Intervista a BIANCO-VALENTE di Francesca Di Giorgio*
Per usare un’immagine che spesso hanno utilizzato con modi e finalità differenti, avvicinarsi ad un’opera di Bianco-Valente è come guardare una mappa dall’alto, una veduta satellitare, più ci si avvicina più emergono altri particolari, non sempre immediati, ad un primo sguardo di insieme. Il fatto che il loro modo di lavorare esista in quello “spazio sottile” tra sperimentazione e rappresentazione, porta a condensare la visione su come avviene il passaggio tra l’idea e la messa in pratica.
«Nasce tutto dal porsi in dialogo con ciò che sentiamo e immaginiamo, si tratta di uno scambio continuo fra noi due, in quanto oltre al lavoro condividiamo anche la vita. Siamo due entità ben distinte che guardano l’esistente da prospettive diverse, così come diverse sono le intuizioni e le sensibilità, e la sfida è sempre quella di integrare le visioni, i gesti, le parole, provando a produrre nuovo senso».
In un periodo storico che ragiona per risultati e produzione, Bianco-Valente si concentrano sugli aspetti immateriali che, ancor più degli oggetti, sono responsabili nell’attivare trasformazione sociale e culturale.
Il vostro è un dialogo ininterrotto con i luoghi, a partire da quello che vivete quotidianamente…
Parliamo di Napoli, come si può pensare di vivere con indifferenza in un luogo così particolare che lascia intravedere, nelle sue architetture e nel modo di vivere insieme dei suoi abitanti, 2.500 anni di stratificazioni storiche e sociali ed è ancora in grado di esprimere tanta vitalità, poesia e insolenza? Non si può, ed è proprio questo il punto, Napoli non può essere il posto dove si finisce a vivere per caso, è una città che devi scegliere, devi entrare in risonanza con le grandi energie che la permeano, altrimenti saranno queste stesse forze a renderti la vita impossibile.
Vivere in questa città può essere molto faticoso, in quanto è un luogo che incarna enormi contraddizioni che vengono però affrontate con assoluta naturalezza, creando un’atmosfera unica, imprevedibile e molto stimolante.
Ma noi siamo anche il frutto di due famiglie emigrate, con la maggior parte dei legami familiari sparsi fra Francia, Svizzera, Germania e Nord Italia e conosciamo bene anche il legame incerto con il luogo d’origine, tipicamente un paese delle aree interne del Sud che continua a svuotarsi e che in parte si ripopola solo nei mesi estivi. In quelle poche settimane tutti provano a riannodare i fili che, a ogni nuova generazione, continuano a sfilacciarsi e a spezzarsi, indebolendo ulteriormente l’identità comunitaria e il senso dei luoghi stessi. Queste sono le ragioni per cui nel tempo il nostro sguardo si è rivolto con sempre maggiore attenzione ai motivi che tengono le persone legate ai propri territori, sviluppando sempre più progetti sui luoghi e sulle comunità che li animano.
Vi nutrite di storie e incontri. Riflettiamo ancora sulla forma del “racconto”?
Nel corso dell’evoluzione ci siamo differenziati dagli altri primati proprio articolando le prime parole che andavano a strutturare una forma di linguaggio, quest’ultimo ci ha permesso di comunicare con altri individui, in maniera sempre più precisa, le esperienze, le intuizioni e le visioni legate ai sogni e al trascendente.
Il legame che ha di fatto unito i primi gruppi sociali è stato proprio lo scambio delle esperienze, avvenuto sotto forma di racconti, e ne è rimasta una traccia indelebile nel nostro cervello che si è evoluto sviluppando una marcata dipendenza dalle storie, attraverso cui ricaviamo molti elementi utili per la comprensione della realtà che ci circonda. Già da piccoli pretendiamo che ci raccontino una favola ogni sera e crescendo continuiamo a soddisfare questo nostro bisogno ancestrale con i libri, il cinema, la tv e ovviamente incontrando gli amici. Anche le religioni vengono raccontate come delle grandi storie epiche, e non è certo un caso. Conoscere una persona significa spendere del tempo per scambiare con essa i racconti legati alle proprie esperienze e alle proprie aspirazioni, e non è mai un processo a senso unico.
L’ascolto è anche atto di fiducia…
Quando lavoriamo con una comunità o un gruppo di persone per creare un intervento site-specific facciamo un passo indietro, diventando un tramite. Assecondando la naturale propensione al racconto, stimoliamo le persone affinché rendano manifesta una parte del proprio immaginario e che, attraverso le parole ci illustrino i desideri, le paure e le aspirazioni che custodiscono dentro di loro. Ogni volta cerchiamo il modo migliore per intrecciare insieme queste visioni e dare vita ad una nuova opera che rappresenti il sentire di quel luogo e della comunità che lo abita.
La dimensione “micro” e “macro” per Bianco-Valente?
La maggior parte delle opere che realizziamo hanno la caratteristica di strutturarsi su più livelli di lettura, alcune appaiono estremamente semplici o sembrano incarnare unicamente una connotazione estetica, mentre invece sono il frutto di approfondite riflessioni. Per esempio Breviario del Mediterraneo è un’opera che abbiamo realizzato recentemente ispirati dalla lettura di Breviario mediterraneo di Predrag Matvejević, in cui l’autore indica le similitudini (ma anche le tante differenze) che caratterizzano le diverse popolazioni che si affacciano sul Mar Mediterraneo, mettendole in relazione con le innumerevoli sfumature di colore che assumono le sue acque, a seconda della latitudine, del fondale, dell’ora e ovviamente del colore del cielo che si riflette sulla sua superficie.
Queste sfumature vanno a comporre l’immaginario che associamo all’idea di Mediterraneo a cui i pubblicitari si sforzano di dare un corpo univoco, infatti il solo colore del mare in una certa località può essere l’elemento che ci spinge a raggiungerla.
Siamo partiti da questi presupposti per realizzare il nostro Breviario del Mediterraneo, partendo dalle fotografie pubblicate sui cataloghi delle agenzie di viaggio che pubblicizzano gli alberghi e i villaggi turistici, in cui il mare appare sempre di tonalità molto sature di azzurro, blu, verde ecc…
Abbiamo ritagliato centinaia di queste fotografie, ricavandone moltissime strisce con diverse sfumature di colore che abbiamo incollato insieme per comporre un grande collage che intende riassumere l’immaginario visivo del Mediterraneo.
Ad un primo sguardo questa potrebbe sembrare un’opera digitale, mentre invece è stata interamente realizzata a mano.
La vostra ricerca di carattere sociologico vi ha portato ad elaborare un progetto per Manifesta12 a Palermo, che si innesta in un tema di particolare attualità: il Mediterraneo inteso come punto di incontro tra passato e presente, analizzato dal punto di vista della cartografia. In cosa consiste Terra di me?
Il progetto realizzato a Palermo, attualmente in mostra a Palazzo Branciforte, è frutto di una serie di riflessioni su come sia cambiata l’idea di Mediterraneo nel corso dei secoli, da quando in epoca classica è stato il tramite attraverso cui è nata e si è potuta diffondere la cultura occidentale, ai nostri giorni, in cui alcuni vorrebbero rinnegare la natura stessa del Mare di mezzo, paragonandolo ad una barriera invalicabile.
Parte di questo progetto sono stati dei laboratori durante i quali abbiamo realizzato una serie di opere con un gruppo di quindici giovani donne e uomini migranti che questo mare lo hanno attraversato, portandoci in dote il loro essere persona, la loro cultura e le loro lingue. Più che sviluppare un lavoro di cronaca, riportando le loro esperienze di viaggio, abbiamo deciso di lavorare su ciò che essi immaginavano dell’Italia prima di affrontare il loro viaggio e su come questo immaginario si sia potuto adattare o si sia totalmente infranto nel confronto con la realtà. Un altro elemento che abbiamo voluto evidenziare riguarda la perdita dell’identità, una totale spersonalizzazione che subisce ogni migrante quando arriva in Italia o in Europa, in quanto da molti non viene più considerato come una persona, ma come un problema generico da risolvere.
A Cielo Aperto è il progetto decennale d’arte pubblica che, insieme a Pasquale Campanella/Wurmkos, curate per l’Associazione Culturale Vincenzo De Luca di Latronico. Opere site-specific di artisti diversi, nate grazie alla relazione e al dialogo con gli abitanti e con il territorio di Latronico. Ridefinite un rapporto tra abitanti e territorio attraverso l’Arte Partecipata?
L’idea di A Cielo Aperto è quella di invitare gli artisti ad uscire dal loro studio creando l’occasione per un confronto con Latronico e le persone che ci vivono, l’unica condizione che poniamo è che l’opera o la performance da realizzare nel paese lucano sia il frutto del mettersi in relazione con quel luogo e le sue peculiarità sociali, storiche, architettoniche o naturalistiche. Si viene così a creare uno scambio fra gli abitanti e gli artisti, molto spesso le opere vengono concepite attraverso l’interazione diretta con la comunità anche attraverso attività laboratoriali svolte in estate, e quando l’opera viene poi allestita in maniera permanente nello spazio pubblico le persone tendono a riconoscerla come “propria” e non come un elemento calato dall’alto. Gli abitanti di Latronico sono ormai abituati ad un rapporto quotidiano con i diversi segni lasciati dai vari artisti negli anni, alcuni tangibili che incrociano nei loro spostamenti per le vie del paese, altri che fanno ormai parte dell’immaginario collettivo, come la Pericolosa tigre a Latronico ideata da Giuseppe Teofilo come campagna di affissione. Provate a venire a Latronico e a chiedere alle persone della “tigre”, toccherete con mano quanto questo progetto temporaneo di dieci anni fa, faccia ormai parte del vissuto di ogni latronichese. E la stessa cosa si può dire per ogni progetto sviluppato da artisti o performer a Latronico, non importa se permanente o temporaneo, ciò che conta è l’esperienza e il grado di partecipazione delle persone.
*Intervista tratta da Espoarte #102.
Info: www.bianco-valente.com