzati con il legno dei banchi di scuola di recupero – rappresentano le porte delle casette per uccelli che l’artista utilizza nella sua ricerca, incentrata sul concetto di casa e, conseguentemente, sul suo abbandono a seguito delle leggi razziali imposte dall’apartheid. Nelle pareti intorno, calchi di mani la cui gestualità evoca alcuni simboli della lingua dei segni, nessuna parola solo una silente cacofonia che evoca l’assurdità di un’epoca. Si tratta dei calchi delle mani della zia dell’artista, colpita alla testa da un proiettile di gomma durante le proteste degli studenti in Sudafrica nel 1976: a seguito delle ferite gravissime riportate la donna potè essere riconosciuta solo dalle mani; esse quindi sono l’emblema del silenzio intercorso tra l’artista e la zia che lo ha cresciuto.
ANICKA YI
Seul, Repubblica di Corea, 1971. Vive e lavora a New York.
La ricerca dell’artista coreana Anicka Yi si ispira alle recenti ricerche sulla biologizzazione della macchina, cercando risposte su come stabilire nuovi canali di comunicazione tra le intelligenze artificiali (AI) e le forme di vita organiche.
All’Arsenale presenta la suggestiva installazione Biologizing the Machine (tentacular trouble) che rivolge il proprio sguardo alle alghe, considerate la maggiore biomassa sul pianeta (anche in riferimento a Venezia e al suo degrado per la melma marina e la muffa): forme organiche e luminose simili a crisalidi che pendono dal soffitto – e che, in alcuni casi, contengono degli insetti elettromeccanici le cui ombre sono osservabili ad intermittenza – con adagiate sacche di liquido amniotico, si contrappongono a crateri colmi di acqua, anch’essi un chiaro riferimento all’acqua e al passato navale di Venezia.
Nell’ambivalenza vita/morte, in uno scenario in cui non si può chiudere gli occhi davanti alla crisi ambientale, l’artista ci indica la via per un futuro quanto mai prossimo, in cui tutte le specie viventi divengono inevitabilmente collegate.